José Martí
Versos
sencillos
Versi
semplici
(1891)
New York,
1891
Lewis Weiss
& Co
Traduzione
di Gordiano Lupi
A Manuel Mercado, Messico
A Enrique Estrázulas, Uruguay
Nota
introduttiva
I miei amici sanno come mi sgorgarono dal cuore questi
versi. Fu durante quell’inverno angoscioso, nel quale per ignoranza, o per fede
fanatica, o per paura, o per cortesia, si radunarono a Washington, sotto le
insegne dell’aquila temibile, i popoli ispanoamericani. Chi di noi ha dimenticato
quello stemma, lo stemma in cui l’aquila di Monterrey e di Chapultepec,
l’aquila di López e di Walker, stringeva tra i suoi artigli tutte le bandiere americane?
E l’agonia in cui vissi mi tolse le forze ridotte da ingiusti dolori, fino a
quando non fui in grado di verificare la prudenza e l’entusiasmo dei nostri
popoli. Vissi nell’orrore e la vergogna, in cui mi fece cadere il timore
legittimo del fatto che noi cubani potessimo, con mani parricide, aiutare il
piano insensato di allontanare Cuba, nel solo interesse di un nuovo padrone
dissimulato, dalla patria che la reclama e nella quale si completa, dalla
patria ispanoamericana. Il medico mi spinse al monte: scorrevano torrenti, si
serravano le nubi: scrissi versi. A volte ruggisce il mare, irrompe l’onda
nella notte nera, contro le scogliere del castello insanguinato: a volte
sussurra l’ape, aggirandosi tra i fiori.
Perché pubblicare queste rime senza pretese, scritte
come per gioco, e non i miei più intensi Versos
Libres (Versi Liberi), i miei
endecasillabi irsuti, nati da grandi paure, da grandi speranze, da indomito
amore per la libertà, ebbri di doloroso amore per la bellezza, come un ruscello
d’oro naturale, che scorre tra sabbia, acque torbide e radici, come ferro
riscaldato, che fischia e scintilla, o come fontane incandescenti? E i miei Versos Cubanos (Versi Cubani), così pieni
di rabbia, che stanno meglio dove non si vedono? E tanti miei peccati nascosti,
tante prove ingenue e ribelli di letteratura? Non è il caso di mostrare adesso,
con l’occasione di questi fiori silvestri, un corso della mia poetica, dire
perché ripeto una consonante di proposito, o le graduo e raggruppo in modo tale
che vadano - tramite vista e udito - dirette al sentimento, o mi esalto per loro,
quando non chiede rime né sopporta rifiuti l’idea tumultuosa? Si stampano
questi versi perché l’affetto con cui furono accolti, in una notte di poesia e
amicizia, da alcune anime buone, li ha già resi pubblici. E perché amo la
semplicità, e credo nella necessità di porre il sentimento in forme piane e
sincere.
New York, 1891
José Martí
I
Sono un uomo sincero
di dove cresce la palma
e prima di morire desidero
cantare dell’anima i versi.
Io vengo da ogni parte,
E in ogni parte vado:
Arte sono tra le arti,
Nei monti, monte sono.
Conosco i nomi strani
Delle erbe e dei fiori,
E di mortali inganni.
E di sublimi dolori.
Ho visto nella notte oscura
Piovere sulla mia testa
I raggi di fiamma pura
Della divina bellezza.
Ali nascere nelle spalle
Vidi di donne belle:
E uscire da macerie,
Volando le farfalle.
Ho visto vivere un uomo
Con il pugnale nel costato,
Senza dire mai il nome
Di quella che l’ha ammazzato.
Rapida, come un riflesso,
Due volte vidi l’anima, due:
Quando morì il povero vecchio,
Quando lei mi disse addio.
Tremai una volta - nel cancello
All’entrata della vigna, -
Quando la barbara ape
Punse in fronte la mia bimba.
Godei una volta, in tal modo
Come non godei mai: - quando
La sentenza della mia morte
Lesse il direttore piangendo.
Odo un sospiro, tra
Tutte le terre e il mare,
E non è un sospiro, ma
Mio figlio si sta per destare.
Se mi dicono dal gioielliere
Di prendere la gioia migliore.
Prendo un amico sincero
E metto da parte l’amore.
Ho visto l’aquila ferita
Volare nel cielo sereno,
E morire nella sua tana
La vipera dal veleno.
So bene che quando il mondo
Cede, livido, al riposo,
Sopra il silenzio profondo
Mormora il torrente ombroso.
Ho posto la mano ardita,
D’orrore e giubilo tesa,
Sopra la stella sfinita
Che cadde in terra distesa.
Nascondo nel mio petto bravo
La pena che me lo ferisce:
Il figlio d’un popolo schiavo
Vive per lui, tace e perisce.
Tutto è bello e costante,
Tutto è musica e ragione,
E tutto, come il diamante,
Prima che luce è carbone.
So che lo sciocco si sotterra
Con gran lusso e gran pianto.
E che non c’è frutta in terra
come quella del camposanto.
Taccio, comprendo e mi tolgo
La pompa del rimatore:
Da un albero sfiorito colgo
La mia cappa da dottore.
II
Io so di Egitto, Negrezza,
Di Persia e Senofonte;
Ma preferisco la carezza
Dell’aria fresca del monte.
Io so di vecchie storie
Dell’uomo spesso ribelle;
Ma preferisco le api gaie
Volando tra le campanelle.
Io so del canto del vento
Tra i rami vociferanti:
Nessuno mi dica che mento,
Che lo preferisco tra tanti.
Io so di un daino spaventato
Che torna al recinto, poi spira,
E di un cuore affaticato
Che muore cupo e senz’ira.
III
Odio la maschera e il vizio
del corridoio del mio hotel:
Ritorno al mite brusio
Della mia selva d’alloro.
Con i poveri della terra
Voglio la mia sorte giocare:
Il torrente della sierra
Mi conforta più del mare.
Dai al vanitoso oro tenero
Che arde e brilla nel crogiolo:
A me dammi il bosco eterno
Quando in esso splende il sole.
Ho visto l’oro fatto terra
borbottare nell’ampolla:
Preferisco la mia sierra
quando vola una colomba.
Cerca il vescovo di Spagna
Pel suo altare un pilastro;
Nel mio tempio, nella montagna,
Il pioppo è il pilastro!
E il tappeto è pura felce,
E i muri son betulla,
E la luce vien dal tetto
Dal tetto di cielo azzurro.
Il vescovo, nella notte,
Esce, adagio, per cantare:
Monta, zitto, in vettura,
Che è una pina di pineta.
Le cavalle della carrozza
Son due uccelli azzurri:
E canta l’aria e folleggia,
E cantano le betulle.
Dormo nel mio letto di roccia
Il mio sonno dolce e profondo:
Sfiora un’ape la mia bocca
E cresce nel mio corpo il mondo.
Scintillano le grandi cornici
Al fuoco della mattina,
Che dipinge i drappeggi
Di rosa, violetta e cocciniglia.
Il clarino, solo nel monte,
Canta alla prima aurora
Il respiro dell’orizzonte
Prende, d’un sorso, il sole.
Dite al vescovo cieco,
Al vecchio vescovo di Spagna
Che venga, che venga dopo,
Al mio tempio, alla montagna!
IV
Io visiterò anelante
Gli angoli solitari donde
Andammo io e la mia amante
A spassarcela tra le onde.
Soli noi due fummo,
Soli, con la compagnia
Di due uccelli che vedemmo
Entrare nella grotta ria.
E lei, fissando gli occhi
Sulla coppia leggera,
Sciolse i gigli rossi
Che le dette la giardiniera.
La madreselva odorosa
Prese colle sue mani ella,
una madama graziosa,
un gelsomino come una stella.
Io volli, lesto e galante,
Aprirle il suo parasole:
E lei mi disse: “Che zelante!
Sì, oggi mi piace vedere il sole!”
“Mai così alti ho visto
Questi nobili querceti:
Qui deve stare il Cristo,
Perché ci sono le cattedrali”.
“Ora so dove deve venire
La mia bimba alla comunione;
Di bianco la dovrò vestire
Con un grande cappellone”.
Poi, dal caldo al peso,
Entravamo dal camino,
E ci davamo un bacio
Quando suonava un trillo.
Tornerò, come chi non esiste,
Al lago muto e gelato:
Fisserò lo scafo triste:
Poserò il remo discreto.
V
Se vedi un monte di schiume
È il mio verso quello che vedi:
Il mio verso è un monte, ed è
Un ventaglio di piume.
Il mio verso è un coltello
Che dal pugno lancia fiori:
Il mio verso è una fontana
Che dà un’acqua di corallo.
Il mio verso è verde chiaro
E d’un porpora infiammato:
Il mio verso è un cervo ferito
Che cerca nel monte riparo.
Il mio verso al prode aggrada:
Il mio verso, breve e sincero,
Ha il vigore dell’acciaio
Con cui si fonde la spada.
VI
Se volete che di questo mondo
Mi porti un ricordo gradito,
Porterò, padre, in profondo,
I tuoi capelli d’argento.
Se volete, per gran favore,
Che porti altro, prenderò
La copia che fece il pittore
Della sorella che ho amato.
Se volete che all’altra vita
Mi porti un vero tesoro,
Porterò la treccia nascosta
Che tengo nella mia cassa d’oro!
VII
Per Aragona, in Spagna,
Conservo nel mio cuore
Un luogo tutto Aragona,
Franco, fiero, leale e fedele.
Se vuole uno sciocco sapere
Perché lo conservo, gli dico
Che lì ebbi un buon amico,
Che lì amai una donna.
Là, nella terra florida,
Quella dell’eroica difesa,
Per mantener quel che pensa
La gente mette a rischio la vita.
E se un sindaco opprime
O molesta un re becero,
Veste il mantello l’aragonese
E muore con il suo fucile.
Amo la terra gialla
Che bagna l’Ebro fangoso:
Amo il Pilar nerastro
Di Lanuza e di Padilla.
Stimo chi con un colpo di mano
Getta per terra un tiranno:
Lo stimo, se è un cubano;
Lo stimo, se aragonese.
Amo i cortili ombrosi
Con le scalinate ricamate;
Amo le navi ormeggiate
E i conventi vuoti.
Amo la terra florida,
Musulmana o spagnola,
Dove aprì la sua corolla
Il breve fiore della mia vita.
VIII
Ho un amico morto
Che suole venirmi a vedere:
Il mio amico siede e canta;
Canta con voce dolente.
“Sopra un uccello alato
Vogo per il cielo azzurro:
Un’ala dell’uccello è nera,
Un’altra d’oro Caribù.
È un pazzo quel cuore
Che non conosce un colore:
O è di due colori il suo amore.
O dice che non è amore.
C’è una pazza più fiera
Del cuore infelice:
Colei che gli succhiò il sangue
E poi si mise a ridere.
Cuore che porta spezzata
L’ancora fedele di casa,
Va come barca perduta
Che non sa dove va”.
E quando giunge l’angoscia
Comincia il morto a maledire:
Carezzo il cranio: lo corico:
Corico il morto a dormire.
IX
Voglio, all’ombra d’un’ala,
Narrare un racconto in fiore:
La bimba del Guatemala,
colei che morì d’amore.
Erano di gigli i rami,
gli ornamenti di reseda
E gelsomino: la seppellimmo
in una cassa di seta.
… Ella dette allo smemorato
una tela profumata:
Lui tornò, tornò sposato:
Lei morì d’amore.
La portavano nella bara
Vescovi e ambasciatori:
Veniva il popolo a frotte,
Tutto carico di fiori.
… Ella, per tornarlo a vedere,
Uscì fuori al belvedere:
Lui tornò con la sua donna:
Lei morì d’amore.
Come di bronzo scottante
al bacio di commiato
era la sua fronte, la fronte
che in vita ho più amato!
… S’immerse di sera nel fiume,
La estrasse morta il dottore:
Dicon che morì di freddo:
Io so che morì d’amore.
Là, nel marmo gelido,
La misero sopra due panche:
Baciai la sua mano aguzza,
Baciai le sue scarpe bianche.
Mesto, all’imbrunire,
Mi chiamò il sotterratore:
Mai più son tornato a vedere
Colei che morì d’amore!
X
L’anima trepida e sola
Soffre all’imbrunire:
Si balla; andiamo a vedere
La ballerina spagnola.
Bene hanno fatto a togliere
Il bandierone dal marciapiede;
Perché se c’è la bandiera,
Non so, io non posso entrare.
Adesso arriva la ballerina:
Superba e pallida arriva:
Perché dite che è galiziana?
Per me dite male: è divina.
Porta un cappello da torero
E color rubino ha il mantello:
Pare proprio un ramoscello
Che indossa un cappello!
Si vedono, di sfuggita, le ciglia,
le ciglia da mora traditrice:
E lo sguardo, da mora:
E come neve l’orecchio.
Cominciano, abbassano la luce,
Ed esce in veste e scialle,
La Vergine dell’Assunzione
Danzando una danza andalusa.
Alza, sfidando, la fronte;
Si pone in spalla lo scialle:
Ad arco il braccio solleva:
Muove piano il piede ardente.
Fa risuonare con i tacchi
Il palco adulatore
Come se la tavola fosse
Un palco di cuori.
E va il convito crescendo
Nelle fiamme degli occhi,
E lo scialle dai bordi rossi
Se ne va nell’aria oscillando.
Subito, d’un tratto comincia:
Si scopre, scompare, gira
Apre in due il cachemir,
Offre la veste bianca.
Il corpo si libera e ondeggia;
La bocca aperta provoca;
È una rosa la bocca:
Lentamente rintocca.
Raccoglie in un lieve giro,
Lo scialle dai bordi rossi:
Se ne va chiudendo gli occhi,
Se ne va, come un sospiro…
Balla molto bene la spagnola;
È bianco e rosso lo scialle:
torna, fosco, al suo angolo
l’anima trepida e sola!
XI
Ho un paggio molto fedele
Che mi rimprovera e accudisce,
Quando esco, mi lucida e pulisce
La mia corona d’alloro.
Ho un paggio esemplare
Che non mangia, che non dorme,
E che si accoccola a vedermi
Lavorare, e singhiozzare.
Esco, e il vile, si dilegua
E nella mia tasca compare;
Torno, e lui caparbio mi offre
Una tazza di cenere.
Se dormo, quando splende il giorno
Siede accanto al mio letto:
Se scrivo, sangue sparge
Il mio paggio sulla scrivania.
Il mio paggio, uomo di rispetto,
Quando cammina stride:
Congela il mio paggio, e scintilla:
Il mio paggio è uno scheletro.
XII
Nella barca stavo remando
Per il lago seduttore
Con il sole che era oro puro
E nell’anima più d’un sole.
E ai miei piedi vidi a un tratto,
Offeso dal fetore
Un pesce morto, un pesce fetido
Nella barca remando.
XIII
Dove abbonda la malva
E si apre la strada un cammino,
Andava un angelo a spasso
Con la testa calva.
Dal castagneto nella zona
La coppia si perdeva:
La testa calva risplendeva
Proprio come una corona.
Risuonava l’ascia nel bosco
E incontrò un uccello volando:
Però non si sa quando
Si dettero il primo bacio.
Era rosso l’angelo; era
Con la sua testa calva radiosa
Come il tronco cui l’amorosa
Tiene stretto il rampicante.
XIV
Non potrò mai dimenticare
Quella mattina d’autunno
In cui nacque un germoglio
al povero ramo tronco.
La mattina in cui, invano,
Accanto alla stufa spenta,
Un bimba innamorata
Tese al vecchio la sua mano.
XV
Venne il medico giallo
A darmi la sua medicina,
Con un mano citrina
E l’altra mano al borsello.
Tengo riposto in un canto
Un medico sempre presente
Con una mano assai bianca
E un’altra mano sul cuore!
Viene, in giacca e berretto,
L’inserviente del pasticcere,
A chiedermi se preferisco
Malaga o Pajarete:
Dite alla pasticcera
Che da tanto tempo non ho visto,
Che mi tenga un bacio pronto
Per quando viene primavera!
XVI
Nel davanzale riparato
della finestra moresca,
pallido come la luna,
medita un innamorato.
Pallida, nel suo canapè
Di seta vergine e rossa
Eva, tacita, sfoglia
Una violetta nel tè.
XVII
È bionda: il capello sciolto
Dà più luce all’occhio scuro:
Vado, da allora, avvolto
In un mulinello d’oro.
L’ape estiva che ronza
Più agile per il fiore nuovo
Non dice come prima “atterra”:
“Eva” dice: tutto è “Eva”.
Giù, dov’è scuro, lo spaventoso
Scorrere della cascata:
E brilla l’iris, teso
Sopra le foglie d’argento!
Guardo, accigliato, l’agreste
Sfarzo del monte irritato
E nell’anima azzurra e celeste
Sboccia un giacinto rosato!
Vado, nel bosco, a passeggio
Alla laguna vicina:
E tra i rami la vedo,
Lei lungo l’acqua cammina.
Il serpente del giardino
Fischia, sputa, e striscia
Nel suo buco: il clarino
Mi tende, cinguettando, l’ala.
Arpa sono, salterio sono
Dove vibra l’Universo:
Vengo dal sole, al sole vado.
Sono l’amore: sono il verso!
XVIII
Lo spillo d’Eva pazza
È fatto dell’oro oscuro
Che le estrasse un uomo puro
Dal cuore d’una roccia.
Un uccello allettante
Le portò ieri nel becco
Uno spillo luccicante
Di strass e princisbecco.
Eva si pose all’oscura
Cintura il diamante mentitore:
E gettò nel portaspilli
Lo spillo d’oro puro.
XIX
Dai tuoi occhi raggianti
E da una fibbia mal posta
Pensai che la notte scorsa
Passasti in giochi proibiti.
Ti odiai come vile traditrice:
Ti odiai con odio mortale:
Nausea mi dava vederti
Così perfida e bella
E dall’annuncio che vidi
Senza saper come né quando.
So che passasti piangendo
Tutta la notte per me.
XX
Il mio amore si agita al vento;
Eva è bionda, Eva è falsa:
Viene una nube, porta e innalza
Il mio amor sofferente in pianto.
Porta via il mio amor piangente
Quella nube errante:
Eva è stata traditrice:
Eva sarà consolatrice!
XXI
Ieri la vidi nel salone
Dei pittori, e ieri
Dietro quella donna
Mi sobbalzò il cuore.
Seduta nel suolo crudo
Sta nel dipinto: assopito
Ai piedi, lo sposo sfinito:
Al seno il bimbo nudo.
Sopra alcuni fili di paglia
Si vedon pezzetti di pane:
Le pende il mantello ai lati
come se fosse un sudario
Non nasce nel torvo suolo
Non una viola, una spiga:
Molto lontano, la casa amica,
Ben triste e oscuro il cielo!...
Ecco la bella donna
che mi rubò il cuore
Nel magnifico salone
dei pittori di ieri!
XXII
Sono nel ballo estraneo
A ghette e merletti
Che danno, a fine anno,
i cacciatori dell’anno.
Una duchessa violetta
Va con un frac colorato:
Ritma un visconte truccato
Il tempo con il tamburello.
E passano le rosse maglie,
Passano le tulle di fuoco,
Come davanti a un cieco
Passano volando le foglie.
XXIII
Voglio andarmene dal mondo
Per la porta naturale:
Sopra un carro di foglie verdi
A morir mi han da portare.
Non mettetemi in luogo oscuro
A morir come un traditore:
Io son buono e come un buono
Morirò con la faccia al sole!
XXIV
So d’un pittore ardito
che dipinge contento
sopra la tela del vento
e la spuma dell’oblio.
So d’un pittore gigante.
Lui con divini colori,
Costretto a dipingere fiori
A una corvetta mercante.
So d’un povero pittore,
Dipingendo, l’acqua sta a guardare, -
L’acqua rauca del mare, -
Con sviscerato amore.
XXV
Penso, quando mi rallegro
Come un semplice scolaro,
Al canarino giallo,
Che ha l’occhio così nero!
Voglio, quando morirò,
Senza patria, ma senza padrone,
Avere sulla mia lapide un mazzo
Di fiori e una bandiera!
XXVI
Io che vivo, anche se son morto,
Sono un grande scopritore
Perché l’altra notte ho scoperto
La medicina d’amore.
Quando per il peso della croce
L’uomo sceglie di morire,
Fa il bene, poi torna dal suo partire
Come in un bagno di luce.
XXVII
Il nemico brutale
Incendia la nostra casa:
La spada spazza la strada,
Sotto la luna tropicale.
Pochi uscirono illesi
Dalla spada dello spagnolo:
La strada, al levare del sole,
Era un rivolo di sangue.
Passa, tra gli spari, una vettura:
Entrano, piangendo, una morta:
Bussa una mano alla porta
Nella notte fonda e oscura.
Non c’è sparo che non fori
Il portone: e la donna
Che bussa, me l’ha fatto capire:
Viene a prendermi mia madre.
All’ingresso della morte
Gli intrepidi avaneri
Si tolsero i sombreri
Per la matrona forte.
E dopo che ci baciammo
Come due folli, mi disse:
“Andiamo presto, andiamo, figlio:
La bimba è sola: andiamo!”
XXVIII
Per la tomba della fattoria
Dov’è il padre interrato
Passa il figlio, da soldato,
Dell’invasore: passa via.
Il padre, un eroe di guerra,
Avvolto nel suo bandierone
Si alza: e con un ceffone
Lo stende, morto, per terra.
Il lampo brilla: fischia
Il vento per la fattoria:
Il padre solleva il figlio
E alla tomba se lo porta via.
XXIX
L’immagine del re, per legge,
Porta il ruolo dello Stato:
Il bimbo fu fucilato
Dai fucili del re.
Festeggiare il santo è legge
Del re: e nella festa santa
La sorella del bimbo canta
Davanti all’immagine del re!
XXX
Il lampo attraversa, impetuoso,
L’oscuro cielo tempestoso
Scaccia la barca, a profusione,
I neri dal portone.
Il vento, fiero, distruggeva
Le coltivazioni rigogliose
Andava la fila andava
Degli schiavi nudi.
Il temporale scuoteva
Le baracche inondate:
Una madre lesta passava
Col suo piccolo e gridava.
Rosso, come nel deserto,
Uscì il sole, all’orizzonte:
E illuminò uno schiavo morto,
Appeso a un albero del monte.
Un bimbo lo vide: tremò
Di passione per chi soffre:
E, ai piedi del morto, giurò
Di lavare con la sua vita il crimine!
XXXI
Come modello di un dio
Il pittore lo mandò a chiedere: -
Per quello no! Per andare,
Patria, a servirti noi due!
Bene starà nella pittura
il figlio che amo e benedico: -
Meglio con la smorfia dura,
Faccia a faccia col nemico.
È biondo, forte e guaglione
Di nobiltà naturale:
Figlio, per la luce natale!
Figlio, per il bandierone!
Andiamo, dunque, figlio virile:
Andiamo noi due; se devo morire,
Mi bacerai; se tu… è da preferire
Vederti morto che vederti vile!
XXXII
Nel nero vicolo
Dove nelle tenebre passeggio,
Alzo gli occhi, e vedo
La chiesa, in un angolo eretta.
Sarà mistero? Sarà
Rivelazione e potere?
Sarà, ginocchio, il dovere
Di prostrarsi? Che sarà?
Freme la notte: nella vite
Morde il verme il germoglio;
Gracida chiamando l’autunno
La vuota e cupa cicala.
Gracidano due: attento al duo
Alzo gli occhi e vedo
Che la chiesa del corso
Ha la forma d’un gufo.
XXXIII
Dalla mia sventura atroce
Sento, oh stelle, che muoio:
Io voglio vivere, io voglio
Vedere una donna incantevole.
La chioma, come un elmo,
Le corona il volto bello:
Scintilla il nero capello
Come spada di Damasco.
Quella?... Mette tutto il veleno
Del mondo in un fascio,
Scolpito nel corpo, è un fascio
Un’anima intera di veleno!
Questa?... Questa infelice
Calza scarpine rosate,
Ha labbra colorate,
E volto di smalto.
L’anima lugubre grida:
“Donna, maledetta donna!”
Non so chi possa essere
Tra le due la maledetta!
XXXIV
Pene! Chi osa dire
Che soffro pene? Poi,
Dopo il lampo, e il fuco,
Avrò tempo di soffrire.
Conosco un dolore profondo
Tra pene senza nome:
La schiavitù degli uomini
È la gran pena del mondo!
Ci sono monti, bisogna salire
I monti più alti; dopo
Vedremo, anima, il volto
Che mi ha disposto a morire!
XXXV
Che importa se il tuo pugnale
Penetrerà le mie interiora?
Ho i miei versi, che sono
Più forti del tuo pugnale!
Che importa se questo dolore
Seccherà il mare, oscurerà il cielo?
Il verso, dolce consolazione,
Nasce alato di dolore.
XXXVI
Ormai lo so: di carne si può
Fare un fiore; si può,
Con il potere dell’amore
Fare un cielo, e un bimbo!
Di carne si fa pure
Lo scorpione, e pure
Il verme della rosa,
E la civetta spaventosa.
XXXVII
Ecco il mio petto, donna.
Già so che lo ferirai;
Più grande dovrebbe essere,
Perché lo ferissi ancora!
Perché noto, anima contorta,
Che nel mio petto miracoloso,
Mentre più profonda è la ferita
Più raffinato è il mio canto.
XXXVIII
Del tiranno? Del tiranno
Di tutto, di più!; e colpisce
Con furia di mano schiava
Sopra la sua infamia il tiranno.
Dell’errore? Però dell’errore
Dell’antro, dei sentieri
Oscuri, di quanto possa
Del tiranno e dell’errore.
Della donna? Però può essere
Che muoia del suo morso;
Ma non macchiare la tua vita
Dicendo male della donna!
XXXIX
Coltivo una rosa bianca,
A luglio come a gennaio,
Per l’amico sincero
Che mi dà la sua mano franca.
E per il crudele che mi sfianca
Il cuore con cui vivo,
Né cardo né rucola coltivo:
Coltivo la rosa bianca.
XL
Dipinge il mio amico pittore
I suoi grandi angeli dorati,
Tra le nubi inginocchiati,
Con dei soli intorno
Dipingimi con i tuoi pennelli
I piccoli angeli timorosi
Che mi portarono, pietosi
I loro due mazzi di garofani.
XLI
Quando mi colse l’onore
Della terra generosa,
Non pensai a Bianca né a Rosa
Né a quel grande favore.
Pensai al povero artigliere
Che sta nella tomba, muto:
Pensai a mio padre, il soldato:
Pensai a mio padre, il ferroviere.
Quando arrivò la pomposa
Missiva, con la sua nobil coperta,
Pensai alla tomba deserta,
Non pensai a Bianca né a Rosa.
XLII
Nello strano bazar
Dell’amor, vicino al mar,
La perla triste e senza par
Toccò in sorte ad Agar.
Agar, dal tanto tenerla
Al petto, dal tanto vederla
Agar, giunse a detestarla:
Ruppe, lanciò al mar la perla.
E quando Agar, velenosa
Di vana furia, e lacrimosa,
Chiese al mar la perla deliziosa
Disse la marea tempestosa:
“Che facesti, sciocco, che facesti
Della perla che in dote avesti?
La rompesti, me la desti:
Io custodisco la perla triste”.
XLIII
Molto, signora, darei
Per stendere sulla tua schiena
la tua capigliatura ribelle,
la tua capigliatura di stelle:
Adagio la
stenderei,
Muto la
bacerei.
Da sopra l’orecchio fino
Scende sfarzoso il capello,
Proprio come un drappo
Che si alza verso il collo.
L’orecchio
è opera divina
Di
porcellana di Cina.
Molto, signora, ti darei
Per sciogliere il nodo
Della tua rossa capigliatura
Sopra il tuo collo nudo:
Molto
adagio la spargerei,
Filo per
filo la disfarei.
XLIV
Ha il leopardo un riparo
Nel monte arido e scuro
Io ho più che il leopardo,
Perché ho un buon amico.
Dorme, come in un gioco,
la donzella nel suo cuscinetto
D’acero del Giappone: io dico:
“Non c’è cuscino come un amico”.
Ha il conte il suo casato:
Ha l’aurora il suo mendico:
Ha l’uccello la sua ala; io ti dico
che là, in Messico, ho un amico!
Ha il signor presidente
Un giardino con una fonte,
E un tesoro in oro e grano:
Io ho di più, io ho un amico.
XLV
Sogno chiostri di marmo
Dove in silenzio divino
Gli eroi, in piedi, riposano:
Di notte, alla luce dell’anima,
Parlo con loro: di notte!
Stanno in fila: passeggio
Tra le fila: aprono
Gli occhi di pietra: muovono
Le labbra di pietra: fremono
Le barbe di pietra: impugnano
La spada di pietra: piangono:
Vibra la spada nella guaina!
Muto, bacio loro la mano.
Parlo, con loro, di notte
Stanno in fila: passeggio
Tra le fila: in lacrime
Abbraccio una statua: “Oh statua,
Dicono che i tuoi figli bevono
Il loro stesso sangue nelle coppe
Velenose dei loro padroni!
Che parlano la lingua corrotta
Dei loro prosseneti! Che mangiano
Insieme il pane dell’infamia
Nella tavola insanguinata!
Che sprecano in una lingua inutile
L’ultimo fuoco! Dicono,
Oh statua, statua dormiente,
Che ormai la tua razza è morta!”
Mi getta in terra da una barca
L’eroe che abbraccio: mi alza
Dal collo, spazza la terra
Con la mia testa: solleva
Il braccio, il braccio scintilla
Proprio come un sole! Risuona
La pietra: cercano la cintura
Le mani bianche: dal socio
Balzano gli uomini di marmo!
XLVI
Riversa, cuore, la tua pena
Dove non si giunga a vedere,
Per superbia, e per non essere
Motivo di pena estranea.
Ti voglio bene, verso amico,
Perché quando sento il petto
Già molto oppresso e affranto,
Divido il fardello con te.
Tu sopporti, tu accogli
Nel tuo grembo amoroso,
Tutto il mio amor doloroso,
Tutte le mie ansie e angosce.
Tu, perché io possa con calma
Amare e far bene, consenti
Di sconvolgere le tue correnti
Con quanto mi turba l’anima.
Tu, perché io percorra fiero
La terra, senza odio, puro,
Ti trascini, pallido e duro
Mio amoroso compagno.
La mia vita così s’incammina
Verso il cielo limpida e serena,
E tu sopporti la mia pena
Con la tua pazienza divina.
Perché la mia crudele abitudine
Di rifugiarmi in te ti devia
Dalla tua lieta armonia
E naturale mansuetudine;
Le mie pene si rovesciano
Sul tuo seno, lo sferzano,
La tua corrente eccitano,
Qua livido, là rosso,
Bianco là come la morte,
Ora inveisci e ruggisci,
Ora sotto il peso gemi
Per un dolore di te più forte
Dovrò, come mi consiglia
Un cuore perfido e rio,
Abbandonare nell’oblio
Chi non m’abbandona?
Verso, ci parlan d’un Dio
Dove vanno i defunti:
Verso, ci condanneranno insieme,
O ci salveremo entrambi!
(Tradotto dicembre 2017 -
gennaio 2018)