Regia: Luca Guadagnino. Soggetto: Alain Paige.
Sceneggiatura: David Kajganich. Fotografia: Yorick Le Saux. Montaggo: Walter
Fasano. Scenografia: Maria Djurkovic. Costumi: Giulia Piersanti. Produttori:
Michael Costigan, Luca Guadagnino. Produttori Esecutivi: Olivier Courson, Ron
Halpern, David Kajganich, Marco Morabito. Case di Produzione: Frenesy Film
Company, Cota Film, Mibact, Sicilia Film Commission. Distribuzione: Lucky Red. Durata:
120’. Genere. Drammatico. Interpreti: Ralph Fiennes (Harry Hawkes), Tilda
Swinton (Marianne Lane), Dakota Johnson (Penelope Lanier), Matthias Schoenaerts
(Paul De Smedt), Aurore Clémente (Mireille), Corrado Guzzanti (maresciallo dei
carabinieri), Elena Bucci (Clara), Lily McMenamy (Sylvie)
A Bigger Splash vorrebbe essere una sorta di remake de La piscina
(1969) di Jacques Deray, un omaggio a una pellicola che vedeva protagonisti
Alain Delon, Romy Schneider, Maurice Ronet e Janet Birkin. La storia è molto
simile, quasi ricalcata pedissequamente - e non se ne comprende l’utilità - a
parte la suggestiva ambientazione siciliana e i collegamenti con il mondo della
musica rock. In breve la storia. Marianne Lane (Swinton) è una grande rockstar,
operata alle corde vocali si reca a Pantelleria con il giovane fidanzato Paul
(Schoenaerts), fotografo, ex alcolista e aspirante suicida. Un bel giorno
arriva Harry (Fiennes), produttore discografico e vecchio amante di Marianne, con
la figlia Penelope (Johnson). Comincia una strana storia di seduzioni incrociate,
una certa simpatia pare rinascere tra Harry e Marianne, cosa che manda in crisi
Paul. Finale melodrammatico quanto comico - una caratteristica dei film di
Guadagnino - con la scazzottata in piscina tra Harry e Paul e la morte del
primo, annegato dal secondo. I carabinieri indagano, ma un buffo Guzzanti - che
quando parla siciliano sembra Franco Franchi - non giunge a capo di niente, in
compenso insegue la diva del rock sotto la pioggia per chiederle un autografo. La
figlia del defunto rientra a casa in aereo mentre la coppia dei fidanzati è
libera di tornare alla propria vita.
Fischi a non finire a Venezia, più che
meritati, pure se agli americani - di bocca buona - pare che questa storia
raffazzonata e mal copiata da un vecchio film sia piaciuto un sacco. Pochi i
pregi di un lavoro inutile: la fotografia sicula (che si fa da sola), la
colonna sonora e gli attori, tutti piuttosto bravi (a parte Guzzanti che è
penoso) ma diretti senza nerbo e costretti a recitare un copione strampalato.
La sceneggiatura è prevedibile e insulsa, il montaggio è lento e compassato, la
tecnica di regia molto più classica del precedente Io sono l’amore, ma sempre condizionata dall’uso frenetico del
piano sequenza, della soggettiva, della panoramica documentaristica, dei particolari
inutili e dei primissimi piani. I film di Guadagnino cominciano con buone
speranze, si perdono con il passare dei minuti, naufragando in un mare di
banalità, approdano a finali sconcertanti, eccessivamente drammatici, da
rasentare il trash e la comicità involontaria. Lavori esteticamente perfetti,
meri esercizi di stile che non lasciano niente, se non un senso di fastidio per
il tempo sprecato nel seguire i voli pindarici di un imitatore di Antonioni. A Bigger Splash è davvero il niente fatto
cinema, pellicola sprecata avrebbe
detto Fernando di Leo.
Regia: Luca Guadagnino. Soggetto: Luca Guadagnino.
Sceneggiatura. Barbara Alberti, Ivan Cotroneo, Walter Fasano, Luca Guadagnino.
Fotografia: Yoricl Le Saux. Montaggio: Walter Fasano. Produttori: Luca
Guadagnino, Tilda Swinton, Alessandro Usai, Francesco Melzi d’Eril, Marco
Morabito, Massimiliano Violante, Candice Zaccagnino, Silvia Venturini Fendi,
Carlo Antonelli. Produttore Esecutivo: Minnie Ferrara. Casa di Produzione:
First Sun, Mikado Film, Rai Cinema, La Dolce Vita Production, Pixel Dna.
Distribuzione: Mikado Film. Effetti Speciali: Visualogie. Musiche: John Adams
(supervisione di Jen Moss). Scenografia: Francesco Di Mottola. Costumi:
Antonella Cannarozzi. Trucco: Fernanda Lucia Perez. Interpreti: Tilda Swinton
(Emma Recchi), Flavio Parenti (Edoardo Recchi junior), Edoardo Gabbriellini
(Antonio), Alba Rohrwacher (Elisabetta Recchi), Pippo Del Bono (Tancredi
Recchi), Maria Paiato (Ida Marangon), Diane Fleri (Eva Ugolini), Waris
Ahluwalia (Mr. Kubelkian), Mattia Zaccaro Garau (Gianluca Recchi), Chiara
Tomarelli (Anita Toffoli), Emanuele Cito Filomarino (Gregorio Sanfelice),
Giangaleazzo Visconti Di Modrone (Andrea Tavecchia), Gabriele Ferzetti (Edoardo
Recchi senior), Marisa Berenson (Allegra Recchi), Claudia Monicelli Bagnarelli
(signora Gralieni).
Tutti parlano di Luca Guadagnino (Palermo, 1971) dopo
le quattro nomination al Premio Oscar
per il suo Chiamami col tuo nome
(2017). Non mi posso limitare a dire che ho visto soltanto Melissa P (2005) e che l’ho trovato un film supponente e inutile,
quasi peggiore del romanzetto da cui è stato tratto. Finisce che mi vado a
vedere Io sono l’amore (2009),
girato cinque anni dopo, consigliato da amici critici - reperibile su Rai
Replay -, del quale le cronache riferiscono un
grande successo di critica e di pubblico. Devo cambiare mestiere, anzi no,
va bene così, ché questo non è il mio mestiere, soltanto una passione. Un film
che nasce da un soggetto originale di Guadagnino, sceneggiato da ben quattro
autori (Alberti, Cotroneo - mi sorprende in negativo, purtroppo! -, Fasano e il
regista), in sette anni di lavoro (sic!), prima della distribuzione in sala,
avvenuta nel 2010. Un film che racconta le tragiche vicende economico - amorose
della ricchissima famiglia Recchi, dopo la morte del nonno (Ferzetti, in uno
dei suoi ultimi ruoli), che lascia tutto nelle mani del nipote Edoardo
(Parenti) e del figlio Tancredi (Del Bono). La sostanza nel film sta in due
storie d’amore radicalmente diverse: la figlia Elisabetta (Rohrwacher), che
lascia il fidanzato per vivere la sua vera natura e un felice amore omosessuale;
la madre Emma (Swinton) che s’innamora perdutamente del cuoco Antonio
(Gabbriellini), giovane amico del figlio. Finale melodrammatico, che sfiora il
ridicolo, con la morte del figlio, il funerale, la confessione del tradimento e
la fuga con il giovane amante.
Film girato a Milano, Sanremo, Dolceacqua,
Castel Vittorio, Buggio e persino Londra, con gran dispendio di risorse.
Incasso italiano modesto (240 mila euro), grande successo statunitense, di
critica e di pubblico, con nomination
all’Oscar per i costumi e partecipazione di Carlo Cracco per la confezione dei
piatti serviti in tavola. Tra gli attori molto bene solo Ferzetti, Swinton e
Rohrwacher, sul resto del cast meglio stendere un pietoso velo.
Veniamo al film. La sola trovata interessante è
reperibile nelle sequenze iniziali, con un alternarsi di dissolvenze che
mostrano Milano sotto una coltre di neve - in un gelido bianco e nero - e il
grigiore della casa borghese, fotografata in un cupo giallo ocra. L’incipit
farebbe ben sperare, anche perché Ferzetti è un grande attore, capace di
incantare lo spettatore con la forbita dizione, purtroppo l’arrivo del sole
dissolve la neve a Milano insieme a tutte le nostre speranze di vedere un film
degno di questo nome. Guadagnino procede con studiata lentezza, convinto di
essere Visconti o Antonioni - tanto tanto Bertolucci - mentre sprofonda nel
ridicolo più totale. Soggettive assurde, piani sequenza a non finire, macchina
a mano nervosa, primissimi piani degli occhi e di inutili particolari, buttati
lì come se fosse un film di Sergio Leone. Viene da chiedersi se stiamo
guardando un film o un mero esercizio di stile di un regista che deve superare
un esame e vuol far capire di aver studiato i classici.
Un film pretenzioso,
eccessivo, infarcito di sequenze così originali da diventare fastidiose, perché
Guadagnino sceglie sempre il modo peggiore di raccontare le cose, il più
astruso, il meno immediato, quello volutamente complesso. Un film che diventa
irritante nella parte finale - a meno che non si prenda a ridere e si trasformi
in un cult della comicità involontaria - quando il melodramma posticcio non
commuove nessuno, ma indispone per il disprezzo dimostrato dagli sceneggiatori
nei confronti del pubblico. Assurda la sequenza della morte di Edoardo dopo la
lite con la madre, ancor peggiore tutta la parte del funerale e della fuga
materna, incredibilmente strampalato il finale, che giunge dopo i primi titoli
di coda e ritrae - con un simbolismo che ha capito solo il regista - i due
amanti maledetti, lontani dal mondo, finalmente soli con il loro amore. Un film
da evitare come la peste, a meno che non vogliate farvi del male, come un
commensale che decide di mangiare peperonata con le cozze per cena o piccante
cibo messicano. Indigesto. Indigeribile. La speranza è che Chiamami col tuo nome sia migliore, ma viste le premesse…
IL TRAILER DEL FILM SU YOUTUBE:
Per vederlo su RAI: http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-129ddb5b-542e-4c77-91f2-7624f1e45dfc.html
Avevamo già visto il film Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick, candidato
all’Oscar come miglior pellicola di animazione, basato sul romanzo di Neil
Gaiman, quindi conoscevamo la storia che in parte si discostava dal testo
narrativo, arricchendolo di personaggi e situazioni. La versione a fumetti non
aggiunge novità sensibili, toglie il bambino amico e conserva il gatto nero, ma
la vicenda è identica, con una ragazzina intraprendente e sognatrice come Coraline,
costretta a vivere in una villa solitaria, soprattutto a fare i conti con i
demoni della sua mente - reali o immaginari non è dato sapere - e con genitori alternativi
che vivono in una dimensione parallela, oltre una porta magica. Una storia
fantastica, a tinte horror, una fiaba nera dove la strega della situazione
sfoggia bottoni al posto degli occhi e chi viene catturato si trova a subire identica
terribile operazione oculistica. Un fumetto (un film, un romanzo) strano,
bizzarro, spaventoso, ma forse il linguaggio del graphic novel stempera la parte horror che nel cartone animato in 3
D era più evidente. I disegni di Craig Russell sono molto classici, come sono
classiche sceneggiatura e suddivisione in vignette; suggestivo il colore di
Lovern Kindzierski, con un sottofondo rosso porpora dal taglio horror. Storia
ben tradotta per NPE da Annunziata Ugas e Smoky Man. Edizione in carta lucida, formato
libretto tascabile, molto curata, prezzo economico, considerato che il pocket è
tutto a colori, inoltre va pagato un traduttore e i diritti di acquisizione non
devono essere stati uno scherzo. NPE è un piccolo grande editore che sta
facendo cose buone nel campo del fumetto, tra ben ponderate ristampe di
classici italiani e azzeccate novità internazionali. Forse un recupero
fumettistico manca all’appello nel quadro editoriale: la produzione Bianconi
degli anni Sessanta, primo tra tutti il Braccio di Ferro di Sangalli, un tempo
tradotto in tutta Europa. Noi la buttiamo lì come idea. Hai visto mai?
La cultura giapponese e
manga ha conquistato a tal punto l’immaginario dei nostri giovani che
promettenti disegnatori s’inventano serial manga ambientati in Giappone, così
ben disegnati - a imitazione degli originali - da sembrare veri fumetti del Sol
Levante. Tsuburaya e Toriyama si prendono per mano, guardando Tanizaki e
Shinka, in questo fumetto scritto e disegnato da una fantasiosa artista
italiana che si firma con il nicknamemade in japan di Lexy Mako. Il
fumetto racconta la storia di un disegno che prende vita grazie a un
personaggio chiamato Il Disegnatore, un folle individuo che non vuole
conquistare il mondo come i cattivi di una volta, il suo scopo è molto più
limitato: diventare famoso disegnando fumetti sempre più coinvolgenti e
affascinanti. Per far questo ha bisogno di Eight Nine, futura mascotte del sito
internet che pubblicherà i disegni, ma deus
ex machina di una storia che si sviluppa secondo la miglior tradizione dei
manga e degli anime, tra misteriose apparizioni, fantastiche presenze
orrorifiche e un inquietante passato dei personaggi. Non siamo che al primo
volume di una serie che si presenta abbastanza complessa e che non mancherà di
fornire colpi di scena. Lo stile è classico - per quanto può esserlo un manga -
disposizione delle vignette stile Marvel anni Settanta con la tavola divisa in
6 - 7 riquadri, a volte persino 9, con rare splash
pages (paginoni giganti, iniziali). Bianco e nero con chiari scuri, figure
femminili molto ben tratteggiate, personaggi curati e ben delineati nel
carattere. Per quanto posso intendermi di fumetto (soprattutto manga) apprezzo
una storia avvincente, ricca di colpi di scena che fa venire voglia di
proseguire nella lettura. Editore piccolo, ma specializzato nel genere - www.kasaobake.it
- che crede nelle giovani promesse del fumetto italiano. Ordinatelo in
fumetteria, o sul sito della casa editrice, dotato di un magazzino telematico
molto ben fornito. Ne vale la pena.
Parlare
di Sacha Naspini è per me facile e complesso, al tempo stesso. Facile perché
conosco la sua scrittura da sempre: ero nella giuria di un premio locale
quando ho apprezzato uno dei suoi primi racconti e lui non aveva ancora
pubblicato niente, sono stato tra i primi a leggere L'ingrato, che ho promosso da editore insieme a I sassi, due delle sue novelle migliori,
del respiro adeguato per essere apprezzati in pochi giorni di lettura. Complesso
perché in parte considero Naspini una mia scoperta - pure se lui è autorizzato
a replicare come Franco Franchi, quando gli chiedevano se l’avesse
scoperto Mattòli o Modugno: “Mi ha scoperto soltanto la levatrice!”.
Rischio di non essere obiettivo, quindi, ma penso di riuscire a superare questo
empasse facendovi assaggiare un breve passaggio della sua scrittura: “La
Maremma ha questo di tremendo: all’inizio si presenta con il muso bello, per
entrarti nelle grazie. Poi non ti lascia più, mostrandosi per la belva che è.
Un giorno ti accorgi che la provincia ti si è ficcata nelle vene e allora tenti
subito un passo d’impulso per scrollartela di dosso. Ma ormai ti hanno legato
le stringhe. Quel che ne ricavi è solo una botta di bazza sul sasso della
chiesina, tanto per cominciare”. Oppure: “Ogni angolo di Maremma è fatto così.
Ti urla nel corpo, nel brutto e nel bello. La gente di questa regione ha la
pelle dura, specie dal didentro, dove a volte si ispessisce come la cotenna
delle bestie. Anch’io vengo da quello stampo”. E infine: “Casa vostra sa di
brodo e legno ammuffito. Ma c’è anche un aroma di fondo che fa pensare al
piscio di gatto, eppure in giro non ce n’è mezzo”. Sarà perché anch'io son di
Maremma, ove uccello che ci va perde la
penna, sarà perché certi racconti che profumano di Cassola e Bianciardi
passando per Tozzi e Cavoli, ma persino per Vergari e Zannoner, mi entusiasmano
e mi commuovono, mi fanno riscoprire le mie radici, ma penso davvero che la
vera letteratura di Naspini stia proprio da queste parti. Le sue cose migliori
hanno il sapore del pane scuro maremmano, soffrono il sudore dei minatori di
Ribolla e le lacrime delle madri che attendono i figli di ritorno dai
campi funestati dalla malaria. Ecco perché ritengo, per esempio, Il gran
diavolo solo un buon esercizio di artigianato narrativo, ché Naspini è uno
sceneggiatore nato, tu gli dai in mano una storia e lui sa scrivere di tutto,
mentre Le case del malcontento è letteratura pura. Tutto nasce da L'ingrato
(Il Foglio, 2006), con il personaggio del maestro Calamo e la riuscita
ambientazione nel paesino immaginario con il coro delle pettegole e delle
malelingue, una sorta di breve anteprima del grande romanzo corale prodotto
oggi, che contiene tutto l’immaginario narrativo di Naspini. L’autore dà
voce alla Maremma ricorrendo a una serie di personaggi che vivono in un paese di
fantasia, tra Follonica, Roccastrada, Roselle e Montemassi, insomma un borgo collinare
del grossetano, che non esiste ma che potrebbe esistere, visto che rappresenta
molti luoghi reali. E i personaggi raccontano in prima persona le loro
esistenze, siano il medico, lo scemo del paese, il maestro, la prostituta, una
vedova, un contadino... Un esile collante lega le varie storie, ma il
protagonista è corale, ogni personaggio è il simbolo di un fallimento, di una
sconfitta, di una piaga tutta maremmana. Non ha molta importanza la trama e lo
sviluppo finale degli eventi, il colpo di scena - che pure troverete - la parte
nera e truce, quel che conta sono le vite narrate, come in una raccolta di
racconti maremmani di cassoliana
memoria. Un Ferrovia locale
contemporaneo, una Vita agra ancor
più agra di quella bianciardiana, un
podere di Tozzi dipinto a tinte fosche e senza speranza. Naspini va oltre il
già detto, s’inventa un linguaggio vero, preso dalla realtà contadina e
maremmana, si ispira ai classici ma confeziona un genere nuovo, una novella
nera che pesca nell’immaginario delle storie di paese e delle esistenze più
grame e derelitte. Ci ha confidato l’autore: “Ho voluto utilizzare il
meccanismo narrativo del piccolo che racconta il grande: a Le Case ci sono
tante sfumature dell’animale uomo sul pianeta Terra. Le Case è una sorta di
istinto collettivo dove sono messe in scena le luci e le ombre dell’essere
umano, giocando con tante zone grigie”. Credo che Naspini sia
perfettamente riuscito nell'intento, confezionando un romanzo potente e
disperato, ricco di personaggi maledetti che ricordano i protagonisti malandati
delle canzoni di De André (Non al denaro non all'amore né al
cielo) e le lapidi poetiche di Spoon River. Le case del malcontento sono una Spoon River maremmana, un microcosmo complesso di vite e di emozioni,
che riassume - superandolo e perfezionandolo - tutto il passato narrativo di
Naspini, non solo L’ingrato ma anche I sassi (uno dei personaggi è nato nello
stesso paese della protagonista femminile) e I Cariolanti (San Bastiano, il dottore che sega la gamba alla
madre…). Le case del malcontento è un
romanzo che vedrei bene candidato al Premio Strega, anche per dare un segnale nuovo:
tornare a leggere letteratura, che spesso - come il buon vino - è più facile
trovare nelle botti dei piccoli e medi editori, ancora profumate di rovere e di
sentori boschivi.
Credo di aver letto quasi tutti i libri di Mario Bonanno, che seguo dai
tempi in cui dirigeva una bella rivista musicale edita da Bastogi, dedicata
alla musica italiana e soprattutto ai cantautori, ma non a musicisti stile Pino
Daniele e Claudio Baglioni... solo a cantautori impegnati, i cui testi sono molto
vicini alla poesia. Al tempo stesso, ascolto Roberto Vecchioni dal 1970, ho
visto il mio primo concerto del professore, a Firenze, al teatro tenda di
Lungarno Moro, nel 1985. Fu una cosa stupenda. Ricordo ancora quando prima di
cantare Improvviso paese disse che quella canzone la conosceva soltanto
lui e che la metteva in scaletta per pochi intimi. La mia ragazza del tempo mi
prese per pazzo quando ripresi parola per parola, con le lacrime agli occhi, la
musica del cantautore milanese e andai avanti con E’ vero Fulvio/ dimmi che è vero/ quante hai saputo/ prenderne in giro..
. Ecco, tutto questo per avvisare che Ho sognato di vivere non è il
solito librettino che vi racconta quattro fesserie su Vecchioni, un po' di
pettegolezzi, le vicissitudini affettive legate alla singola canzone e
l'esegesi della scrittura. No davvero. Questo libro di Bonanno è un saggio
profondo e meditato sulla musica di Vecchioni, parte dell'idea che di poesia si
tratta - aiutata dalla sonorità delle note - e come tale la spiega, ricorrendo
alla filosofia di Bergson e alla letteratura di Borges, alla poesia di Rimbaud
e Verlaine, abbandonandosi a meditazioni sul tema del tempo, della morte,
della religione e della vita, analizzando parole e rime. Vecchioni è cultura
postmoderna in tutti sensi, capace di parlare in una stessa canzone di Carl
Barks e Moravia, di Paperino e di Ulisse, dell’Atalanta e del senso della vita.
Molte citazioni dai testi - anche i meno noti - di Vecchioni, ti fanno venire
voglia di andare a riascoltare l'intera produzione, ma troviamo anche documentate
appendici dove leggiamo l'interpretazione autentica del professore che
approfondisce le sue stesse parole. Un libro dedicato a chi conosce a fondo
l'opera di Roberto Vecchioni, uno dei nostri cantautori più interessanti, un
intellettuale - autore di romanzi profondi e di racconti intensi - a tutto
tondo, che non presenterà mai il Festival di Sanremo (per fortuna!) ma che (in
compenso) l'ha vinto. Non con la sua canzone più bella, che per me resta L'uomo che si gioca il cielo a dadi. Dedicata
a tutti i padri del mondo. Il libro costa 14 euro, prezzo poco accessibile per
un libro di 100 pagine, ma è in carta patinata e ci sono dieci pagine di foto a
colori. Se amate Vecchioni vale la pena, date retta…
Mario Bonanno
Ho sognato di vivere
Variazioni sul tema del tempo in Roberto Vecchioni
Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Collabora con Futuro Europa, Inkroci, La Folla del XXI Secolo, Valdicornia News, Le Cinéma Café e altre riviste. Dirige Il Foglio Letterario Edizioni. Traduce gli scrittori cubani Alejandro Torreguitart Ruiz, Felix Luis Viera, Heberto Padilla e Guillermo Cabrera Infante. Tra i molti lavori editi, ricordiamo: Nero Tropicale, Cuba Magica, Un’isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana, Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura, Almeno il pane Fidel, Mi Cuba, Fellini - A cinema greatmaster, Velina o calciatore, altro che scrittore!, Fidel Castro – biografia non autorizzata, Fame - Una terribile eredità, Storia del cinema horror italiano in cinque volumi, Soprassediamo! - Franco & Ciccio Story. Ha tradotto La ninfa incostante di Guillermo Cabrera Infante (Sur, 2012). I suoi romanzi più recenti sono: Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano e Sogni e altiforni - Piombino Trani senza ritorno (presentati al Premio Strega 2014, 2016, 2019). Lavori recenti a tema cinematografico: Gloria Guida, il sogno biondo di una generazione e Tutto Avati – Il cinema di Pupi Avati.