Mare di sabbia e sassi.
Scogliere e arenile, piccolo golfo d’un’isola dove soffia il vento polveroso
della storia. Palme nane mediterranee, piccoli lecci, abeti di mare e piante
grasse. Vegetazione da terra arida bruciata dal sole. Ficus Beniamino alto e
svettante, banani imponenti, fichi, olivi, iris dai fiori rosso fuoco, che a
Cuba ho sentito chiamare Mar Pacifico, rocce rupestri riarse, montagne e
altopiani da spaghetti-western, pure
se qui li chiamerebbero feta-western.
Paesaggio troppo simile al luogo natio per renderlo straniero ai tuoi occhi,
luogo trove trovare consonanze più che dissonanze. Casa sul mare, terrazza affacciata
tra tamerici salmastre e arse, pitosfori, oleandri e barba di Giove. Larici,
conifere di mare, non pini marittimi, ma un modo cretese d’esser tali. E il
fico degli ottentotti non ancora fiorito, forse ormai sfiorito, bruciato dal
sole, confuso dal vento. Piccola strada notturna tra venditori di mare, i
soliti cinesi, identici kebabbari,
luogo dei luoghi del mondo, e mercanti che vendono Creta ai turisti formato
ricordo. I viburni fioriti, come farfalle crepuscolari, il profumo intenso del
mare sospinto dai venti del Peloponneso. Isola tra le isole che ricorda la mia
penisola affacciata su un’isola.
Siamo uomini fatti e
finiti, ormai, e abbiamo tutti moglie, macchina, figli che studiano al liceo,
al professionale, al tecnico, e stanno tentando di costruirsi un avvenire,
mentre frequentano le spiagge a est e a ovest della città, secondo il corso dei
venti. Siamo uomini fatti e finiti e cominciamo a ingrassare e ad avere
calvizie, pancetta, corpi flaccidi, a usare occhiali per leggere e per vedere
da lontano, a sentire malesseri dopo aver mangiato e bevuto, mentre spunta
sulla nostra pelle qualche grinza, qualche solco rugoso.
“L’amore? Un bicchier
d’acqua. Vuotato il bicchiere finito tutto”. No, non è mia, ma di Elias
Canetti. Pure perché non è il mio pensiero, non riesco a farlo mio. Potrà
valere per qualche rapido amore che non sia tale, tra uomo e donna, potrà
valere per l’illusione d’amore. Ci sono coppe che non si svuotano, pozzi di
San Patrizio interminabili. Non solo. C’è l’amore per un figlio, l’amore per la
propria terra, l’amore per chi ti ha dato la vita e cresciuto. Certo, il misero
amore basato sul rapporto sessuale è destinato a diventare un bicchiere vuoto, una
volta esaurito il liquido che l’alimentava è impossibile riempirlo.
Avrei dovuto essere
ungherese, credo. Per questa mia strana predilezione per la nostalgia, per un
passato che non può tornare, per l’autocommiserazione che mi pervade nelle cose
che scrivo. Il mio solo obiettivo è quello di osservare le foto del passato,
istantanee ideali o reali non importa, e ritrovare uno solo di quei giorni,
proprio com’era, di ritrovare me stesso al punto di partenza e rimettere tutto
in ordine, partendo da errori che non vorrei ripetere. Che dire? Erano valige
troppo pesanti per quegli anni, forse. Nei miei anni perduti vigeva la buona
abitudine di passare i pomeriggi giocando a pallone nei cortili, nei giardini e
negli oratori di quartiere. E una cosa il calcio e la vita hanno in comune: le
cose non vanno mai come uno spera che vadano…
Il ritorno a casa. L’aria
ferma, come succede spesso a Piombino d’estate, un mondo immobile di silenzi e
sospiri. Pensare di nuovo a quel treno che va, tra il mare e la polvere di
carbone, nella triste campagna assolata del mio promontorio, tra filari di viti
e tamerici contornate da oleandri, a ritrovare amici perduti, certe strade
abbandonate nella memoria e a quel bar all’angolo del corso dove facevano il
caffè buono. Un posto perduto, come il mio tempo che scorre, sabbia impalpabile
tra dita leggere. Un bar di cui resta una storica insegna: Nazionale, dove ormai non senti odore di caffè, ché vendono
vestiti, come restano insegne Supercinema
e Sempione, altari abbattuti,
sacrificati al tempo che passa, alle mode che cambiano. E non è più tempo di
cinema…
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