giovedì 28 novembre 2024

La grande bellezza in Biblioteca


Il Bar Pellegrini

Il Bar Pellegrini non era una gelateria della Piombino anni Sessanta. Era la gelateria. Il Bar Pellegrini si trovava quasi in fondo a Corso Italia, lato depressione, dove oggi come oggi si spingono in pochi, ché non ci sono molti motivi per andare a passeggiare, scomparsa la libreria Mondadori, resta solo la pizzeria che sforna una torta di ceci cotta a legna e la pizza al taglio più buona del mondo. Il Bar Pellegrini segnava la fine della passeggiata cittadina, faceva spingere lo sguardo verso le acciaierie, simbolico spartiacque tra i quartieri operai di via Gaeta, via Landi, via Giusti e lo struscio delimitato da piazza Gramsci e piazza Verdi, sempre affollato di ragazzini. Il Bar Pellegrini si trovava a pochi metri dal cinema Sempione, aveva una sala biliardo molto frequentata, serviva aperitivi e pasticcini, colazioni calde, ma soprattutto gelati artigianali, ché quella era la sua specialità. Al Bar Pellegrini c’erano i baristi d’una volta in divisa bianca e fiocchino nero, capelli impomatati di brillantina, ché lo stile era importante e loro erano baristi da classe media, mica da popolino. Io il Bar Pellegrini me lo ricordo solo per il gelato, ero un bambino e quello mi interessava, mica il biliardo o l’aperitivo. Il Bar Pellegrini aveva un solo difetto: era il bar della borghesia e noi eravamo operai, non delle acciaierie ma delle Ferrovie dello Stato, che era pure peggio. Abbiamo passato periodi che si doveva tirare parecchio la cinghia, dicevano che in Italia c’era il boom ma non ce ne accorgevamo, forse eravamo distratti, chissà. Il gelato costava caro per il nostro bilancio, con cinquanta lire ti davano due gusti e ci mettevano pure la panna ma non erano poche cinquanta lire nel 1965, non per una famiglia di operai. Certo il gelato era buono, fatto in casa, naturale, si sentiva il sapore del latte, un sapore che adesso cerco di riscoprire in altri gelati ma per quanto mi sforzi non lo trovo, sarà per quel fatto del tempo che passa, non lo so mica per cosa sarà, so soltanto che non lo trovo e tanto basta. Se riavvolgo il nastro e vado a ritroso con la memoria mi rendo conto che sono tante le cose che ho perduto. E allora cerco, frugo, annaspo, mi immergo nei pensieri che vagano per la mia testa ma il più delle volte ne vengo fuori più stordito di prima. La memoria è selettiva, non trattiene tutto, dicono i medici, ma a volte mi sembra che trattenga solo quel che fa piacere a lei, ché le cose importanti scappano via, non le fermo, non ne sono capace.

Gordiano Lupi

www.gordianolupi.it

mercoledì 27 novembre 2024

Il cielo senza altoforno



 Il cielo senza altoforno: https://www.youtube.com/watch?v=JiJxr9wNcPI


La caduta dell'altoforno a Piombino, 16 maggio 2024.

Testo di Gordiano Lupi, voce narrante di Giovanni Casalino, montaggio di Stefano Simone, fotografie di Riccardo Marchionni. La canzone "Entra Piano" - colonna sonora del video - fu composta nel 1973 con testo di Claudio Jonta, musica di Massimo Panicucci/Pietro Sabatini, cantata da P. Sabatini e M. Panicucci, eseguita dagli Jontas.

Non tornerò, di Felix Luis Viera

il primo libro italiano di Viera

NO VOLVERÉ  

 Ayer en la mañana estuve en el Cementerio de Dolores, y de nuevo, los costados de

tantas tumbas mostraban intensas humedades venidas del rocío.

Tú, rutilante, estabas en el Este, junto al crematorio,

y me recibiste como aquel mediodía

cuando te acompañé a cremar a tu mamá.

 

Conversamos después de tanto tiempo. Te pedí que me acompañaras a

escoger mi tumba, que fuera buena, aunque modesta —ya sabes que sigo

siendo pobre—, mirando hacia el Poniente. Y por favor que no la empañasen esas

humedades —alguien podría encargarse de bloquear el trajinar nocturno del rocío­—,

pues, aunque yo no podré verlas, sí los visitantes (espero que alguien me visite) y

quienes pasen por el sitio —y esto les resultará un poco deprimente.

 

Te hallé etérea, sutil, tierna como siempre.

Caminamos hacia el fondo a ver cuáles estaban disponibles

según la lista que nos entregaron en la oficina.

Pasamos aquella como avenida breve entre dos bosquecillos

que más parece un sitio para vivir, enamorarse, emborracharse, bailar y esas

cosas

que para enterrar vidas terminadas.  

 

Topamos con la barda, la misma barda de aquella vez, la misma barda,

y de nuevo parecías levitar desde mis manos, y ese beso

mediante el ritual de los desamparados, los furtivos.

 

Ya lo esperaba: me sugeriste que me hiciera cremar

como a tu mamá aquel mediodía. ¿Pero cómo crees, mujer?: si siento

más miedo de que me quemen vivo que de despertar encajonado bajo tierra.

 

Y ya ves lo que son las cosas de la vida: junto a aquel árbol frondoso cercano a la barda (de esos árboles que resultan tristes porque están en un cementerio, no porque lo sean) estaba, disponible, según la lista que llevábamos, la tumba de granito gris brillante que aquel día alabamos —solo que entonces se hallaba ocupada; seguramente lo recuerdas.

Entonces de volada a la oficina —ya sabes, hay gente con suerte tan magra que aun se le pueden adelantar en el último segundo para la compra de la tumba que quisieran— y la rentamos para mí.

Así que mañana voy a morirme.

Es decir, que ya mañana estoy muerto.  

O sea, que no volveré, mujer querida.

 

11 de noviembre de 2024




 NON TORNERÒ  

(traduzione di Gordiano Lupi)

 

Ieri mattina sono stato al Cimitero di Dolores, e di nuovo, le pareti di 

tante tombe mostravano un’intensa umidità dovuta alla rugiada.

Tu, raggiante, stavi nell’Est, accanto al crematorio, 

e mi hai accolto come quel pomeriggio 

quando ti accompagnai a cremare tua madre. 

 

Abbiamo parlato dopo tanto tempo. Ti ho chiesto di accompagnarmi a 

scegliere la mia tomba, che sia buona, anche se modesta - sai bene che sono 

ancora povero -, che guardi a Occidente. E per favore non impregnata di questa

umidità - qualcuno potrebbe occuparsi di bloccare il transito notturno della rugiada -,  perché, anche se non potrò vederlo, i visitatori (spero che qualcuno venga a trovarmi) e i passanti lo potranno - e questo sarà per loro un poco deprimente.

 

Ti ho trovata eterea, delicata, tenera come sempre. 

Siamo andati in fondo per vedere quali fossero disponibili 

secondo l’elenco che ci hanno consegnato in ufficio. 

Abbiamo superato quello che pare un breve viale tra due boschetti 

e sembra più un posto per vivere, innamorarsi, ubriacarsi, ballare e altre cose 

che per seppellire vite terminate.   

 

Siamo finiti contro la recinzione, la stessa recinzione di quella volta,

la stessa recinzione,

e di nuovo sembravi levitare dalle mie mani, e quel bacio

attraverso il rituale degli innamorati, dei furtivi. 

 

Me l’aspettavo: mi hai suggerito di farmi cremare

come tua madre quel pomeriggio. Ma cosa credi, donna? Ho più paura 

di essere bruciato vivo che di svegliarmi in una bara sotto terra.  

 

Lo vedi come sono le cose della vita: accanto a quell’albero frondoso vicino alla

recinzione (uno di quegli alberi che sembrano tristi perché sono in un cimitero, non perché lo siano) c’era, disponibile, secondo l’elenco che avevamo, la tomba
di granito grigio brillante che quel giorno lodammo - solo che allora era occupata;

sicuramente lo ricordi.

Per questo ci siamo precipitati in ufficio - lo sai, ci sono persone così poco fortunate

che possono anche essere precedute all’ultimo secondo per acquistare la tomba che

desiderano - e l’abbiamo affittata per me. 

Pertanto domani morirò. 

Quindi, domani sarò già morto.   

In pratica, non tornerò, mia cara donna.

 

11 novembre 2024

venerdì 15 novembre 2024

Versos sencillos di José Martí (1891 - completo)

 

José Martí

 

 

 

Versos sencillos

 

 

Versi semplici

 

(1891)

 

 

 

New York, 1891

Lewis Weiss & Co

 

 

 

 

Traduzione di Gordiano Lupi 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Manuel Mercado, Messico

 

A Enrique Estrázulas, Uruguay





 

 


Nota introduttiva

 

I miei amici sanno come mi sgorgarono dal cuore questi versi. Fu durante quell’inverno angoscioso, nel quale per ignoranza, o per fede fanatica, o per paura, o per cortesia, si radunarono a Washington, sotto le insegne dell’aquila temibile, i popoli ispanoamericani. Chi di noi ha dimenticato quello stemma, lo stemma in cui l’aquila di Monterrey e di Chapultepec, l’aquila di López e di Walker, stringeva tra i suoi artigli tutte le bandiere americane? E l’agonia in cui vissi mi tolse le forze ridotte da ingiusti dolori, fino a quando non fui in grado di verificare la prudenza e l’entusiasmo dei nostri popoli. Vissi nell’orrore e la vergogna, in cui mi fece cadere il timore legittimo del fatto che noi cubani potessimo, con mani parricide, aiutare il piano insensato di allontanare Cuba, nel solo interesse di un nuovo padrone dissimulato, dalla patria che la reclama e nella quale si completa, dalla patria ispanoamericana. Il medico mi spinse al monte: scorrevano torrenti, si serravano le nubi: scrissi versi. A volte ruggisce il mare, irrompe l’onda nella notte nera, contro le scogliere del castello insanguinato: a volte sussurra l’ape, aggirandosi tra i fiori.

Perché pubblicare queste rime senza pretese, scritte come per gioco, e non i miei più intensi Versos Libres (Versi Liberi), i miei endecasillabi irsuti, nati da grandi paure, da grandi speranze, da indomito amore per la libertà, ebbri di doloroso amore per la bellezza, come un ruscello d’oro naturale, che scorre tra sabbia, acque torbide e radici, come ferro riscaldato, che fischia e scintilla, o come fontane incandescenti? E i miei Versos Cubanos (Versi Cubani), così pieni di rabbia, che stanno meglio dove non si vedono? E tanti miei peccati nascosti, tante prove ingenue e ribelli di letteratura? Non è il caso di mostrare adesso, con l’occasione di questi fiori silvestri, un corso della mia poetica, dire perché ripeto una consonante di proposito, o le graduo e raggruppo in modo tale che vadano - tramite vista e udito - dirette al sentimento, o mi esalto per loro, quando non chiede rime né sopporta rifiuti l’idea tumultuosa? Si stampano questi versi perché l’affetto con cui furono accolti, in una notte di poesia e amicizia, da alcune anime buone, li ha già resi pubblici. E perché amo la semplicità, e credo nella necessità di porre il sentimento in forme piane e sincere. 

 

New York, 1891

 

 

José Martí


I

 

Sono un uomo sincero

di dove cresce la palma

e prima di morire desidero

cantare dell’anima i versi.

 

Io vengo da ogni parte,

E in ogni parte vado:

Arte sono tra le arti,

Nei monti, monte sono.

 

Conosco i nomi strani

Delle erbe e dei fiori,

E di mortali inganni.

E di sublimi dolori.

 

Ho visto nella notte oscura

Piovere sulla mia testa

I raggi di fiamma pura

Della divina bellezza.

 

Ali nascere nelle spalle

Vidi di donne belle:

E uscire da macerie,

Volando le farfalle.

 

Ho visto vivere un uomo

Con il pugnale nel costato,

Senza dire mai il nome

Di quella che l’ha ammazzato.

 

Rapida, come un riflesso,

Due volte vidi l’anima, due:

Quando morì il povero vecchio,

Quando lei mi disse addio.

 

Tremai una volta - nel cancello

All’entrata della vigna, -

Quando la barbara ape

Punse in fronte la mia bimba.

 

Godei una volta, in tal modo

Come non godei mai: - quando

La sentenza della mia morte

Lesse il direttore piangendo.

 

Odo un sospiro, tra

Tutte le terre e il mare,

E non è un sospiro, ma

Mio figlio si sta per destare.

 

Se mi dicono dal gioielliere

Di prendere la gioia migliore.

Prendo un amico sincero

E metto da parte l’amore.

 

Ho visto l’aquila ferita

Volare nel cielo sereno,

E morire nella sua tana

La vipera dal veleno.

 

So bene che quando il mondo

Cede, livido, al riposo,

Sopra il silenzio profondo

Mormora il torrente ombroso.

 

Ho posto la mano ardita,

D’orrore e giubilo tesa,

Sopra la stella sfinita

Che cadde in terra distesa.

 

Nascondo nel mio petto bravo

La pena che me lo ferisce:

Il figlio d’un popolo schiavo

Vive per lui, tace e perisce.

 

Tutto è bello e costante,

Tutto è musica e ragione,

E tutto, come il diamante,

Prima che luce è carbone.

 

So che lo sciocco si sotterra

Con gran lusso e gran pianto.

E che non c’è frutta in terra

come quella del camposanto.

 

Taccio, comprendo e mi tolgo

La pompa del rimatore:

Da un albero sfiorito colgo

La mia cappa da dottore. 

  

 

 

  

 

 

II

 

Io so di Egitto, Negrezza,

Di Persia e Senofonte;

Ma preferisco la carezza

Dell’aria fresca del monte.

 

Io so di vecchie storie

Dell’uomo spesso ribelle;

Ma preferisco le api gaie

Volando tra le campanelle.

 

Io so del canto del vento

Tra i rami vociferanti:

Nessuno mi dica che mento,

Che lo preferisco tra tanti.

 

Io so di un daino spaventato

Che torna al recinto, poi spira,

E di un cuore affaticato

Che muore cupo e senz’ira.

 

 

 

  

 

 

 

 

III

 

Odio la maschera e il vizio

del corridoio del mio hotel:

Ritorno al mite brusio

Della mia selva d’alloro.

 

Con i poveri della terra

Voglio la mia sorte giocare:

Il torrente della sierra

Mi conforta più del mare.

 

Dai al vanitoso oro tenero

Che arde e brilla nel crogiolo:

A me dammi il bosco eterno

Quando in esso splende il sole.

 

Ho visto l’oro fatto terra

borbottare nell’ampolla:

Preferisco la mia sierra

quando vola una colomba.

 

Cerca il vescovo di Spagna

Pel suo altare un pilastro;

Nel mio tempio, nella montagna,

Il pioppo è il pilastro!

 

E il tappeto è pura felce,

E i muri son betulla,

E la luce vien dal tetto

Dal tetto di cielo azzurro.

 

Il vescovo, nella notte,

Esce, adagio, per cantare:

Monta, zitto, in vettura,

Che è una pina di pineta.

 

Le cavalle della carrozza

Son due uccelli azzurri:

E canta l’aria e folleggia,

E cantano le betulle.

 

Dormo nel mio letto di roccia

Il mio sonno dolce e profondo:

Sfiora un’ape la mia bocca

E cresce nel mio corpo il mondo.

 

Scintillano le grandi cornici

Al fuoco della mattina,

Che dipinge i drappeggi

Di rosa, violetta e cocciniglia.

 

Il clarino, solo nel monte,

Canta alla prima aurora

Il respiro dell’orizzonte

Prende, d’un sorso, il sole.

 

Dite al vescovo cieco,

Al vecchio vescovo di Spagna

Che venga, che venga dopo,

Al mio tempio, alla montagna!

 

 

 

  

  

 

 

 

 

IV

 

Io visiterò anelante

Gli angoli solitari donde

Andammo io e la mia amante

A spassarcela tra le onde.

 

Soli noi due fummo,

Soli, con la compagnia

Di due uccelli che vedemmo

Entrare nella grotta ria.

 

E lei, fissando gli occhi

Sulla coppia leggera,

Sciolse i gigli rossi

Che le dette la giardiniera.

 

La madreselva odorosa

Prese colle sue mani ella,

una madama graziosa,

un gelsomino come una stella.

 

Io volli, lesto e galante,

Aprirle il suo parasole:

E lei mi disse: “Che zelante!

Sì, oggi mi piace vedere il sole!”

 

“Mai così alti ho visto

Questi nobili querceti:

Qui deve stare il Cristo,

Perché ci sono le cattedrali”.

 

“Ora so dove deve venire

La mia bimba alla comunione;

Di bianco la dovrò vestire

Con un grande cappellone”.

 

Poi, dal caldo al peso,

Entravamo dal camino,

E ci davamo un bacio

Quando suonava un trillo.

 

Tornerò, come chi non esiste,

Al lago muto e gelato:

Fisserò lo scafo triste:

Poserò il remo discreto. 

 


 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V

 

Se vedi un monte di schiume

È il mio verso quello che vedi:

Il mio verso è un monte, ed è

Un ventaglio di piume.

 

Il mio verso è un coltello

Che dal pugno lancia fiori:

Il mio verso è una fontana

Che dà un’acqua di corallo.

 

Il mio verso è verde chiaro

E d’un porpora infiammato:

Il mio verso è un cervo ferito

Che cerca nel monte riparo.

 

Il mio verso al prode aggrada:

Il mio verso, breve e sincero,

Ha il vigore dell’acciaio

Con cui si fonde la spada.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VI

 

Se volete che di questo mondo

Mi porti un ricordo gradito,

Porterò, padre, in profondo,

I tuoi capelli d’argento.

 

Se volete, per gran favore,

Che porti altro, prenderò

La copia che fece il pittore

Della sorella che ho amato.

 

Se volete che all’altra vita

Mi porti un vero tesoro,

Porterò la treccia nascosta

Che tengo nella mia cassa d’oro!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII

 

Per Aragona, in Spagna,

Conservo nel mio cuore

Un luogo tutto Aragona,

Franco, fiero, leale e fedele.

 

Se vuole uno sciocco sapere

Perché lo conservo, gli dico

Che lì ebbi un buon amico,

Che lì amai una donna.

 

Là, nella terra florida,

Quella dell’eroica difesa,

Per mantener quel che pensa

La gente mette a rischio la vita.

 

E se un sindaco opprime

O molesta un re becero,

Veste il mantello l’aragonese

E muore con il suo fucile.

 

Amo la terra gialla

Che bagna l’Ebro fangoso:

Amo il Pilar nerastro

Di Lanuza e di Padilla.

 

Stimo chi con un colpo di mano

Getta per terra un tiranno:

Lo stimo, se è un cubano;

Lo stimo, se aragonese.

 

Amo i cortili ombrosi

Con le scalinate ricamate;

Amo le navi ormeggiate

E i conventi vuoti.

 

Amo la terra florida,

Musulmana o spagnola,

Dove aprì la sua corolla

Il breve fiore della mia vita.

 

 

 

VIII

 

Ho un amico morto

Che suole venirmi a vedere:

Il mio amico siede e canta;

Canta con voce dolente.

 

“Sopra un uccello alato

Vogo per il cielo azzurro:

Un’ala dell’uccello è nera,

Un’altra d’oro Caribù.

 

È un pazzo quel cuore

Che non conosce un colore:

O è di due colori il suo amore.

O dice che non è amore.

 

C’è una pazza più fiera

Del cuore infelice:

Colei che gli succhiò il sangue

E poi si mise a ridere.

 

Cuore che porta spezzata

L’ancora fedele di casa,

Va come barca perduta

Che non sa dove va”.

 

E quando giunge l’angoscia

Comincia il morto a maledire:

Carezzo il cranio: lo corico:

Corico il morto a dormire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IX

 

Voglio, all’ombra d’un’ala,

Narrare un racconto in fiore:

La bimba del Guatemala,

colei che morì d’amore.

 

Erano di gigli i rami,

gli ornamenti di reseda

E gelsomino: la seppellimmo

in una cassa di seta.

 

… Ella dette allo smemorato

una tela profumata:

Lui tornò, tornò sposato:

Lei morì d’amore.

 

La portavano nella bara

Vescovi e ambasciatori:

Veniva il popolo a frotte,

Tutto carico di fiori.         

 

… Ella, per tornarlo a vedere,

Uscì fuori al belvedere:

Lui tornò con la sua donna:

Lei morì d’amore.

 

Come di bronzo scottante

al bacio di commiato

era la sua fronte, la fronte

che in vita ho più amato!

 

… S’immerse di sera nel fiume,

La estrasse morta il dottore:

Dicon che morì di freddo:

Io so che morì d’amore.

 

Là, nel marmo gelido,

La misero sopra due panche:

Baciai la sua mano aguzza,

Baciai le sue scarpe bianche.

 

Mesto, all’imbrunire,

Mi chiamò il sotterratore:

Mai più son tornato a vedere

Colei che morì d’amore!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X

 

L’anima trepida e sola

Soffre all’imbrunire:

Si balla; andiamo a vedere

La ballerina spagnola.

 

Bene hanno fatto a togliere

Il bandierone dal marciapiede;

Perché se c’è la bandiera,

Non so, io non posso entrare.

 

Adesso arriva la ballerina:

Superba e pallida arriva:

Perché dite che è galiziana?

Per me dite male: è divina.

 

Porta un cappello da torero

E color rubino ha il mantello:

Pare proprio un ramoscello

Che indossa un cappello!

 

Si vedono, di sfuggita, le ciglia,

le ciglia da mora traditrice:

E lo sguardo, da mora:

E come neve l’orecchio.

 

Cominciano, abbassano la luce,

Ed esce in veste e scialle,

La Vergine dell’Assunzione

Danzando una danza andalusa.

 

Alza, sfidando, la fronte;

Si pone in spalla lo scialle:

Ad arco il braccio solleva:

Muove piano il piede ardente.

 

Fa risuonare con i tacchi

Il palco adulatore

Come se la tavola fosse

Un palco di cuori.

 

E va il convito crescendo

Nelle fiamme degli occhi,

E lo scialle dai bordi rossi

Se ne va nell’aria oscillando.

 

Subito, d’un tratto comincia:

Si scopre, scompare, gira

Apre in due il cachemir,

Offre la veste bianca.

 

Il corpo si libera e ondeggia;

La bocca aperta provoca;

È una rosa la bocca:

Lentamente rintocca.

 

Raccoglie in un lieve giro,

Lo scialle dai bordi rossi:

Se ne va chiudendo gli occhi,

Se ne va, come un sospiro…

 

Balla molto bene la spagnola;

È bianco e rosso lo scialle:

torna, fosco, al suo angolo

l’anima trepida e sola!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XI

 

Ho un paggio molto fedele

Che mi rimprovera e accudisce,

Quando esco, mi lucida e pulisce

La mia corona d’alloro.

 

Ho un paggio esemplare

Che non mangia, che non dorme,

E che si accoccola a vedermi

Lavorare, e singhiozzare.

 

Esco, e il vile, si dilegua

E nella mia tasca compare;

Torno, e lui caparbio mi offre

Una tazza di cenere.

 

Se dormo, quando splende il giorno

Siede accanto al mio letto:

Se scrivo, sangue sparge

Il mio paggio sulla scrivania.

 

Il mio paggio, uomo di rispetto,

Quando cammina stride:

Congela il mio paggio, e scintilla:

Il mio paggio è uno scheletro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XII

 

Nella barca stavo remando

Per il lago seduttore

Con il sole che era oro puro

E nell’anima più d’un sole.

 

E ai miei piedi vidi a un tratto,

Offeso dal fetore

Un pesce morto, un pesce fetido

Nella barca remando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIII

 

Dove abbonda la malva

E si apre la strada un cammino,

Andava un angelo a spasso

Con la testa calva.

 

Dal castagneto nella zona

La coppia si perdeva:

La testa calva risplendeva

Proprio come una corona.

 

Risuonava l’ascia nel bosco

E incontrò un uccello volando:

Però non si sa quando

Si dettero il primo bacio.

 

Era rosso l’angelo; era

Con la sua testa calva radiosa

Come il tronco cui l’amorosa

Tiene stretto il rampicante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIV

 

Non potrò mai dimenticare

Quella mattina d’autunno

In cui nacque un germoglio

al povero ramo tronco.

 

La mattina in cui, invano,

Accanto alla stufa spenta,

Un bimba innamorata

Tese al vecchio la sua mano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XV

 

Venne il medico giallo

A darmi la sua medicina,

Con un mano citrina

E l’altra mano al borsello.

Tengo riposto in un canto

Un medico sempre presente

Con una mano assai bianca

E un’altra mano sul cuore!

 

Viene, in giacca e berretto,

L’inserviente del pasticcere,

A chiedermi se preferisco

Malaga o Pajarete:

Dite alla pasticcera

Che da tanto tempo non ho visto,

Che mi tenga un bacio pronto

Per quando viene primavera!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVI

 

Nel davanzale riparato

della finestra moresca,

pallido come la luna,

medita un innamorato.

 

Pallida, nel suo canapè

Di seta vergine e rossa

Eva, tacita, sfoglia

Una violetta nel tè.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVII

 

È bionda: il capello sciolto

Dà più luce all’occhio scuro:

Vado, da allora, avvolto

In un mulinello d’oro.

 

L’ape estiva che ronza

Più agile per il fiore nuovo

Non dice come prima “atterra”:

“Eva” dice: tutto è “Eva”.

 

Giù, dov’è scuro, lo spaventoso

Scorrere della cascata:

E brilla l’iris, teso

Sopra le foglie d’argento!

 

Guardo, accigliato, l’agreste

Sfarzo del monte irritato

E nell’anima azzurra e celeste

Sboccia un giacinto rosato!

 

Vado, nel bosco, a passeggio

Alla laguna vicina:

E tra i rami la vedo,

Lei lungo l’acqua cammina.

 

Il serpente del giardino

Fischia, sputa, e striscia

Nel suo buco: il clarino

Mi tende, cinguettando, l’ala.

 

Arpa sono, salterio sono

Dove vibra l’Universo:

Vengo dal sole, al sole vado.

Sono l’amore: sono il verso!

 

 

 

 

 

 

 

 

XVIII

 

Lo spillo d’Eva pazza

È fatto dell’oro oscuro

Che le estrasse un uomo puro

Dal cuore d’una roccia.

 

Un uccello allettante

Le portò ieri nel becco

Uno spillo luccicante

Di strass e princisbecco.

 

Eva si pose all’oscura

Cintura il diamante mentitore:

E gettò nel portaspilli

Lo spillo d’oro puro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIX

 

Dai tuoi occhi raggianti

E da una fibbia mal posta

Pensai che la notte scorsa

Passasti in giochi proibiti.

 

Ti odiai come vile traditrice:

Ti odiai con odio mortale:

Nausea mi dava vederti

Così perfida e bella

 

E dall’annuncio che vidi

Senza saper come né quando.

So che passasti piangendo

Tutta la notte per me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XX

 

Il mio amore si agita al vento;

Eva è bionda, Eva è falsa:

Viene una nube, porta e innalza

Il mio amor sofferente in pianto.

 

Porta via il mio amor piangente

Quella nube errante:

Eva è stata traditrice:

Eva sarà consolatrice!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXI

 

Ieri la vidi nel salone

Dei pittori, e ieri

Dietro quella donna

Mi sobbalzò il cuore.

 

Seduta nel suolo crudo

Sta nel dipinto: assopito

Ai piedi, lo sposo sfinito:

Al seno il bimbo nudo.

 

Sopra alcuni fili di paglia

Si vedon pezzetti di pane:

Le pende il mantello ai lati

come se fosse un sudario

 

Non nasce nel torvo suolo

Non una viola, una spiga:

Molto lontano, la casa amica,

Ben triste e oscuro il cielo!...

 

Ecco la bella donna

che mi rubò il cuore

Nel magnifico salone

dei pittori di ieri!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXII

 

Sono nel ballo estraneo

A ghette e merletti

Che danno, a fine anno,

i cacciatori dell’anno.

 

Una duchessa violetta

Va con un frac colorato:

Ritma un visconte truccato

Il tempo con il tamburello.

 

E passano le rosse maglie,

Passano le tulle di fuoco,

Come davanti a un cieco

Passano volando le foglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIII

Voglio andarmene dal mondo

Per la porta naturale:

Sopra un carro di foglie verdi

A morir mi han da portare.

 

Non mettetemi in luogo oscuro

A morir come un traditore:

Io son buono e come un buono

Morirò con la faccia al sole!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIV

 

So d’un pittore ardito

che dipinge contento

sopra la tela del vento

e la spuma dell’oblio.

 

So d’un pittore gigante.

Lui con divini colori,

Costretto a dipingere fiori

A una corvetta mercante.

 

So d’un povero pittore,

Dipingendo, l’acqua sta a guardare, -

L’acqua rauca del mare, -

Con sviscerato amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXV

 

Penso, quando mi rallegro

Come un semplice scolaro,

Al canarino giallo,

Che ha l’occhio così nero!

 

Voglio, quando morirò,

Senza patria, ma senza padrone,

Avere sulla mia lapide un mazzo

Di fiori e una bandiera!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVI

 

Io che vivo, anche se son morto,

Sono un grande scopritore

Perché l’altra notte ho scoperto

La medicina d’amore.

 

Quando per il peso della croce

L’uomo sceglie di morire,

Fa il bene, poi torna dal suo partire

Come in un bagno di luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVII

 

Il nemico brutale

Incendia la nostra casa:

La spada spazza la strada,

Sotto la luna tropicale.

 

Pochi uscirono illesi

Dalla spada dello spagnolo:

La strada, al levare del sole,

Era un rivolo di sangue.

 

Passa, tra gli spari, una vettura:

Entrano, piangendo, una morta:

Bussa una mano alla porta

Nella notte fonda e oscura.

 

Non c’è sparo che non fori

Il portone: e la donna

Che bussa, me l’ha fatto capire:

Viene a prendermi mia madre.

 

All’ingresso della morte

Gli intrepidi avaneri

Si tolsero i sombreri

Per la matrona forte.

 

E dopo che ci baciammo

Come due folli, mi disse:

“Andiamo presto, andiamo, figlio:

La bimba è sola: andiamo!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVIII

 

Per la tomba della fattoria

Dov’è il padre interrato

Passa il figlio, da soldato,

Dell’invasore: passa via.

 

Il padre, un eroe di guerra,

Avvolto nel suo bandierone

Si alza: e con un ceffone

Lo stende, morto, per terra.

 

Il lampo brilla: fischia

Il vento per la fattoria:

Il padre solleva il figlio

E alla tomba se lo porta via.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIX

 

L’immagine del re, per legge,

Porta il ruolo dello Stato:

Il bimbo fu fucilato

Dai fucili del re.

 

Festeggiare il santo è legge

Del re: e nella festa santa

La sorella del bimbo canta

Davanti all’immagine del re!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXX

 

Il lampo attraversa, impetuoso,

L’oscuro cielo tempestoso

Scaccia la barca, a profusione,

I neri dal portone.

 

Il vento, fiero, distruggeva

Le coltivazioni rigogliose

Andava la fila andava

Degli schiavi nudi.

 

Il temporale scuoteva

Le baracche inondate:

Una madre lesta passava

Col suo piccolo e gridava.

 

Rosso, come nel deserto,

Uscì il sole, all’orizzonte:

E illuminò uno schiavo morto,

Appeso a un albero del monte.

 

Un bimbo lo vide: tremò

Di passione per chi soffre:

E, ai piedi del morto, giurò

Di lavare con la sua vita il crimine!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXI

 

Come modello di un dio

Il pittore lo mandò a chiedere: -

Per quello no! Per andare,

Patria, a servirti noi due!

 

Bene starà nella pittura

il figlio che amo e benedico: -

Meglio con la smorfia dura,

Faccia a faccia col nemico.

 

È biondo, forte e guaglione

Di nobiltà naturale:

Figlio, per la luce natale!

Figlio, per il bandierone!

 

Andiamo, dunque, figlio virile:

Andiamo noi due; se devo morire,

Mi bacerai; se tu… è da preferire

Vederti morto che vederti vile!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXII

 

Nel nero vicolo

Dove nelle tenebre passeggio,

Alzo gli occhi, e vedo

La chiesa, in un angolo eretta.

 

Sarà mistero? Sarà

Rivelazione e potere?

Sarà, ginocchio, il dovere

Di prostrarsi? Che sarà?

 

Freme la notte: nella vite

Morde il verme il germoglio;

Gracida chiamando l’autunno

La vuota e cupa cicala.

 

Gracidano due: attento al duo

Alzo gli occhi e vedo

Che la chiesa del corso

Ha la forma d’un gufo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIII

 

Dalla mia sventura atroce

Sento, oh stelle, che muoio:

Io voglio vivere, io voglio

Vedere una donna incantevole.

 

La chioma, come un elmo,

Le corona il volto bello:

Scintilla il nero capello

Come spada di Damasco.

 

Quella?... Mette tutto il veleno  

Del mondo in un fascio,

Scolpito nel corpo, è un fascio

Un’anima intera di veleno!

 

Questa?... Questa infelice

Calza scarpine rosate,

Ha labbra colorate,

E volto di smalto.

 

L’anima lugubre grida:

“Donna, maledetta donna!”

Non so chi possa essere

Tra le due la maledetta!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIV

 

Pene! Chi osa dire

Che soffro pene? Poi,

Dopo il lampo, e il fuco,

Avrò tempo di soffrire.

 

Conosco un dolore profondo

Tra pene senza nome:

La schiavitù degli uomini

È la gran pena del mondo!

 

Ci sono monti, bisogna salire

I monti più alti; dopo

Vedremo, anima, il volto

Che mi ha disposto a morire!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXV

 

Che importa se il tuo pugnale

Penetrerà le mie interiora?

Ho i miei versi, che sono

Più forti del tuo pugnale!

 

Che importa se questo dolore

Seccherà il mare, oscurerà il cielo?

Il verso, dolce consolazione,

Nasce alato di dolore.

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXVI

 

Ormai lo so: di carne si può

Fare un fiore; si può,

Con il potere dell’amore

Fare un cielo, e un bimbo!

 

Di carne si fa pure

Lo scorpione, e pure

Il verme della rosa,

E la civetta spaventosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXVII

Ecco il mio petto, donna.

Già so che lo ferirai;

Più grande dovrebbe essere,

Perché lo ferissi ancora!

 

Perché noto, anima contorta,

Che nel mio petto miracoloso,

Mentre più profonda è la ferita

Più raffinato è il mio canto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXVIII

 

Del tiranno? Del tiranno

Di tutto, di più!; e colpisce

Con furia di mano schiava

Sopra la sua infamia il tiranno.

 

Dell’errore? Però dell’errore

Dell’antro, dei sentieri

Oscuri, di quanto possa

Del tiranno e dell’errore.

 

Della donna? Però può essere

Che muoia del suo morso;

Ma non macchiare la tua vita

Dicendo male della donna!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIX

 

Coltivo una rosa bianca,

A luglio come a gennaio,

Per l’amico sincero

Che mi dà la sua mano franca.

 

E per il crudele che mi sfianca

Il cuore con cui vivo,

Né cardo né rucola coltivo:

Coltivo la rosa bianca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XL

 

Dipinge il mio amico pittore

I suoi grandi angeli dorati,

Tra le nubi inginocchiati,

Con dei soli intorno

 

Dipingimi con i tuoi pennelli

I piccoli angeli timorosi

Che mi portarono, pietosi

I loro due mazzi di garofani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLI

 

Quando mi colse l’onore

Della terra generosa,

Non pensai a Bianca né a Rosa

Né a quel grande favore.

 

Pensai al povero artigliere

Che sta nella tomba, muto:

Pensai a mio padre, il soldato:

Pensai a mio padre, il ferroviere.

 

Quando arrivò la pomposa

Missiva, con la sua nobil coperta,

Pensai alla tomba deserta,

Non pensai a Bianca né a Rosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLII

 

Nello strano bazar

Dell’amor, vicino al mar,

La perla triste e senza par

Toccò in sorte ad Agar.

 

Agar, dal tanto tenerla

Al petto, dal tanto vederla

Agar, giunse a detestarla:

Ruppe, lanciò al mar la perla.

 

E quando Agar, velenosa

Di vana furia, e lacrimosa,

Chiese al mar la perla deliziosa

Disse la marea tempestosa:

 

“Che facesti, sciocco, che facesti

Della perla che in dote avesti?

La rompesti, me la desti:

Io custodisco la perla triste”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIII

 

Molto, signora, darei

Per stendere sulla tua schiena

la tua capigliatura ribelle,

la tua capigliatura di stelle:

     Adagio la stenderei,

     Muto la bacerei.

 

Da sopra l’orecchio fino

Scende sfarzoso il capello,

Proprio come un drappo

Che si alza verso il collo.

     L’orecchio è opera divina

     Di porcellana di Cina.

 

Molto, signora, ti darei

Per sciogliere il nodo

Della tua rossa capigliatura

Sopra il tuo collo nudo:

     Molto adagio la spargerei,

     Filo per filo la disfarei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIV

 

Ha il leopardo un riparo

Nel monte arido e scuro

Io ho più che il leopardo,

Perché ho un buon amico.

 

Dorme, come in un gioco,

la donzella nel suo cuscinetto

D’acero del Giappone: io dico:

“Non c’è cuscino come un amico”.

 

Ha il conte il suo casato:

Ha l’aurora il suo mendico:

Ha l’uccello la sua ala; io ti dico

che là, in Messico, ho un amico!

 

Ha il signor presidente

Un giardino con una fonte,

E un tesoro in oro e grano:

Io ho di più, io ho un amico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLV

 

Sogno chiostri di marmo

Dove in silenzio divino

Gli eroi, in piedi, riposano:

Di notte, alla luce dell’anima,

Parlo con loro: di notte!

Stanno in fila: passeggio

Tra le fila: aprono

Gli occhi di pietra: muovono

Le labbra di pietra: fremono

Le barbe di pietra: impugnano

La spada di pietra: piangono:

Vibra la spada nella guaina!

Muto, bacio loro la mano.

 

Parlo, con loro, di notte

Stanno in fila: passeggio

Tra le fila: in lacrime

Abbraccio una statua: “Oh statua,

Dicono che i tuoi figli bevono

Il loro stesso sangue nelle coppe

Velenose dei loro padroni!

Che parlano la lingua corrotta

Dei loro prosseneti! Che mangiano

Insieme il pane dell’infamia

Nella tavola insanguinata!

Che sprecano in una lingua inutile

L’ultimo fuoco! Dicono,

Oh statua, statua dormiente,

Che ormai la tua razza è morta!”

 

Mi getta in terra da una barca

L’eroe che abbraccio: mi alza

Dal collo, spazza la terra

Con la mia testa: solleva

Il braccio, il braccio scintilla

Proprio come un sole! Risuona

La pietra: cercano la cintura

Le mani bianche: dal socio

Balzano gli uomini di marmo!

 

 

 

XLVI

 

Riversa, cuore, la tua pena

Dove non si giunga a vedere,

Per superbia, e per non essere

Motivo di pena estranea.

 

Ti voglio bene, verso amico,

Perché quando sento il petto

Già molto oppresso e affranto,

Divido il fardello con te.

 

Tu sopporti, tu accogli

Nel tuo grembo amoroso,

Tutto il mio amor doloroso,

Tutte le mie ansie e angosce.

 

Tu, perché io possa con calma

Amare e far bene, consenti

Di sconvolgere le tue correnti

Con quanto mi turba l’anima.

 

Tu, perché io percorra fiero

La terra, senza odio, puro,

Ti trascini, pallido e duro

Mio amoroso compagno.

 

La mia vita così s’incammina

Verso il cielo limpida e serena,

E tu sopporti la mia pena

Con la tua pazienza divina.

 

Perché la mia crudele abitudine

Di rifugiarmi in te ti devia

Dalla tua lieta armonia

E naturale mansuetudine;

 

Le mie pene si rovesciano

Sul tuo seno, lo sferzano,

La tua corrente eccitano,

Qua livido, là rosso,

 

Bianco là come la morte,

Ora inveisci e ruggisci,

Ora sotto il peso gemi

Per un dolore di te più forte

 

Dovrò, come mi consiglia

Un cuore perfido e rio,

Abbandonare nell’oblio

Chi non m’abbandona?

 

Verso, ci parlan d’un Dio

Dove vanno i defunti:

Verso, ci condanneranno insieme,

O ci salveremo entrambi!

 

 

(Tradotto dicembre 2017 - gennaio 2018)