giovedì 31 gennaio 2013

Yoani Sánchez ottiene il passaporto!


Il regime cubano aveva negato alla famosa blogger per ben venti volte il permesso di uscita

L’Avana, 31 gennaio 2013 - La blogger cubana Yoani Sánchez, che in passato aveva ricevuto molti divieti di uscita dal paese, ha ricevuto ieri il passaporto che le consentirà di viaggiare all’estero, dopo la riforma migratoria entrata in vigore il 14 gennaio. La notizia è stata diffusa dalla stessa blogger e riportata da France Press.

"Incredibile!! Mi hanno telefonato a casa (dall’ufficio immigrazione) per comunicare che il mio passaporto era pronto!", ha scritto Yoani su Twitter.

"Sono felice e triste al tempo stesso: da un lato ho il mio documento per viaggiare, ma a diversi amici come Ángel Moya non sarà concesso”, ha aggiunto Sánchez.

A Moya, ex prigioniero politico e marito della leader delle Damas de Blanco, Berta Soler, è stato negato il passaporto perchè in stato di libertà provvisoria dal 2011 (deve scontare una condanna a 20 anni di prigione).

Yoani Sánchez ha già pronta una bozza di programmaa di viaggio. La prima tappa sarà il Brasile, a seguire Amsterdam per un festival di cinema, la Repubblica Ceca per una convention sui diritti umani e infine l’Italia.

Gordiano Lupi – ww.infol.it/lupi

mercoledì 30 gennaio 2013

A Cuba non c’è droga?


di Yoani Sánchez
da www.lastampa.it/generaciony


Il mio occhio sinistro soffriva una cheratite piuttosto aggressiva. Era il risultato della scarsa igiene dell’ostello dove vivevo e di successive congiuntiviti mal curate. Mi prescrissero un complesso trattamento, ma dopo un mese che somministravo collirio non si notava alcun miglioramento. Mi bruciavano gli occhi quando guardavo le pareti dipinte di bianco e i luoghi dove si rifletteva la luce del sole. Le righe dei taccuini apparivano sfumate e non riuscivo a guardare neppure le mie unghie. Yanet, la ragazza che dormiva nel letto a castello di fronte, mi raccontò cosa accadeva. “Ti rubano l’omatropina per bersela, la usano per sballare, poi ti riempiono il flacone con un’altra sostanza”, mi disse sussurrando davanti alle docce. Cominciai a sorvegliare di notte il mio armadietto e mi resi conto che diceva la verità. La medicina che avrebbe dovuto curarmi veniva consumata da alcune mie colleghe dell’ostello mescolata con un po’ d’acqua… ecco perché la mia cornea non guariva.

Elefanti azzurri, percorsi di plastilina, braccia che si allungavano verso l’orizzonte. Scappare, volare, saltare dalla finestra senza farsi male… verso un abisso, erano le sensazioni che ricercavano quelle adolescenti allontanate dai loro genitori e che vivevano secondo gli scarsi valori etici trasmessi dai professori. Alcune notti, nella zona sportiva, i maschi estraevano un infuso dal fiore conosciuto come “campana”, la cosiddetta droga del povero. Alla fine del mio decimo grado, cominciarono a circolare anche in quel liceo di campagna le polveri da inalare e l’“erba” in piccoli pacchetti. Certi prodotti venivano spacciati soprattutto dagli studenti che vivevano nel poverissimo quartiere de El Romerillo. Dopo averli ingeriti, si udivano risatine nelle aule, guardi smarriti oltrepassavano la lavagna e la libido andava a mille grazie a tutti quegli “incentivi per vivere”. Assumendo dosi regolari non si sente più lo stimolo della fame nello stomaco, confermavano alcune amiche già “adescate”. Per fortuna, non mi sono mai lasciata tentare.

Finito il periodo della scuola in campagna (1), seppi che fuori dalle pareti di quel collegio accadevano cose simili, ma su scala maggiore. Nel mio quartiere di San Leopoldo, imparai a riconoscere le palpebre semichiuse dei “fatti”, la magrezza e la pelle smorta del consumatore incallito e il comportamento aggressivo di alcuni che dopo aver preso “una dose” si credevano padroni del mondo. Quando arrivarono gli anni duemila aumentarono le offerte sul mercato dell’evasione: morfina, marijuana, coca - attualmente costa 50 pesos convertibili al grammo - pasticche di vario tipo; Parkizol rosa e verde, Popper e ogni genere di sostanze psicotrope. I compratori appartengono ai più variegati strati sociali, ma la maggior parte di loro cerca una fuga dalla realtà, un momento piacevole, vuole uscire dalla routine e lasciare alle spalle l’asfissia quotidiana. Inalano, bevono, fumano, e dopo puoi vederli ballare una notte intera in discoteca. Passata l’euforia si addormentano proprio davanti a quella stessa televisione dove Raúl Castro assicura che “a Cuba non c’è droga” (http://mexico.cnn.com/mundo/2013/01/28/raul-castro-pide-combatir-el-narcotrafico-cuando-esta-naciendo).


Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi



Nota del traduttore

(1) Quando Yoani parla di ostello, liceo in campagna, collegio, si riferisce all’esperienza della beca, che quasi tutti gli studenti cubani hanno fatto: un periodo di preparazione al lavoro in campagna, lontani dalle famiglie. Era la cosiddetta scuola al campo, prima dell’università, basata sull’idea - di per sé formativa - che lo studio dovesse andare di pari passo con il lavoro. Gli alunni venivano separati dalle famiglie per un certo periodo di tempo e vivevano in ostelli (albergues) di campagna - di solito poco igienici - dove studiavano e lavoravano. La scuola al campo è stata abolita da una recente riforma di Raúl Castro. I cubani non la rimpiangeranno.


Traduzione vignetta di Garrincha (fumettista cubano).

- Cosa ha detto Raul in Cile?

- Che a Cuba non c’è droga.

- Secondo me s’è fumato uno spinello...

domenica 27 gennaio 2013

Omaggio a José Martí

Centosessanta anni dalla nascita di José Martí

Por tus ojos encendidos
di José Martí

Por tus ojos encendidos
e lo mal puesto de un broche.
Pensé que estuviste anoche
... jugando a juegos prohibidos.


Te odié por vil y alevosa:
te odié con odio de muerte:
náusea me daba de verte
tan villana y tan hermosa.

Y por la esquela que vi
sin saber cómo ni cuándo.
Sé que estuviste llorando
toda la noche por mí.


Per i tuoi occhi infiammati
Traduzione di Gordiano Lupi

Per i tuoi occhi infiammati
e un bottone fuori posto.
Pensai che avevi passato la notte
… facendo giochi proibiti.

Ti odiai come vile e perfida:
ti odiai con odio mortale:
nausea mi dava vederti
così oscena e così bella.

E per il biglietto che vidi
senza sapere come né quando.
So che sei stata a piangere
tutta la notte per me.

sabato 26 gennaio 2013

Dal mondo virtuale al mondo reale

di Yoani Sánchez


Lo schermo illumina il suo volto mentre le dita corrono veloci sulla tastiera. All’esterno la vita procede come sempre, le auto suonano il clacson e un cane passa in fretta davanti alla porta. Sembrerebbe che fuori dalla porta la vita tecnologica sia destinata a cedere di fronte alla realtà, ma al principio di questo terzo millennio è ormai impossibile tracciare un confine netto tra il mondo virtuale e il mondo concreto che ci circonda. Camminare lungo i marciapiedi, affacciarsi agli incroci, scambiare parole con gli amici, ogni nostro atteggiamento è in qualche modo collegato a quell’universo di pixel e kylobites.


Un blogger è una creatura meticcia, a metà strada tra due dimensioni: la superficie dove abita e un ciberspazio ricco di infinite possibilità espressive e creative. È un anello che deve fare i conti con molteplici fenomeni: il giornalismo e la scrittura digitale; l’era degli esperti di Internet e quella degli estranei alla rete; la protesta con una pietra in mano e le nuove domande civiche via Facebook o Change.org. Proviamo su di noi il dilemma tra vivere o narrare ciò che accade via Twitter; osservare o scattare foto con l’obiettivo dell’iPhone; amare o inviare un emoticon dal volto sorridente al telefono mobile del nostro compagno. Dobbiamo scegliere tra comportarci solo come cittadini nella grande ragnatela mondiale o farlo anche in questo mondo composto da clacson che suonano, cani che passano e corpi che provano emozioni.


Essere internauta in questo secolo XXI, significa affrontare anche il concetto di responsabilità. La responsabilità di assumere una voce pubblica anche se ci nascondiamo dietro uno pseudonimo. La responsabilità di esporre le nostre opinioni allo sguardo di milioni di potenziali lettori. Il costo personale e sociale di così tanta audacia si comincia subito a sentire in maggiore o minor grado. Il vicino che ci dice: “Ti ho letto” mentre abbozza un sorriso complice, l’avversario che snatura il significato delle nostre parole e persino i lettori che dicono: “Chi te l’ha fatto fare di raccontare queste cose?”. Una volta che abbiamo oltrepassato la linea sottile che separa il silenzio dalla libera espressione nella rete delle reti non avremo più pace… ma neppure noia.  

Se la nostra voce infastidisce qualche potente, un grande gruppo imprenditoriale come un governo autoritario, gli effetti saranno ancora più seri. Diventiamo l’anello più fragile che può far rompere la catena, anche se presentarci solo come vittime non è sempre la verità. Vedere il blogger come un piccolo David che affronta la forza fuori dal comune del Golia conformista o dei monopoli corporativi ha prodotto una schematizzazione da cui dobbiamo uscire. La tecnologia di per sé non ha un’etica, quindi adotta parte della personalità e del comportamento di chi la utilizza. Nei blog troviamo di tutto: dai lodevoli progetti altruisti fino alle più basse passioni umane. Abbiamo creato il ciberspazio a nostra immagine e somiglianza, tra chiari e scuri che ritraggono le nostre bassezze e i più elevati gesti di bontà.


Cittadini 2.0 versus regimi 0.2

Dati deformati dal troppo digitare, pensieri che si esprimono in frasi composte da 140 caratteri, tastiere di ultima generazione, capacità di leggere in diagonale e uno sguardo smarrito se la vita non si comporta come finestre che si chiudono e si aprono, cestino virtuale compreso. Ogni internauta consumato si è trasformato in una sorta di mutante, in un essere compreso tra l’universalità dei suoi spazi virtuali e la condizione locale della sua esistenza. Al giorno d’oggi i blog sono un conglomerato di pluralità tematica e formale difficile da definire e da classificare. Si trovano favolosi collezionisti di ricette di cucina, scrittori frustrati che pubblicano ogni settimana testi sublimi o ridicoli, fanatici del baseball che difendono in ogni post le giocate della loro squadra preferita, persino smemorati che un giorno hanno creato un sito su Blogger.com o su WordPress e hanno pubblicato soltanto un post intitolato “Ciao Mondo”. Ma ci sono anche blog dove ci giochiamo la vita e la libertà, blog del tutto per tutto, del rischio che cresce a ogni parola pubblicata.


Nei paesi dove esiste un rigido monopolio governativo sulla stampa, gli informatori indipendenti sono visti dalla propaganda ufficiale come nemici, senzapatria e mercenari. Di solito, in quelle società capita che l’acceso a Internet sia ristretto e severamente controllato. Sono, nella maggior parte dei casi, nazioni dove la possibilità di connettersi è un privilegio concesso ai più fidati o dove il web finisce per essere un mostro di siti filtrati perlustrato da disciplinati soldati tecnologici che devono combattere senza tregua fori e portali. Gestire un blog informativo o di opinione in regimi di natura totalitaria è come spararsi da soli un colpo di pistola alla tempia; come autodenunciarsi al poliziotto di passaggio gridando: “Sì, sono stato io!”. Ma è vero - incredibile paradosso - che in simili paesi, esprimersi nel ciberspazio può dare maggiori probabilità di successo che nella vita reale.


La repressione contro i blogger dissidenti nella maggior parte dei casi si verifica nel mondo reale. Vigilanza, persecuzione, carcere e, nelle situazioni più drammatiche, la morte come punizione per aver osato informare o esprimere la propria opinione. Esistono anche altre strategie per renderci la vita difficile: fucilazione mediatica sulla stampa ufficiale, lapidazione della nostra immagine pubblica tramite diffamazione, intimidazione agli amici che ci circondano perché non si avvicinino e velate minacce sussurrate all’orecchio delle persone che più amiamo completano il quadro “dissuasivo” che ha prodotto la chiusura di molti siti alternativi. I poliziotti del pensiero sono diventati molto sofisticati nella battaglia del ciberspazio. È quello il luogo dove contrattaccano, lanciando sugli attivisti cibernetici ondate di kilobytes diffamatori come risposta a critiche e denunce.


Se cediamo all’impulso di rispondere all’insulto con altri insulti, al grido con le grida, facciamo soltanto il gioco degli intolleranti che vogliono trascinarci sul terreno della violenza verbale. Può capitare che invece di attaccare come strategia di protezione, cominciamo a dedicare buona parte dei testi che scriviamo per giustificarci e per tentare di ripulire la nostra immagine. Gli anonimi accusatori avranno ottenuto lo scopo di distoglierci dal percorso sociale per rinchiuderci nel labirinto dell’autodifesa. In questo caso la responsabilità si impone con maggior forza. Molti di noi hanno dovuto affrontare simili situazioni, ci sono momenti in cui ci siamo chiesti perché mai un giorno ci siamo avvicinati a un computer, abbiamo digitato alcune frasi e pubblicato il nostro primo post. Momenti che sono diventati sempre più frequenti mano a mano che il tempo passava e continuavamo a fare i reporter alternativi del ciberspazio. Accadrà ancora. Ogni giorno ci chiederemo se valga la pena pagare un così alto prezzo pubblico e personale per raccontare ciò che accade nei nostri paesi. Dovremo affrontare un cammino solitario fatto di dubbi e paure confidando solo in noi stessi. Migliaia di siti internet esporranno nella home page il cartello con scritto “chiuso”, abbandonando la lotta. Il mestiere del blogger significa resistenza ed è una carriera colma di ostacoli. È più facile arenarsi tra gli scogli che andare avanti. Serve tanta buona volontà per ottenere qualche risultato, ma incontrare la solidarietà di altre persone sarà determinante.


Ogni volta diventa più difficile per i regimi autoritari attaccare i dissidenti e i difensori dei diritti umani senza provocare repulsione da parte del web. Un’etichetta ripetuta sino allo sfinimento su Twitter, una petizione corredata da migliaia di firme per la liberazione di un individuo, un’alluvione di messaggi contenenti domande sui siti ufficiali di certi governi, sono strategie che stanno dando alcuni risultati. Gli strumenti virtuali incidono sulla realtà e la fanno cambiare. Piazza Tahrir in Egitto resta l’esempio reale più calzante. L’insoddisfazione civica contro un governo autoritario al potere da trent’anni ha trovato nelle reti sociali, nei blog e nei telefoni mobili gli strumenti vitali per riunire e convocare.


Nelle rivoluzioni arabe, gli schermi e le tastiere sono state un canale per favorire la ribellione, ma il punto di ebollizione si è raggiunto gomito a gomito, corpo a corpo, per le strade. Il mondo virtuale ha spinto tutti quei giovani a lottare nella realtà, dopo averli resi più forti e aver fornito una coscienza civica.


Traduzione di Gordiano Lupi

venerdì 25 gennaio 2013

Leggere Tutti e il mio Cabrera Infante



da LEGGERE TUTTI di FEBBRAIO 2013
La ninfa incostante di Guillermo Cabrera Infante
racconto di Gordiano Lupi, ispirato al romanzo che ho tradotto per SUR

giovedì 24 gennaio 2013

Posesiones/ Possedimenti


di Gérman Guerra

Un laúd, un bastón,
unas monedas
Eliseo Diego, El oscuro esplendor, 1966

El bastón, las monedas, el llavero
Jorge Luis Borges, Elogio de la sombra, 1969


Un abrazo, un reloj,
esta penumbra,
los pasos, el camino,

los ponientes, el alba,
el nacimiento,
el corazón, los sueños,

la música del mar,
la sed, los hijos,
el silencio, la voz,
el universo,
las máscaras, la cruz,
el pan, el vino,
los umbrales, la muerte,

una imagen de luz,
unas palabras,
la memoria, el olvido.

sábado, diciembre 8 y 2012

Germán Guerra nació en Guantánamo en 1966. Ha publicado los libros de poemas Dos poemas (Strumento, Miami, 1998), Metal (Dylemma, Miami, 1998) y Libro de silencio (EntreRíos, Los Angeles-Las Vegas-Miami, 2007).


Possedimenti
Traduzione di Gordiano Lupi

 
Un liuto, un bastone,
alcune monete
Eliseo Diego, L’oscuro splendore, 1966

Il bastone, le monete, il portachiavi
Jorge Luis Borges, Elogio dell’ombra, 1969


Un abbraccio, un orologio,
questa penombra,
i passi, il cammino.

Il ponente, l’alba,
la nascita,
il cuore, i sogni,

la musica del mare,
la sete, i figli,
il silenzio, la voce,
l’universo,
le maschere, la croce,
il pane, il vino,
gli inizi, la morte,

un’immagine di luce,
alcune parole,
la memoria, l’oblio.

8 dicembre 2012, sabato


Germán Guerra, Guantánamo (Cuba) nel 1966. Ha pubblicato le raccolte di poesie Dos poemas (Strumento, Miami, 1998), Metal (Dylemma, Miami, 1998) e Libro de silencio (EntreRíos, Los Angeles-Las Vegas-Miami, 2007).

martedì 22 gennaio 2013

Il colpevole

di Fernando Sorrentino
(Argentina)

1.

Io lavoro in più di una scuola secondaria. Quando finisco le mie attività mattutine, mi rendo conto che non mi basta il tempo per passare da casa. Allo stesso tempo, è troppo presto per presentarmi alla scuola del pomeriggio; ciononostante, è questo che faccio sempre.

Arrivo, allora, a un’ora anomala, quando tutti i professori della mattina sono già andati via e ancora non sono arrivati quelli del pomeriggio. Questa situazione mi concede una pausa gradevole: ne approfitto per leggere il giornale, ancora intatto, che porto nella cartella fin dal mattino. Le poltrone della sala professori sono comode, il pavimento ha la moquette, la luce buona ma non accecante, i rumori della strada si attenuano in un rumore felpato e indefinito… A momenti non leggo più il giornale, ma mi vince la stanchezza, e dormo per intermittenti frazioni di secondo: faccio dei sogni piccoli e abbastanza logici, dove persiste la stanza dove mi trovo.

Ma quel martedì mi trovavo ben sveglio, intento a sfogliare il giornale. L’uomo che stava dal lato opposto della sala non poteva non richiamare la mia attenzione. Era l’essere più alto e più obeso che avessi mai visto in vita mia: un gigante adiposo, rosa, con forme sferiche in ogni aspetto del viso, con occhi chiari, con riccioli biondi. La sua enormità era accentuata da un abito chiarissimo, di color te con latte, che si estendeva per un metro in larghezza e due in altezza.

Comunque, io non osservavo tutti questi dettagli dissimulatamene: distratto dallo stupore, percorrevo con la mia vista – con incoscienza, con impertinenza – quella figura illimitata in modo molto franco e aperto, come se stessi osservando un ippopotamo o una statua invece di un uomo che si poteva infastidire con uno scrutinio cosi volgare.

D’improvviso mi resi conto che l’uomo aveva notato – come poteva non notarla? – la mia maldestra contemplazione e che si dirigeva direttamente verso di me. Un po’ turbato abbassai lo sguardo e finsi di continuare a leggere il giornale.

Quando capii che stava di fronte a me, alzai gli occhi e aspettai. Non sono di fisico piccolo, ma pensai che, se mi aggrediva, il gigante poteva farmi a pezzi senza che i miei pugni – come spilli – potessero niente contro quella tremante mole di grasso.

Ciononostante, la mia apprensione risultò esagerata e, soprattutto, ingiusta, nell’attribuire a quell’uomo intenzioni cosi selvagge. Infatti tutto ciò che disse fu:

– Sono nuovo qui. Mi potresti dire, per favore, dove si trova la toilet dei signori?

Rimasi ancora per un po’ ipnotizzato: per il volto rossiccio e grasso, per le sei o otto pieghe del suo mento, per la pelle tersa e traslucida come quella di un neonato, per le smisurate mani dalle dita voluminose, per il tono quasi effeminato della sua voce, per il fatto che chiamasse toilet dei signori il bagno degli uomini.

Alla fine, reagii e potei rispondere:

– Esca da questa porta, attraversi l’ingresso grande e giri nel corridoio a sinistra.

Allora le montagne e le valli rotonde di questo volto sferico si accesero in una fiammata d’ indignazione:

– Io ti ho dato del tu – disse, aprendo poco la bocca –, come un atto amichevole, e tu mi hai risposto dandomi del lei, come per mantenere le distanze…

– Scusami – lo interruppi –. Non è stato per mantenere le distanze: è stato perché non mi sono reso conto…

– Certo! – esclamò, trionfante –. E non ti sei reso conto perché, invece di ascoltare le mie parole, mi stavi osservando come una bestia rara – cominciò ad alzare la voce sempre più: diedi un’occhiata preoccupata intorno a noi –, e stavi pensando che io ero un grasso mostruoso e orribile, un essere degno di esibirsi in un circo, perché tutti ridano di lui…

Senza dubbio, io ero posseduto dallo spirito di perversione di cui parla Poe: mentre l’uomo mi seppelliva sotto una valanga di rimproveri per averlo osservato con malsana curiosità, io continuavo a osservarlo con malsana curiosità. Sì, era il fascino del mostruoso che mi dominava, e vedevo adesso che il grassone era, in verità, molto giovane, forse venticinque o ventisei anni…

E quegli occhi celesti cominciarono ad arrossarsi e a riempirsi di lacrime, e, finalmente, il personaggio scoppiò in un pianto stentoreo e spettacolare, che culminò con queste parole, pronunciate gridando e tra i singhiozzi:

– Siete uguale a tutti! Tutti sono tagliati dalla stessa forbice! Addio, addio per sempre…!

E scappò rumorosamente sbattendo i piedi con forza e agitando il grosso corpo.

Io non sapevo dove nascondermi: dalla vergogna, ero come un fuoco. Il fatto è che, nel frattempo, si era radunato lí un gran numero di professori e – povero me! – di professoresse, alcune abbastanza belle: che idea sbagliata si sarebbero fatte adesso queste dame, che relazione immaginerebbero tra me e il grassone?

Mi sembrò meglio uscire a camminare per i corridoi. Durante il resto del giorno, e anche nei giorni seguenti, tornai a pensare all’uomo obeso e isterico, e al piccolo scandalo, e giurai che mai più avrei osservato qualcuno con impertinenza.

Il martedì seguente arrivai a scuola con un piano: mi sarei seduto nella poltrona di sempre e, appena fosse arrivato il grassone, avrei finto di non vederlo e mi sarei andato a sedere in un banco di legno che si trova nel vestibolo del primo piano. In questo modo avrei evitato ogni scena sgradevole.

Ma, per fortuna, il grassone non apparve: non apparve quel martedì, non apparve mai più.

In seguito mi vinse la curiosità e, con domande fatte con falsa indifferenza, mi informai in segreteria che un professore nuovo, così e così, un po’ grasso, chiamato – seppi – Edgardo Carlos Piaro, aveva dato lezioni – di psicologia e di logica – il lunedì della settimana anteriore, e dopo, senza avvisare nessuno, aveva realizzato un “abbandono di compiti” – questo era stato il preciso termine utilizzato – ed era stato già sostituito da un altro docente.

2.

Sabato sera ricevetti la visita allucinante della madre del professor Piaro. La sua arma migliore fu la sorpresa: prima che io potessi pensare al minimo movimento difensivo, questa signora era già entrata fino alla parte più interna del living e si era seduta, affannosa, sul braccio di una poltrona.

Io e mia moglie, con una coppia di amici, ci stavamo dedicando al triviale trascorrere della serata, tra bicchieri di whisky, sigarette e chiacchiere del momento. E adesso, lì, davanti a occhi estranei, comparsa come un fantasma, stava seduta questa donna brutta, sudata, con vestaglia stampata in bianco e nero, con gli occhiali, con i capelli biondi stinti e striati di bianco, con le unghie sporche. E questa donna parlava senza sosta, con voce squillante, sbagliando i tempi verbali, omettendo le ultime sillabe delle parole e facendomi – Dio mio! – rimproveri inconcepibili:

– …e Elgardito ha adesso una depressione, per quello che lei gli ha detto dell’obesità, capisce? Lei non avrebbe mai dovuto dirgli che era grasso… Adesso ha la depressione e, quando è depresso, diventa come pazzo, perde il controllo e comincia a mangiare e a mangiare più che mai, capisce…?

La donna si era messa in piedi e mi si avvicinava sempre più. Le mancavano alcuni denti e, per questo, le sue parole erano accompagnate da goccioline di saliva, che io, retrocedendo continuamente, cercavo di evitare.

– …e mangia e mangia e mangia… Lei non sa che cos’è Elgardito quando mangia. Questo lo porterà alla tomba. La dottoressa è disperata per la sovralimentazione. Sono dieci giorni che Elgardito mangia a più non posso. La dottoressa dice che non può continuare con questa sovralimentazione, il cuore non potrà resistere e morirà d’infarto. La mattina presto si alza e mangia un chilo di spaghetti con salsa di ragù; dopo, verso le dieci, si mangia otto o dieci bistecche con patate fritte e uova fritte…

E, senza risparmiare dettagli, continuò a dipingermi una sfilata gastronomicamente spaventosa di ravioli, spezzatini con verdure, affettati, dolci, burro, marmellate, pani, biscottini, torte, dolciumi… Affinché tutto ciò risultasse più orribile, metteva insieme alimenti che, in realtà, non si potevano combinare senza repulsione: fegato fritto e dolce di latte, stufato di carne e confettura di cotogno. Cosi mangiava Edgardito, e la donna piangeva e gridava, e improvvisamente seppi cosa pretendeva da me:

– Lei deve andare a chiedere perdono a Elgardito! Solo cosí smetterà di mangiare. Lui stesso me lo ha detto, molto chiaramente. Mi ha detto: “Fino a che l’aggressivo signor Sorrentino non verrà a chiedermi perdono in ginocchio, non smetterò di mangiare, mangerò a più non posso, fino a farmi scoppiare il cuore. Cosi saprà chi sono io”. Queste cose ha detto Elgardito, e ha proprio ragione. Ha tutta la ragione del mondo.

Non feci caso alle sue parole, evitando di rispondere alla sua evidente insensatezza. Il mio unico desiderio era che la donna se ne andasse il più presto possibile.

Ciò nonostante, riuscii a dire:

- Ma, signora, sia ragionevole. Che posso fare io? Le converrebbe chiamare un medico…

- No, signore! – era ancora più furiosa –. Che medico e medico! Non le sto dicendo che Elgardito ha detto chiaramente quello che lei deve fare? Lei deve andare a chiedergli perdono in ginocchio. Cosí ha detto Elgardito: “Fino a che l’aggressivo signor Sorrentino non verrà a chiedermi perdono in ginocchio, continuerò a mangiare a più non posso fino a scoppiare”. E questo è quello che sta facendo: quando sono uscita per venire qui, l’ho lasciato mentre mangiava riso con pancetta e salamella piccante… Elgardito sta compiendo la sua promessa di uccidersi, e tutto per colpa sua, signor Sorrentino!

Non voglio essere ripetitivo: queste spiegazioni cicliche – appiccicose come catrame, esasperanti come un moscone – si ripeterono non so quante volte. Nemmeno so come riuscii, tra pianti e minacce, a farla andare via. Per quanto mi facesse pena questa madre che veniva a implorare per la salute di suo figlio squilibrato, non potevo ammettere in nessun modo – a meno di essere anch’io completamente pazzo – questa soluzione demente di andare a chiedere perdono in ginocchio al grassone isterico.

In un foglio di quaderno scolastico, con faticosa scrittura da semianalfabeta e separando ogni parola con un punto, la donna aveva scritto l’indirizzo dove, teoricamente, io dovevo andare a inginocchiarmi per salvare la vita di quell’uomo insaziabile. Questi viveva, inoltre, in un paesino del distretto de La Matanza, un luogo nel quale non mi sentivo più di andare, anche se in altre epoche lo avevo fatto per il solo gusto di viaggiare in quel curioso treno arcaico che parte dalla stazione Buenos Aires, a Barracas.

Allora mi afflisse un improvviso rimorso: “Se prima andavi lí solo per piacere, adesso potresti andarci per salvare una vita”. Chiusi gli occhi con forza e scossi la testa per respingere l’idea: stavo forse cadendo anch’io nella malattia del non-senso?

3.

- E’ per te – disse mia moglie, coprendo la cornetta del telefono con la mano – Ci sei?

– Chi è?

– Una certa dottoressa Perla Zaselsky.

Dato che questa persona sconosciuta non si contava, per adesso, nel numero di quelli che mi potevano infastidire, presi il telefono. Ci furono presentazioni e un dialogo rapido. Capii di cosa si trattava sentendo:

– Sono la psicoterapeuta del signor Edgardo Piaro…

– Ah, no, no, no! – la interruppi –. Questo proprio no! Mi scusi, dottoressa, ma non voglio intervenire in niente che abbia la minima relazione con quel signore.

– Ma guardi che è molto importante.

– Mi scusi, ma non voglio sentirla, dottoressa.

La voce diventò indignata e tagliante:

– Allora lei mi attacca senza sapere quello che le voglio dire?

– E’ cosi – io mi sentivo stranamente orgoglioso della mia attitudine.

– Molto bene. Lei saprà quello che fa. Buona sera.

E non fui io, ma lei che tagliò la conversazione, quando io avevo iniziato a dire: “Aspetti!”


4.


Tra quattro buste con l’indirizzo scritto a macchina, ce n’era uno con caratteri manoscritti maldestri. Invece di Sorrentino avevano messo Zorrentino, la mia strada Matienzo era diventata Matenso e avevano omesso il numero del codice postale.

Senza necessità di leggere il mittente, seppi subito di chi era la lettera. Esitai qualche istante tra aprire la busta o strapparla a pezzi. Dopo mi dissi che una lettera mai poteva essere peggio di una visita ed estrassi dalla busta un foglio di quaderno scolastico, piegato in quattro.

Nella lettera avevano attaccato un piccolissimo ritaglio di giornale. Appena lo lessi, sperimentai una specie di giramento e mi bagnai di sudore: Edgardo Carlos Piaro, R.I.P., morì il 7 settembre 1982, C.A.S.R. e B.P.1 Poi c’era scritto il nome della madre: Isabel Hilda Morguebur, vedova di Piaro. Non c’era il nome della moglie: il grassone, cosi giovane, era già vedovo? In seguito, mi pianse il cuore: le sue figliolette Valeria Roxana e Verónica Mariela. Dunque quell’uomo irrazionale lasciava due figliolette? Dunque, invece di pensare a loro, si era lanciato come un matto a mangiare a più non posso fino a scoppiare? Poi apparivano altri parenti e, alla fine, i suoi colleghi dell’ Ateneo di Logica Simbolica di San Justo.

Ma, prima di leggere questa minuscola tipografia del giornale, vidi, forzatamente, un grosso riquadro rosso che circondava l’avviso funebre e, ancora una volta, la scrittura maldestra che diceva: lei. lo. ha ucciso. asasino.



1:Con gli Aiuti della Sacra Religione e la Benedizione Papale, è una formula tipica dei necrologi spagnoli o sudamericani.



Traduzione di Isabel Cuartero

venerdì 18 gennaio 2013

La del estribo
di Felix Luis Viera

Felix Luis Viera - La patria è un'arancia - Edizioni Il Foglio

para G.



A veces siento que más que tu amador

soy tu pasado.

Vine contigo



Tú estabas en la nieve en una tarde de sol y yo solté mis trineos

hacia donde Tú

y tú eras la flama que todo el mundo quisiera ver alumbrar sobre la nieve



Pero en realidad fue entre las montañas

en una ciudad que es mejor que pase a la historia sin nombre



Tú estabas entre las lámparas, los vasos, la gente, las cucharas

Tú eras de pronto una lámpara que iluminaba desde el valle cercano



Más que tu amador

soy tu pasado

Vine de ti

soy tu hijo más pequeño,

más leve



Ama al poeta

él te encontró entre los jardines y los rompecabezas

Él ha venido caminando desde la derrota para encontrarte

Eres la última reminiscencia de su tierra perdida

eres el olor a leña que aún llega desde los fogones de su infancia

No olvides al poeta



No lo olvides

Él para ti anidó colibríes al borde de la Muerte

contra la Muerte

Él te ha amado con el fervor de esas golondrinas que migran hacia el lado opuesto de la

Muerte

Te ha amado como a esas palmeras incendiadas en las noches de amor

en aquellas playas donde nadie quisiera morir



El poeta se irá antes que tú

pero primero arderán todos tus bosques

y aun los más humildes de tus pétalos sabrán del fuego

Ámalo, ni entonces lo abandones:

cuando hayan desaparecido sus versos, su cuartilla más gloriosa,

los puentes que cruzó

No lo olvides ni entonces:

él fue tu pasado

él vino contigo

él te amó con el reflejo del cuchillo en la rosa

y fue por ti que en el instante inesperado se sumó al amanecer.



Septiembre de 2002





Il mio sostegno
Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi



para G.



A volte sento che non sono il tuo amante

ma il tuo passato.

Sono venuto con te.



Tu stavi nella neve in una sera di sole e io sciolsi le mie slitte

verso dove eri Tu

e tu eri la fiamma che tutti volevano veder luccicare sulla neve.



Ma in realtà fu tra le montagne

in una città che è meglio passi alla storia senza nome.



Tu eri tra le lampade, i vasi, la gente, i cucchiai.

Tu eri all’improvviso una lampada che illuminava dalla valle vicina.



Più che il tuo amante

sono il tuo passato.

Provengo da te

sono il tuo figlio più piccolo,

più lieve.



Ama il poeta

lui ti incontrò tra i giardini e i rompicapo.

Lui è venuto a piedi dalla sconfitta per incontrarti.

Sei l’ultima reminiscenza della sua terra perduta

sei l’odore di legna che ancora proviene dai focolari della sua infanzia.

Non dimenticare il poeta.



Non lo dimenticare.

Lui per te nidificò colibrì al margine della Morte

contro la Morte.

Lui ti ha amato con il fervore di quelle rondini che migrano verso il lato opposto della

Morte.

Ti ha amato come quelle palme incendiate nelle notti d’amore

su quelle spiagge dove nessuno vorrebbe morire.



Il poeta se ne andrà prima di te

ma prima bruceranno tutti i tuoi boschi

e anche i più umili tra i tuoi petali profumeranno di fuoco.

Amalo, non abbandonarlo mai:

quando saranno scomparsi i suoi versi, la sua cartella più gloriosa,

i ponti che attraversò.

Non dimenticarlo mai:

lui fu il tuo passato

lui venne con te

lui ti amò con il riflesso del coltello nella rosa

e fu per te che nell’istante più inatteso si unì all’alba.



Settembre 2002

giovedì 17 gennaio 2013

Come saranno?

di Yoani Sánchez


Il Sexto ha detto che farà un graffiti sulla mia valigia; una vicina mi ha regalato un amuleto per il viaggio e un amico mi ha annotato il suo numero di scarpe perché gliene porti un paio. Mi salutano anche se ancora non me ne vado. Non ho neppure una data di volo. Ma il 14 gennaio qualcosa è cambiato nella mia vita, perché è entrata in vigore la Riforma Migratoria annunciata lo scorso ottobre. Dopo un’attesa di 24 ore all’esterno del Dipartimento Immigrazione e Ufficio Estero (DIE), ho saputo che finalmente mi rilasceranno un nuovo passaporto. Dopo venti “carte bianche” negate in meno di cinque anni, confesso che ero scettica e non nutrivo molte speranze. Ancora adesso, crederò di aver raggiunto il mio obiettivo solo quando mi vedrò dentro un aereo in procinto di alzarsi in volo.


È stata una lunga battaglia portata avanti da molti. Un prolungato cammino per affermare il principio che entrare e uscire dal nostro paese deve essere un diritto inalienabile, non una benevola concessione. Anche se i cambiamenti introdotti dal Decreto Legge numero 302 risultano insufficienti, non avremmo ottenuto neppure quelli se fossimo rimasti con le braccia conserte. La riforma non è il frutto di un gesto magnanimo, ma il risultato delle denunce sistematiche portate avanti contro l’assurdo sistema migratorio.


Per questo ho intenzione di continuare a “spingere avanti i limiti” della riforma, sperimentando sulla mia pelle fino a che punto arriva la volontà di cambiamento. Per oltrepassare le frontiere nazionali non farò nessuna concessione. Se non può viaggiare la Yoani Sánchez che sono, per riuscirci non sono disposta a trasformarmi in un’altra persona. Una volta all’estero non nasconderò le mie opinioni perché mi lascino “rientrare” o per compiacere certi uditori, né mi rifugerò nel silenzio per evitare che mi neghino il ritorno. Dirò quel che penso del mio paese e della mancanza di libertà che noi cubani soffriamo. Nessun passaporto riuscirà a farmi tacere, nessun viaggio riuscirà a cambiarmi.


Chiariti questi particolari, preparo il programma della mia permanenza fuori Cuba. Spero di poter partecipare a numerosi eventi che mi facciano crescere professionalmente e civicamente, voglio rispondere a domande e dire la mia opinione sulle campagne di diffamazione che sono state organizzate contro di me… e in mia assenza. Visiterò quei paesi che da tempo mi hanno invitato, ma che la volontà di poche persone mi ha impedito di raggiungere; navigherò come un’ossessa su Internet e tornerò a scalare alcune montagne che ho abbandonato da circa dieci anni. Ma ciò che più mi entusiasma è che conoscerò molte cose di voi, cari lettori. Ho già i primi sintomi di quell’ansia: il formicolio nello stomaco che provoca la vicinanza dell’ignoto e il risveglio nel bel mezzo della notte mentre mi chiedo come saranno i vostri volti, le vostre voci. E io? Sarò proprio come mi avete immaginato?


Traduzione di Gordiano Lupi

Libero parla de la ninfa incostante


LIBERO - Maurizio Stefanini - 16 gennaio 2013

La riforma migratoria cubana



L'Avana, 17 gennaio 2013 - L'entrata in vigore della Riforma Migratoria ha provocato lunghe code e disagi negli uffici del Dipartimento Immigrazione ed Estero di tutto il paese. Sono molti i cubani che vorrebbero viaggiare, uscire dall'Isola, temporaneamente o definitivamente. Adesso possono farlo. La legge consente di uscire da Cuba per un massimo di due anni, basta avere un passaporto in regola e un biglietto aereo. Il passaporto costa 100 dollari, ma non serve più la famigerata tarjeta blanca, né la ancora più assurda carta di invito redatta da uno straniero. Va da sé che servono le possibilità economiche per uscire dal paese, questo è un altro discorso, e in una situazione come quella cubana non sono molti a potersi permettere il lusso di un viaggio. Si ricorre al parente che vive all’estero, si vendono le scarse proprietà di cui si dispone, si chiede aiuto a un amico straniero. I mezzi sono molti e la fantasia dei cubani, che si è sbizzarrita per decenni, non mancherà proprio adesso che si è aperto uno spiraglio di libertà. Persino chi è uscito dal paese in maniera illegale potrà rientrare, per turismo o, cosa meno probabile, per restare.

 
Questa Riforma Migratoria è molto importante, una delle più clamorose degli ultimi anni, si tratta di un provvedimento che può avere una portata sconvolgente nell’economia dei delicati rapporti tra il governo cubano e la sua popolazione. Ma andiamoci piano con gli entusiasmi e non equivochiamo. La Riforma Migratoria non rappresenta la caduta di un muro, 23 anni dopo Berlino, in uno dei pochi regimi chiusi che restano al mondo. Se L’Avana ha fatto questo passo non è certo per ansia di libertà, né voglia di aperture improbabili, ma si tratta di una conseguenza del totale fallimento economico – sociale. Il sistema castrista, anche con le nuove misure che legalizzano e incentivano il lavoro autonomo, non riesce a dare lavoro e neppure a garantire la sussistenza della sua popolazione. Per questo motivo, adesso, dopo averlo impedito per decenni, incita i propri cittadini a viaggiare, sperando che tornino a casa con le tasche piene di valuta pregiata da spendere e investire. Inoltre il governo si riserva la possibilità di negare il passaporto per motivi di “interesse pubblico” o di “difesa e sicurezza nazionale”, perché ha già fatto sapere che contrasterà con tutte le sue forze il “furto di cervelli”, evitando che se ne vadano dall’Isola i cittadini più educati e preparati. Stiamo a vedere adesso se il governo cubano terrà fede alle promesse legislative e se consentirà l’uscita delle Damas de Blanco per andare a ritirare il Premio Sacharov assegnato dal Parlamento Europeo, oppure se accetterà che un dissidente come Guillermo Fariñas possa andare e venire da Cuba. E la blogger Yoani Sánchez - corrispondente de El País e premio Ortega y Gasset di giornalismo -, dopo venti divieti di uscita - potrà finalmente recarsi all’estero?


Un altro problema per i cubani è che non possono uscire dal loro paese se non possiedono – oltre al passaporto - un visto d’ingresso rilasciato dalla nazione dove vogliono andare, incluso Stati Uniti e Spagna. Molti governi hanno criticato il regime castrista perché non permetteva ai propri cittadini di uscire dal paese. Adesso che il divieto è caduto, i governi democratici non dovrebbero chiudere la porta ai cubani che vogliono viaggiare. Servirebbe un atteggiamento più generoso dall’altra parte del mare, una politica di accoglienza caratterizzata da un atteggiamento meno restrittivo in sede di concessione del visto d’ingresso. Gli Stati Uniti – nella fattispecie la Florida – sono il luogo più gettonato per le uscite dal paese, il posto dove i cubani possono trovare un lavoro e dare un po’ di respiro ai familiari che restano sull’Isola. Mai come oggi la ripresa economica di Cuba e il suo cambiamento politico – sociale dipendono dagli Stati Uniti e da come daranno attuazione alla Riforma Migratoria promulgata da Raúl Castro.

Gordiano Lupi

lunedì 14 gennaio 2013

Yoani Sánchez: Non mi sembra vero. Potrò viaggiare!



Oggi è il 14 gennaio 2013, Giorno Zero, Giorno X, giorno della Riforma Migratoria. In qualche ufficio hanno già deciso chi potrà uscire. Non resta che attendere. Manca soltanto che lo dicano a noi, che siamo i diretti interessati. Più di settanta persone fanno la fila per entrare nei locali dell’Ufficio Emigrazione del Municipio Plaza. Sono in coda da ieri e attendo con pazienza che venga il mio turno. Nonostante i mille dubbi e le tante incertezze, le speranze hanno sempre il sopravvento. La Riforma Migratoria è partita. Noi siamo qui per verificarne i limiti.


Vedo intorno a me adulti che tengono per mano bambini, tanti giovani in età da militare, un brulicare di persone. Se l’ufficio del Municipio Plaza è così affollato, in tutto il paese saranno migliaia le persone in attesa del passaporto. Mi sorprende la grande quantità di bambini, che prima di oggi non potevano uscire dal paese, se non in maniera definitiva. Finalmente arriva il mio turno. Mi riceve un’impiegata cortese e mi aiuta a compilare la pratica per ottenere un nuovo passaporto. Devo attendere 15 giorni per averlo, ma ricevo subito la notizia tanto attesa: quando avrò il nuovo passaporto, potrò viaggiare. Ancora non riesco a crederci! Ho vinto una battaglia contro i demoni dell’assurdo sistema migratorio. Per ben venti volte mi hanno negato il permesso di uscita, ma adesso la possibilità di viaggiare pare molto vicina. Nella prima settimana di febbraio avrò il mio passaporto e potrò uscire da Cuba… incrocio le dita! Quando sarò sopra un aereo ci crederò. Forse anche altri attivisti come le Damas de Blanco, Rosa Maria Payá e Guillermo Fariñas potranno viaggiare. Non ci sono soltanto buone notizie, in questa giornata. Jorge Luís Garcia, Yris Perez, Yanisbel Valido e Orestes Fdez sono stati arrestati. Non solo. Si diffonde il colera all’Avana e nessuno ne parla. Il Granma non dà la notizia, la televisione tace…


Yoani Sánchez, 14 gennaio 2013
Traduzione di Gordiano Lupi

Cuba: dall’acquavite casalinga al rum Santiago


di Ivan Garcia

Se disponi di moneta forte puoi mangiare in ristoranti di lusso come El Aljibe, tra 7ma e 24, Miramar o Los Nardos, davanti al Capitolio Nacional. Fumare sigarette di buona qualità. E acquistare imitazioni di prodotti di marca provenienti dalla Cina. Puoi avere una casa decentemente ammobiliata. Un frigorifero pieno di carne di manzo e gamberoni. E di notte, puoi toglierti lo sfizio di bere birra Heineken importata dall'Olanda o le marche nazionali Bucanero e Cristal. Puoi anche acquistare rum con l'etichetta Havana Club o i favolosi invecchiati Caney o Santiago, prodotti nella vecchia Bacardí, provincia orientale di Santiago de Cuba.

Bere rum o birra è quasi uno sport nazionale. Ogni evento, festa familiare o avvenimento è un buon pretesto per stappare una bottiglia. Le persone grazie al rum superano i problemi di cuore e della vita quotidiana. Confessano i loro dubbi sul futuro del paese. Parlano senza remore della salute di Hugo Chávez e Fidel Castro. Esprimono opinioni su statistiche di baseball e sulle ultime partite della NBA. Secondo dati ufficiali, il 45,2% della popolazione cubana maggiore di 15 anni consuma bevande alcoliche. L'alcolismo e la prostituzione sono due argomenti molto gettonati dai giornalisti indipendenti.

La differenza tra un ubriacone denaroso e un beone dotato di scarso potere d'acquisto è notevole. Mentre generali e ministri possono bere generose sorsate di whiskey scozzese o Jack Daniel's Made in USA, gli ubriachi di quartiere devono accontentarsi del perfido rum economico che si può acquistare senza problemi in diverse botteghe.

L'ultimo gradino della scala alcolica è l'acquavite casalinga. Il peggio del peggio. Una vera e propria bevanda da diseredati. Si produce in luoghi sudici e quartieri malfamati. Il carbone industriale e gli escrementi di vacca servono a raffinare l'alcol distillato. Puro fuoco. Fa piangere lacrime quando scende nella tua gola. Va bene solo per alcolisti inveterati o potenziali suicidi. Il popolino lo classifica con diversi nomi: Chispa de tren, Bájate el blúmer, Hueso de Tigre, Salta pa’atrás... (Scintilla di treno, Tirati giù la camicia, Osso di Tigre, Salta indietro..., ndt) Lágrimas negras (Lacrime nere, ndt) è una combinazione letale di alcol mescolato a collirio di Homatropina filtrato con un po' di cotone. Una bottiglia di questa infernale acquavite costa dieci pesos cubani. E lo squisito rum Santiago, oggi il migliore di Cuba, costa tra 7 e 9.60 pesos convertibili, equivalenti a 175 e 230 pesos, quasi la metà del salario medio mensile. E' 17 volte più caro. Ragion per cui molti bevitori si accontentano dell'infame rum casalingo.

Quando è il momento di bere alcol, a Cuba, non c'è differenza di età, razza, sesso, ideologia o religione. Non ha la minima importanza il livello educativo o culturale. Alcuni sono bevitori sociali. Alzano il gomito con prudenza e sanno fermarsi prima di prendere una sbornia. Altri bevono come pirati. Bottiglia dopo bottiglia, come se dovessero entrare nel Guinnes dei Primati. Ognuno beve secondo le possibilità delle sue tasche. Il rum e la birra piacciono a tutti: intellettuali, dissidenti, prostitute o militanti del partito. A quanto si dice, il presidente Raúl Castro ama bere vodka. Russa e preferibilmente pura.

Traduzione di Gordiano Lupi

sabato 12 gennaio 2013

Felix Luis Viera, un poeta cubano

Esquema de los amantes clandestinos


di Felix Luis Viera

(23 de julio de 1991)



Para Marilis



Los amantes clandestinos sólo tienen punto de partida.

Las estaciones adonde llegan son siempre sitios intermedios.

Viajan los amantes clandestinos en carromatos destartalados.

Viajan y viajan y no saben ni remotamente dónde terminar.

Viajan.

En cualquier taberna oscura toman vino del

peor (para despistar) y se sirven de las posadas más

astutas y blanden y afilan un puñal que nunca podrán

utilizar contra nadie.

En su camino aprenden a cuidarse de los

Generales y los Presidentes (los Generales y los Presidentes

nunca aprueban a los amantes clandestinos, ni siquiera

cuando ellos mismos sean amantes clandestinos)

y aprenden a cuidarse del olfato de los perros y

de ciertos números mágicos que iluminan las noches.

Viajan.

No quieren detener su viaje y a la vez

quieren detenerlo, entre otras razones, porque les salen

ampollas en la memoria y un líquido abrasivo

les derrite cierta porción parecida a la conciencia.

Siguen.

Viajan.

Llenan tarjetas falsas y se hacen pasar por árboles y

cestos de basura,

la bandera que llevan en su carromato cada vez les parece

más dudosa, pierde esplendor,

el viaje es demasiado largo, o no es un viaje,

es un ir, un ir, sólo un ir.

Pero, agotados, siguen, no hay regreso.

Hasta que el carromato destartalado se derrumba,

y los caballos revientan

y a ellos les suda el alma

y sacan aquel puñal

y con él

asesinan el punto de partida.





Progetto degli amanti clandestini

(23 luglio 1991)

Per Marilis



Gli amanti clandestini hanno solo un punto di partenza.

Le stazioni dove giungono sono sempre luoghi intermedi.

Viaggiano gli amanti clandestini su carrozzoni scassati.

Viaggiano, viaggiano senza sapere dove finiranno.

Viaggiano.

In qualche taverna oscura bevono il vino

peggiore (per depistare) e si servono delle pensioni più

nascoste mentre agitano e affilano un pugnale che mai potranno

utilizzare contro nessuno.

Nel loro cammino apprendono a difendersi dai

Generali e dai Presidenti (i Generali e i Presidenti

non approvano mai gli amanti clandestini, neppure

quando loro stessi sono amanti clandestini)

a apprendono a difendersi dal fiuto dei cani e

da certi numeri magici che illuminano le notti.

Viaggiano.

Non vogliono fermare il loro viaggio ma al tempo stesso

vogliono fermarlo, tra gli altri motivi, perché vengono fuori

ampolle dalla memoria e un liquido abrasivo

dissolve una parte che ricorda la loro coscienza.

Vanno avanti.

Viaggiano.

Riempiono documenti falsi, si fanno passare per alberi e

cesti della spazzatura,

la bandiera che sventolano sul loro carrozzone ogni volta pare

più incerta, perde splendore,

il viaggio è troppo lungo, o non è un viaggio,

è un vagare, un vagare, solo un vagare.

Ma, sfiniti, vanno avanti, non esiste un ritorno.

Fino a quando il carrozzone scassato non si sfascia,

i cavalli crepano

e la loro anima suda,

così estraggono quel pugnale

e con lui

assassinano il punto di partenza.


Traduzione di Gordiano Lupi

sabato 5 gennaio 2013

L’umorismo nero di Garrincha si sbizzarrisce su Chávez




Morte: Il vincitore è…
Raúl Castro: Uh, che nervi


(Maduro, sceneggiatore involontario)
Moglie: Come Chávez. Tranquillo e stabile.


Morte: Chávez Hugo Rafael
Raúl e Fidel (in coro): Questa volta non ci riguarda!

 

Maduro: Noi abbiamo la speranza e la fede in Dio e nei medici che il nostro Comandante Hugo Chávez migliorerà.
Dio: Non guardate me. Questo caso l’ho passato agli stregoni dell’Avana.


Traduzioni di Gordiano Lupi