mercoledì 29 agosto 2012

Virgilio Piñera e il terrore atomico

Nel 1946, Virgilio Piñera (1912 - 1979) scrive una lunga poesia, con il suo consueto stile che ricorda il teatro dell'assurdo, per rendere omaggio alle vittime della bomba atomica. Per la prima volta la proponiamo tradotta in italiano.


Canto funebre per la morte del Principe Fuminaro Konoye




Tan, tan, tin, ton, tun, tran, tren, trin, tron, trun.

Perché la rappresentazione cominci è necessario

che il Principe Fuminaro Konoye

si trasformi in:

un fiammifero,

un cavallo,

un sipario,

una sciabola,

un veleno,

un antenato.



Principe: è d’accordo? Ne conviene?

Il principe porta la sua mano sinistra al suo tallone destro,

mette la sua mano destra nella sua ultima vertebra cervicale,

gli occhi nelle piante dei suoi piedi,

dirige la sua lingua sulla cima dei suoi capelli radi,

affonda il pollice nel suo avambraccio marmoreo,

pone il collo nel suo ombelico,

e dice sì con un sibilo.



Fuii, fuii, fuii…

Si avvicina, avvolto, un nano nordamericano.

Principe: ha qualcosa da dichiarare?

Il principe, tracciando righe come una zebra, risponde:

Voi non potrete comprare la mia morte.

Subito dopo il principe torna alla sua precedente posizione,

e i giudici assumono la strana figura del principe.

La rappresentazione si interrompe per brevi istanti,

quei brevi istanti che loro richiedono per uscire

dalla magnifica unione che è il Principe Fuminaro Konoye.



La prima scena è quella del fiammifero.

Sarà un bel modo di dilettare il sangue d’un principe,

un fiammifero terribile per illuminare il suo volto

e per conversare nell’ora dello zolfo.

Il principe dice:

Ringrazio per questa preferenza in questa ora estrema.

Il fiammifero dice:

Sfreghiamoci, principe, perché venga la luce

Sfreghiamoci, principe, perché arrivino le tenebre,

lascia che mi rimarchi nelle sue reni con fiamma azzurrata,

mentre mangio riso verde innaffiato con orina,

lasciami, principe, futuro di tenebre, futuro di animale indifferente,

cancelleria addormentata, lasciami raschiare i suoi polmoni,

io posso introdurre una farfalla nel suo sangue,

posso estrarre un fosfoaminolipido dalla sua vescica,

lasciami, principe Fuminaro Konoye,

Fuminaro con un fiore nella mano,

con un impero nella bocca,

con un fuminaro nelle labbra,

con un konoye nella strada,

lasciami, gentilmente la supplico,

rimarcarmi nel suo sorriso asiatico.



Il principe risponde:

Io sono la cassa, io sono il piano,

io sono lo spazio quadrato,

io sono la quarta dimensione,

toccami, odorami, gustami:

sono tutto quel che può essere una cassa.



Imperiosamente gli dico: guardami, sono una cassa.

Nessuno potrà giudicarmi.

I miei giudici concluderanno:

Impossibile che il principe Fuminaro Konoye, Criminale di Guerra,

possa essere

giudicato sotto forma di una cassa.



Grandi risa, stentoree risa, risa a crepapelle, risa apocalittiche,

risa fosforiche, risa bollenti dicono:

Però il principe Fuminaro Konoye non si è presentato sotto

forma di una cassa,

il principe stesso è una cassa.



Cassa Fuminaro Konoye,

inchinati per essere rimarcato,

visibilmente di gigantesca statura, con grandi fiori nella

criniera del cavallo

e fiori minuti nell’elmo,

con quarta dimensione,

con grandi getti di zolfo per canali di alabastro,

e con tanta magnifica aridità che il Principe - Cassa

asciuga il pianto del suo popolo nell’ora suprema.

Lasciami rimarcarti, rimarca, rimarcatamente come il tuo leopardo dipinto,

lasciati rimarcare Cassa, lasciati Konoye nella strada

sotto una pioggia battente,

già in riga, con schioccanti bacche,

seguito da diecimila educatori,

della democrazia messo nelle sue maglie,

lasciami rimarcarti cassa del tuo sepolcro,

Oh, Fuminaro Konoye, con un fuminaro nella mano!

Ardono intanto in mille pavesi tutte le cartoline a colori del sacro Fujiyama,

Addio, Cassa infiammata,

che ti sia lieve la tua eterna passeggiata a cavallo.



Adesso si va a rappresentare tra il sipario alzato e la parte sporgente

del palcoscenico.

Un poco più tardi si rappresenterà sullo stesso sipario, e alla

fine sarà abbassato il sipario.



Dice il principe:

Vi do tutta la ragione,

vi concedo di affermare che sono principe,

e principe del Mikado,

che sono Fuminaro, che sono Konoye per i quattro lati,

che sono Criminale e Criminale di Guerra,

che attentai contro la Democrazia e contro lo stato di Ojajo,

che non ebbi il privilegio di soffrire la poliomelite,

che non pensai alla bomba atomica, che mai vidi lo stato del Kansas,

vi concedo, giudici, che sono tutto questo,

però vi devo dire:

Io sono un sipario.



Mormorii, tosse energica, sussurri e il vulcano Sorullo,

teste con abbondanti capelli si scontrano contro teste calve,

i giudici concludono:

Il principe Fuminaro Konoye non può essere giudicato sotto

forma di un sipario.



Grandi risa, stentoree risa, risa a crepapelle, risa apocalittiche,

risa fosforiche, risa bollenti dicono:

Però il principe Fuminaro Konoye Criminale di Guerra

non si presenta sotto forma di un sipario,

il principe stesso è un sipario,

un sipario che cade per essere alzato.



È proprio adesso,

adesso e non prima, non prima

quando il principe leggeva Wilde a Oxford,

in quei tempi in cui il principe si metteva le dita nel naso,

tempi in cui Konoye per strada non pensava neanche per sbaglio

di visitare lo stato del Kansas,

né il tema della bomba atomica meditava,

è adesso che il principe Sipario indica i suoi fagiani dipinti

in infiniti campi di riso che mai saranno fotografati.

È curioso, ma non impossibile, che lo stesso sia la scena che

termina la sua vita e la scena che la fa cominciare.

Questa cosa è un risultato prevedibile dell’infinita astuzia

di un popolo che non ha perso le sue mani.

È lì il magnifico risultato:

aprire e chiudere la scena con la scena

che articola e disarticola la sua vita,

che cade come un fagiano fiammeggiante

in mezzo all’incontrollabile movimento delle sue labbra.



Principe Sipario lasciati alzare,

Sipario - oceano disegnato in un chicco di riso,

lasciati sollevare senza religiosità,

come un cane giapponese che non conosce la dignità occidentale

né i sette peccati capitali.

Lasciati, nell’ora estrema, soffiare nei polmoni,

soffiare nella bocca, soffiare nell’ano.

Gonfiati, stordisciti, fai una sbuffata,

pompa di sapone, cadavere gonfiato,

botte di vino fermentato,

lasciati alzare più oltre del tetto del teatro.

Principe Sipario, esplodi,

lascia cadere le tue malinconie private sopra Nagasaki assurda e atomizzata.



Le sciabole, le sciabole!

Dove sono finiti gli utensilisti?

Che portino le sciabole per l’atto della sciabola,

che le portino al principe,

al Fuminaro Konoye e Sciabola.

No, non può avere riposo,

impossibile riposare nella scena giapponese

- quattrocento ore di rappresentazione simultanea -.

È questa la commedia della Sciabola,

rappresentata dal principe,

adesso trasformato in sciabola curva,

la sua testa è oro e rubini,

oro e rubini incastonati in ironici opali.



I giudici concludono:

Invieremo la sciabola come trofeo di guerra al Presidente nordamericano,

sia ben chiaro che diciamo la sciabola e non il principe Fuminaro

Konoye e Sciabola.

Il direttore di scena informa che la Sciabola è il principe, però

che il principe non è la sciabola.

Mormorii, mormorii, sussurri, tosse energica e il vulcano Sorullo,

teste con abbondanti capelli si scontrano contro teste calve.

Il principe Fuminaro Konoye Criminale di Guerra non può essere inviato

sotto forma di sciabola al Presidente nordamericano.



Grandi risa, stentoree risa, risa a crepapelle, risa apocalittiche,

risa bollenti dicono:

Il principe Fuminaro Konoye Criminale di Guerra

Non si presenta sotto forma di una sciabola,

il principe stesso è una sciabola.

Principe, voleva tagliare e si è tagliato.



Allora il principe Fuminaro Konoye e Sciabola

si muove furiosamente, si piega, si mette nel naso

la testa d’oro e rubini incastonati in ironici opali:

tenie, lombrichi, pseudopodi, flagelli, tunicati,

sciabole, sanguisughe, sciabolate dal suo naso escono,

escono taumaturghi, cagliostri, nostradamus,

rotaie di punta sopra Hiroshima cadono.

Lasciati tagliare, Konoye, lasciati accorciare, Fuminaro,

lasciati tagliare per non essere inviato,

lasciati tagliare le tue vene - sciabola,

i tuoi capelli - sciabola, la tua orina - sciabola,

Konoye nella strada nudo sotto la sciabola,

Konoye nel letto con i suoi lenzuoli disordinati,

Konoye passeggiando con la sua sciabola per le strade

di Nagasaki assurda e atomizzata.

Whisky and soda offrono gli uscieri ai giudici,

i portieri del teatro imperiale giapponese offrono il Niente.

Sta per cominciare l’ultimo Atto.



Il Generalissimo in Capo delle Forze di Mare, Terra e Aria

dell’occupato Impero del Sole Nascente, ordina:

Noi, in rappresentanza del Presidente nordamericano,

del presidente che spera di essere dalla poliomelite visitato

al fine di fondare un Ospedale Pro Poliomelitici più grande di quello fondato

dall’altro Presidente dalla Poliomelite visitato,

decretiamo:

Che il principe Fuminaro Konoye,

(del quale è stato detto insistentemente nei giorni attuali

che si è trasformato in una cassa, in un cavallo, in un sipario

e in una sciabola;

non solo, che non si è trasformato ma che lui stesso,

è di fatto una cassa, un cavallo, un sipario e

una spada, e pretende insolentemente mediante un tormento più

orribile che

quello del legno e della goccia d’acqua influenzare l’animo dei nostri

giudici

ripetendoli ad infinitum che il principe Fuminaro Konoye è una cassa, un

cavallo, un sipario e una sciabola) sia impiccato come Criminale di Guerra e

per aver osato passeggiare per le strade dell’assurda e atomizzata Nagasaki.



Ipso facto il teatro cade giù,

ma cade giù come i teatri giapponesi

che non cadono giù ma vanno verso l’alto;

molto diversamente dai teatri occidentali,

i giapponesi, fatti d’ebano e lacca,

non sollevano nubi di polvere,

non seppelliscono nessuno tra le loro macerie,

solo cadono dal basso verso l’alto

e riconosciamo che già questo è sufficiente.

Ipso facto i giudici concludono:

Però non è sufficiente per vincere una guerra…

Loro vincono la guerra e i giapponesi distruggono il loro teatro

lo distruggono alzandolo verso le nubi,

un’interpretazione molto asiatica della bomba atomica

osservata dall’occhio supremo dell’arte.



Proprio in questo momento della caduta verso l’alto,

il principe Fuminaro Konoye

si trova ermeticamente rinchiuso nella sua camera

leggendo attentamente il De Profundis di Oscar Wilde.

Non dobbiamo confonderci se il principe in questa ora suprema

sottolinea con lapis rosso certi passaggi,

non dobbiamo meravigliarci se Fuminaro nella strada,

se Konoye nella camera,

se il principe tra l’Essere e il Niente,

ricerca qualcosa di spettacolare dell’Occidente

con alcune sottolineature del De Profundis,

non dobbiamo meravigliarci se il principe esclama:

I have nothing to declare, except my death,

la mia morte nelle strade di Nagasaki assurda e atomizzata.

Sono tra l’Essere e il Niente,

sono tra il veleno e i miei antenati.

Non ho niente da dichiarare, eccetto la mia Morte.

Non ho niente da dichiarare nella strada,

con Konoye volatilizzato e Fuminaro atomizzato,

in questa camera che cade verso l’alto,

io, Fuminaro Konoye,

vago semplicemente senza disperazione nel Niente.



(1946)

da El oro de los dias - L'oro dei giorni (1946)
Traduzione di Gordiano Lupi


BIBLIOGRAFIA


Las furias. Poemas. Viñeta y dibujo René Portocarrero. La Habana, Úcar García, 1941.

El conflicto. Un cuento. La Habana, 1942.

La pintura de Portocarrero. La Habana, Editorial Guerrero, 1942.

La isla en peso. Un poema. La Habana, Tipografía García, 1943.

Poesía y prosa. La Habana, Editorial Serafín García, 1944.

La carne de René. Novela. Buenos Aires, Editorial Siglo XX, 1952.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1985.// Pról. Antón Arrufat. La Habana, Ediciones Unión, 1995.

Cuentos fríos. Buenos Aires, Editorial Losada, 1956.

Aire frío: tres actos. Ed. Inaugural Extraordinaria. La Habana, Editorial Pagrán, 1959.

Teatro completo. La Habana, Ediciones R, 1960.

Pequeñas maniobras. Novela. La Habana, Ediciones R, 1963.

Cuentos. La Habana, Ediciones Unión, 1964.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1983 (Literataura Alfaguara, 120).// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1990.

Presiones y diamantes. Novela. La Habana, Ediciones Unión, 1967.

Dos viejos pánicos. Teatro. La Habana, Casa de las Américas, 1968 (Colección Premio).// Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1968.

La vida entera. Poesías. La Habana, Ediciones Unión, 1969.

El que vino a salvarme. Cuentos. Pról. José Bianco. Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1970.

Una caja de zapatos vacía. Teatro. Edición crítica y prólogo Luis F. González-Cruz. Miami, Florida, Ediciones Universal, 1986.

Un fogonazo. Cuento. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1987.

Muecas para escribientes. Cuento. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1987.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1990 (Alfaguara Hispánica, 72).// México, Editorial Diana, 1995.

Una broma colosal. Poesía. Introd. Antón Arrufat. La Habana, Ediciones Unión, 1988.

Teatro inconcluso. Selección, ordenamiento y prólogo Rine Leal. La Habana, Ediciones Unión, 1990.

Algunas verdades sospechosas. Cuentos. Selección Jorge Ángel Pérez Sánchez. Pról. Salvador Redonet. La Habana Editorial Abril, 1992.

El viaje. Un cuento. Pról. Mirta Yáñez. La Habana, Ediciones Unión, 1992.

Teatro inédito. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1993.

El no. Teatro. Pról. Ernesto Hernández Busto. Coyoacán, Editorial Vuelta, 1994.

Cuentos de la risa del horror. Selección Efraín Rodríguez Santana. Bogotá, Editorial Norma, 1994.

Poesía y crítica. Selección y prólogo Antón Arrufat. México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1994.

Edizioni Italiane

La carne di René - traduzione di Giancarlo De Pretis - Il Quadrante - Torino, 1988 - ISBN 8871800664 - reperibile in prestito alla Biblioteca di Scienze Letterarie e Filologiche di Torino

lunedì 27 agosto 2012

Che cosa fa un presidente?


di Yoani Sánchez - da El País


La domanda del titolo mi è stata ispirata dallo stesso Fidel Castro, quando lo scorso 28 marzo chiese a Benedetto XVI: “Che cosa fa un Papa?”. Andando oltre la domanda infantile, ho riflettuto su che cosa risponderebbe qualsiasi presidente se indagassimo sulla sua agenda, su come un capo di Stato racconterebbe il suo quotidiano. Di sicuro includerebbe nelle attività presidenziali la partecipazione ai consigli dei ministri, il ricevimento di altri capi di Stato, la supervisione delle funzioni di Stato, la presenza agli atti pubblici e alcuni discorsi da tenere in date stabilite. Farebbe la lunga lista delle sue responsabilità, dei suoi impegni, delle faticose giornate nel palazzo presidenziale e delle difficili discussioni davanti al congresso o in parlamento. Forse inserirebbe tra i suoi impegni persino inaugurazioni di fabbriche, di siti di interesse sociale e alcune conferenze stampa nei media nazionali.

Se siamo di fronte a uno statista con marcata tendenza populista, probabilmente dovrà dedicare un po’ di tempo a farsi scattare foto mentre prende in braccio bambini, istantanee in mezzo a una moltitudine di persone, filmati mentre distribuisce frigoriferi, pentole per fare il riso e scaldabagni. Metterà nell’elenco delle attività giornaliere i lunghi discorsi, gli interventi pittoreschi nei quali parla di genetica davanti a un pubblico di scienziati e di allevamento intensivo di vacche davanti a contadini temprati dal sole. Per certi egocentrici della politica, la sedia presidenziale è come uno scenario sul quale ogni giorno deve essere rappresentato un fastoso e inteso spettacolo. In maniera tale che dividono le loro giornate tra compiti realmente esecutivi e lavori di autopromozione, momenti dedicati a ostentazioni per mantenersi al potere. Ma che cosa accade quando il massimo dirigente di un paese non mostra di adempiere neppure a una piccola parte della sua agenda? Che fare quando noi cittadini non disponiamo del minimo meccanismo per sapere se il nostro presidente stia lavorando o meno?

Nel corso del 2012, Raúl Castro ha dato poca dimostrazione di laboriosità nel compiere il suo mandato. Se contiamo le ore che è comparso in pubblico, gli interventi che ha fatto e i viaggi che ha compiuto… dovremmo concludere che il suo indice di produttività è molto basso. Le ripetute assenze ad appuntamenti internazionali, vertici e riunioni regionali, sono state davvero molte. Ha fatto solo un breve tour internazionale, negli ultimi otto mesi di quest’anno, in paesi sicuramente alleati come Cina, Vietnam e Russia. Inoltre si è fatto vedere pochissimo in territorio cubano. Non è andato nella provincia di Sancti Spiritus alla fine del mese di maggio per verificare con i suoi occhi i danni prodotti dalle inondazioni. Non si è recato neppure nella zona di Granma dove - dopo un secolo senza registrare casi - si è scatenata un’epidemia di colera che ha causato diversi morti. Al tempo stesso non ha mai visitato gli ospedali dell’Avana e di Camagüey dove sono ricoverate centinaia di persone contagiate dal dengue. Si può dire che le sue comparse pubbliche si sono limitate a dare il benvenuto a un ristretto numero di presidenti stranieri, a un discorso durante la Prima Conferenza del PCC alla fine di gennaio, a un altro nell’Assemblea Nazionale del luglio scorso e ad alcune brevi parole nella celebrazione dell’assalto alla Caserma Moncada. A parte questo, non abbiamo nessuna prova che il Generale Presidente si stia assumendo le sue responsabilità o - al contrario - si trovi in vacanza permanente. Soprattutto perché niente conferma che, lontano dai riflettori, l’ex Ministro delle Forze Armate stia sviluppando una frenetica attività politica e organizzativa. La lentezza delle riforme rauliste smentisce questa possibilità.

Dobbiamo chiarire che non stiamo reclamando che l’attuale governante cubano mantenga la stessa onnipresenza del fratello nei media informativi nazionali o nei più infimi dettagli della vita di undici milioni di persone. Non vogliamo neppure che, con sistemi demagogici, cominci a farci credere che è al corrente di tutto mentre in realtà passa più tempo a oziare che a lavorare. Non è questo il nostro scopo. Diciamo solo che l’esercizio di un incarico esecutivo implica mobilità, efficienza, lunghe giornate lavorative e abnegazione. Se quest’uomo di 81 annui non riesce a completare la sua agenda presidenziale perché la sua capacità fisica o mentale non glielo permette, allora deve rinunciare. Un paese non si può amministrare da “Pasqua a San Giovanni”, dal divano del palazzo e ancor meno facendosi vedere solo in occasioni significative.

A febbraio 2013 Raúl Castro - secondo quanto lui stesso ha decretato - comincerà il suo secondo periodo di mandato, dopo aver ereditato il potere per motivi di sangue. Ha la possibilità di rinunciare a continuare il suo incarico, vista l’evidente incapacità di stare a capo delle alte responsabilità connaturate alla direzione di un paese. Potrebbe lasciare il posto vacante a qualche sostituto… che molto probabilmente designerà lui stesso. Ma nel caso in cui decida di continuare e resti aggrappato al potere dovremo sopportare altri cinque anni di sporadiche apparizioni e di limitate comparse pubbliche? Avremo ancora lungi silenzi e assenze nei momenti e nei luoghi di crisi? Dovremo ancora chiederci ironicamente: Che cosa fa un presidente? Che cosa fa QUESTO presidente?


Traduzione di Gordiano Lupi

domenica 26 agosto 2012

A Cuba non potrebbe esistere un Assange


di Yoani Sánchez
da http://www.huffingtonpost.com



Non voglio analizzare le implicazioni etiche e giornalistiche del lavoro Julian Assange. Confesso di provare simpatia per la sua ideologia, almeno quando proclama il bisogno di trasparenza nelle questioni diplomatiche e di governo. Il problema è che a Cuba non sono state pubblicate tutte le informazioni svelate da Wikileaks, ma solo quelle in cui il governo cubano fa una buona figura. Proviamo a tracciare alcune conclusioni. Come non ho bisogno della fantomatica fibra ottica, né di un’antenna parabolica illegale per conoscere le notizie quotidiane, anche questa volta possiedo tutti gli elementi per farmi un’opinione.

Un governo che ha fondato il suo potere su segretezza e silenzio non ha titolo per complimentarsi con un hacker che rappresenta l’esatto contrario. La pubblicazione di informazioni segrete viene lodata dalla nostra televisione, emanazione di un regime da sempre attento a non lasciare tracce dei propri errori. Il “Robin Hood delle informazioni” - come è stato definito - riceve complimenti dallo sceriffo che ha rinchiuso i cubani in castello feudale di censura. C’è qualcosa che non torna.

Il fascino improvviso dei mezzi di comunicazione cubani per il fondatore di Wikileaks segue la solita logica dello squallido slogan antimperialista: “il nemico del mio nemico è mio amico”. L’assurdo raggiunge il massimo quando il programma televisivo Mesa Redonda (Tavola Rotonda), noto per anti-giornalismo e compiacenza con il potere, presenta questo giovane di 41 anni come un eroe del web. È la cosa più contraddittoria che ho visto ultimamente, anche se vivo in una terra piena di grandi paradossi.



Se a Cuba un funzionario della Sicurezza di Stato rendesse pubblico il costo che il paese sostiene per attaccare gli avversari e per organizzare manifestazioni contro le Damas de Blanco, che cosa accadrebbe? Se domani un medico, motivato da onestà personale e professionale, pubblicasse il numero reale delle persone contagiate dal dengue a Cuba, che cosa potrebbe accadere? Immaginiamo un soldato cubano - nei panni di Bradley Manning - che rivelasse i protocolli militari esistenti tra i governi dell’Avana e Caracas. Avrebbero pietà di lui? E se qualcuno dovesse rivelare le reali dimensioni della fortuna personale di Fidel Castro? Se un semplice blog che pubblica opinioni mette in guardia l’intero apparato repressivo, mi vengono i brividi al solo immaginare cosa potrebbe accadere a una persona che creasse un sito web ricco di informazioni segrete riguardanti Cuba.

Ragioniamo su alcuni elementi noti. I regimi autoritari non lasciano traccia su carta delle loro malefatte. I loro archivi raramente contengono cose compromettenti, perché gli ordini vengono dati verbalmente e senza testimoni. I gerarchi sono specialisti nel mandare qualcuno a uccidere gli avversari, sono molto bravi a disporre atrocità, basta che muovano un sopracciglio. Possono fomentare azioni di guerriglia in un intero continente sussurrando poche frasi, possono distribuire missili nucleari nel loro territorio sotto l’impunità del silenzio, e rinviare per 15 anni la pubblicazione del bilancio delle vittime di una guerra combattuta in territorio africano. Questi regimi nemici dell’informazione sanno individuare bene i potenziali Julian Assange. Fiutano il loro odore sin da quando sono giovani, quando fanno domande, quando non sono d’accordo con la con la solita tiritera della televisione statale e cercano di approfondire. I regimi controllano i potenziali Assange da quando cominciano a mettere in discussione ciò che è sbagliato e a ficcare il naso in alcune questioni spinose. Agiscono rapidamente contro queste persone. In alcuni casi li comprano con privilegi effimeri, in altri rendono la loro vita impossibile, spingendoli verso l’esilio, in altri ancora li demonizzano per togliere loro ogni credibilità. A Cuba non c’è modo per diventare un Julian Assange e rimanere vivi, credetemi.


Riduzione e adattamento
a cura di Gordiano Lupi e Massimo Campo

sabato 25 agosto 2012

Il Corriere della Sera parla di Alejandro Torreguitart





Corriere della Sera del 25 agosto 2012 - versione cartacea e digitale.
Si parla della mia scoperta cubana Alejandro Torreguitart Ruiz - http://www.infol.it/lupi/alejandro.htm
ovviamente senza citarmi, senza avermi interpellato e con molte inesattezze.
Ma prendiamo il buono!

Gordiano Lupi

Il peso di un'isola (1943)

Il capolavoro di Virgilio Piñera, in occasione del centenario della sua nascita, per la prima volta tradotto integralmente in italiano. La poesia che racconta in maniera lirica l'essenza del popolo cubano.


Virgilio Piñera (1912 - 1979)


La maledetta circostanza dell’acqua da ogni parte

mi obbliga a sedermi alla tavola del caffè.

Se non pensassi che l’acqua mi circondasse come un cancro

avrei potuto dormire tranquillamente.

Mentre i ragazzi si spogliavano dei loro vestiti per nuotare

dodici persone morivano in una stanza per compressione.

Quando all’alba la mendicante scivola nell’acqua

nel preciso momento in cui si lava uno dei suoi capezzoli,

mi abituo al fetore del porto

mi abituo alla stessa donna che invariabilmente masturba,

notte dopo notte, il soldato di guardia in mezzo al sogno dei pesci.

Una tazza di caffè non può allontanare la mia idea fissa,

in un altro tempo io vivevo adamiticamente.

Che portò la metamorfosi?



L’eterna miseria che è l’atto di ricordare.

Se tu potessi formare di nuovo quelle combinazioni,

restituendomi il paese senza l’acqua,

me la berrei tutta per sputarla al cielo.

Però ho visto la musica trattenuta nei fianchi,

ho visto le negre ballare con bicchieri di rum sulle loro teste.

Bisogna saltare fuori dal letto con la ferma convinzione

che i tuoi denti sono cresciuti,

che il tuo cuore ti uscirà dalla bocca.

Ancora galleggia nelle scogliere l’uniforme del marinaio annegato.

Bisogna saltare fuori dal letto e cercare la vena maggiore del mare per

dissanguarlo.

Mi sono messo a pescare spugne freneticamente,

quegli esseri miracolosi che possono evacuare fino all’ultima goccia

d’acqua

e farci vivere all’asciutto.

Questa notte ho pianto dopo aver conosciuto un’anziana

che ha vissuto cento otto anni circondata d’acqua da ogni parte.

Bisogna mordere, bisogna gridare, bisogna graffiare.

Ho dato le ultime istruzioni.

Il profumo dell’ananas può fermare un uccello.

Gli undici mulatti si contendevano il frutto,

gli undici mulatti fallici morirono sulla riva della spiaggia.

Ho dato le ultime istruzioni.

Tutti noi ci siamo denudati.



Giunsi quando davano un bicchiere di acquavite alla vergine crudele,

quando spargevano rum nel pavimento e i piedi sembravano lance,

proprio quando un corpo nel letto potrebbe sembrare impudico,

proprio nel momento in cui nessuno crede in Dio.

I primi accordi e le antichità di questo mondo:

ieraticamente una negra e una bianca e il liquido che schizza.

Per rattristarmi mi odoro sotto le braccia.

In questo paese dove non ci sono animali selvatici.

Penso ai cavalli dei conquistatori che montano le giumente,

penso allo sconosciuto suono dell’areíto (1)

scomparso per tutta l’eternità,

certamente devo sforzarmi per poter mettere in chiaro

il primo contatto carnale in questo paese e il primo morto.

Tutti diventano seri quando il timpano apre la danza.

Solamente l’europeo leggeva le meditazioni cartesiane.

Il ballo e l’isola circondata d’acqua da ogni parte:

piume di flamenco, spine di parago, rami di basilico, semi di avocado.

La nuova solennità di questa isola.

Paese mio, così giovane, non sai definirti!



Chi può ridere su questa roccia funebre dei sacrifici di galli?

I dolci stregoni calano i loro pugnali ritmicamente.

Come una guanabana (2) un cuore può essere trafitto senza

compiere crimini.

Una mano nel trés (3) può portare tutto il sinistro colore dei caimitos (4)

più brillanti di uno specchio nella rugiada,

malgrado ciò la bella musica si allontana dai palmeti.

Se affondassi le dita nella sua polpa crederesti nella musica.

Mia madre fu punta da uno scorpione quando era incinta.



Chi può ridere su questa roccia dei sacrifici di galli?

Chi si può trattenere quando le claves (5) risuonano?

Chi rifiuta di affogare nell’indefinibile rossore del flamboyán (6)?

Il sangue adolescente beviamo nelle pulite scodelle.

Adesso non passa una tigre ma la sua descrizione.



Le bianche dentature che perforano la notte,

e anche i famelici denti dei cinesi in attesa della colazione

dopo la dottrina cristiana.

Ancora può questa gente salvarsi dal cielo,

perché al ritmo degli inni le donzelle eccitano in modo esperto

i falli degli uomini.

L’impetuosa onda invade l’ampio salone delle genuflessioni.

Nessuno pensa a implorare, a chiedere grazia, a ringraziare, a testimoniare.

La santità si sgonfia in una risata.

Siano i caotici simboli dell’amore i primi oggetti che tocchi,

fortunatamente ignoriamo la voluttuosità e la carezza francese,

ignoriamo il perfetto gaudente e la moglie polipo,

ignoriamo gli specchi strategici,

non sappiamo sopportare la sifilide con la tranquilla eleganza di un cigno,

ignoriamo che molto presto praticheremo queste mortali eleganze.

I corpi nella misteriosa pioggerellina tropicale,

nella pioggerellina diurna, nella pioggerellina notturna, sempre nella

pioggerellina,

i corpi mentre aprono i loro milioni di occhi,

i corpi, dominati dalla luce, si ritirano

davanti all’assassinio della pelle,

i corpi, divorando ondate di luce, esplodono come girasoli di fuoco

sopra le acque statiche,

i corpi, nelle acque, come carboni spenti deviano

verso il mare.



È la confusione, è il terrore, è l’abbondanza,

è la verginità che comincia a perdersi.

I manghi marciti nel letto del fiume oscurano il mio giudizio,

quindi scalo l’albero più alto per cadere come un frutto.

Niente potrà fermare questo corpo destinato agli zoccoli dei cavalli,

così turbato e occupato tra la poesia e il sole.



Ascolto brevemente il cuore trafitto,

conficco lo stiletto più appuntito nella nuca dei dormienti.

Il tropico salta fuori e il suo getto invade la mia testa

attaccata con forza contro la crosta della notte.

La pietà originale delle aurifere sabbie

affoga sonoramente le giumente spagnole,

la tromba marina scompiglia le criniere più inclinate.



Non posso guardare con questi occhi dilatati.

Nessuno sa guardare, contemplare, denudare un corpo.

È la terribile confusione di una mano nel verde,

gli strangolatori che viaggiano nella fascia dell’iride.

Non saprei popolare di sguardi il solitario corso dell’amore.



Mi fermo su certe parole tradizionali:

l’acquazzone, la siesta, il cañaveral (7), il tabacco,

con semplice cenno, appena un’onomatopea,

come un titano passo sopra la sua musica,

e dico: l’acqua, il mezzogiorno, lo zucchero, il fumo.



Io armonizzo:

l’acquazzone percuote il dorso dei cavalli,

la siesta è in relazione alla coda di un cavallo,

il campo di canna da zucchero divora i cavalli,

i cavalli si perdono silenziosamente

nella tenebrosa emanazione del tabacco,

l’ultimo gesto dei syboneis (8) mentre il fumo passa dalla forcella

come il carro funebre,

l’ultimo cenno dei syboneis,

mentre scavo questa terra per incontrare gli idoli e farmi una storia.



I popoli e le loro storie nella bocca di tutto il popolo.



Subito, il galeone carico d’oro si mette nella bocca

di uno dei narratori,

e Cadmo, sdentato, comincia a suonare il bongó.

La vecchia tristezza di Cadmo e il suo perduto prestigio:

in un’isola tropicale gli ultimi globuli rossi di un dragone

tingono con imperiale dignità il mantello di una decadenza.



Le storie eterne davanti alla storia di una volta del sole,

le eterne storie di queste terre che generano buffoni e pappagalli,

le eterne storie dei negri che furono,

e dei bianchi che non furono,

o al contrario o come vi sembri meglio,

le eterne storie bianche, nere, gialle, rosse, azzurre,

- tutta la gamma cromatica che esplode sopra la mia testa in fiamme -,

l’eterna storia del cinico sorriso dell’europeo

arrivato per stringere le tette di mia madre.

L’orrenda passeggiata circolare,

il tenebroso gioco dei piedi sulla sabbia circolare,

l’avvelenato movimento del tallone che evita il ventaglio del riccio,

le sinistre mangrovie, come un cinturone canceroso,

circondano l’isola,

le mangrovie e la fetida sabbia

stringono le reni degli abitanti dell’isola.



Solo si eleva un flamenco assolutamente.



Nessuno può uscire, nessuno può uscire!

La vita dell’imbuto e sopra la panna della rabbia.

Nessuno può uscire:

lo squalo più piccolo rifiuterebbe di trasportare un corpo intatto.

Nessuno può uscire:

un’uva caleta (9) nella fronte della creola

che si sventola languida in una sedia a dondolo,

e “nessuno può uscire” termina terribilmente nel suono delle claves.

Ogni uomo mangia frammenti dell’isola,

ogni uomo divora i frutti, le pietre e l’escremento nutritivo,

ogni uomo morde lo spazio lasciato dalla sua ombra,

ogni uomo addenta il vuoto dove trova la sua sede il sole,

ogni uomo, apre la sua bocca come una cisterna, ristagna l’acqua

del mare, ma come il cavallo del barone di Munchausen,

la getta pateticamente dalla sua parte posteriore,

ogni uomo nel vendicativo lavoro di ritagliare

i bordi dell’isola più bella del mondo,

ogni uomo cerca di lasciar andare la bestia in mezzo alle lucciole.



La bestia è indolente come un bel maschio

e testarda come una femmina primitiva.

Vero è che la bestia attraversa quotidianamente i quattro momenti caotici,

i quattro momenti in cui si può contemplare

- con la testa messa tra le sue zampe - scrutando l’orizzonte

con occhio terribile,

i quattro momenti in cui si apre il cancro:

alba, mezzogiorno, crepuscolo e notte.



Le prime gocce di una pioggia inclemente cadono sulle sue spalle

fino a quando la pelle assume la risonanza di due maracas (10) suonate

abilmente.

In questo momento, come una savana o come un bandiera di

tregua, potrebbe

manifestarsi un gradevole mistero,

ma la valanga di verdi lussuriosi soffoca i bagnati suoni,

e la monotonia invade l’avvolgente tunnel delle foglie.



La traccia luminosa di un sogno mal generato,

un carnevale che comincia con il canto del gallo,

la nebbia che copre con la sua gelida maschera lo scandalo della savana,

ogni palma che si diffonde insolente in un verde gioco di acque,

perforano, con un triangolo incandescente, il petto dei primi acquaioli,

e la colonna d’acqua lancia i suoi vapori nella faccia del sole cucita

da un gallo.

È l’ora terribile.

I divoratori di nebbia si dileguano

verso la parte più inferiore della palude,

e un caimano passa dolcemente vicino.

È l’ora terribile.

Come un meteorite la terribile gallina cade,

e ognuno beve il suo caffè.

Cosa può fare il sole in un paese così triste?

I lavori quotidiani si attorcigliano al collo degli uomini

mentre il latte cade disperatamente.

Cosa può fare il sole in un paese così triste?

Con un lusso mortale i macheteros (11) aprono grandi spazi nel bosco,

la tristissima iguana salta baroccamente in una pozza di sangue,

i macheteros, mentre realizzano spazi luminosi, si rattristano

fino ad acquistare la sfumatura di un sotterraneo egizio.

Chi può sperare clemenza in questa ora?

Confusamente un popolo fugge dalla sua stessa pelle

addormentandosi con la luminosità,

la fulminante droga che può dare inizio a un sonno mortale

nei begli occhi di uomini e donne,

negli immensi e tenebrosi occhi di queste genti

per i quali la pelle entra all’interno di strani riti.



La pelle, in questa ora, si estende come una scogliera

e morde i suoi stessi limiti,

la pelle si mette a gridare come una pazza, come un maiale selvatico,

la pelle cerca di coprire la sua luminosità con pezzi di palma,

con foglie portate distrattamente dal vento,

la pelle si copre furiosamente con pappagalli e pitahayas (12),

assurdamente si copre con malinconiche foglie di tabacco

e con resti di leggende tenebrose,

e quando la pelle è soltanto una palla oscura,

la terribile gallina depone un uovo bianchissimo.



Bisogna coprire! Bisogna coprire!

Ma la luminosità avanza, invade

perversamente, obliquamente, perpendicolarmente,

la luminosità è un’enorme ventosa che assorbe l’ombra,

e le mani vanno lentamente verso gli occhi.

I segreti più inconfessabili vengono detti:

la luminosità muove le lingue,

la luminosità muove le braccia,

la luminosità cade su una fruttiera di guayabas (13),

la luminosità cade sui negri e sui bianchi,

la luminosità percuote se stessa,

va da un lato all’altro convulsamente,

inizia a esplodere, a scoppiare, a spaccarsi,

la luminosità inizia l’illuminazione più orribile,

la luminosità inizia a generare luminosità.

Sono le dodici del giorno.



Tutto un popolo può morire di luce come morire di peste.

A mezzogiorno il bosco si popola di amache invisibili,

e, lanciati, gli uomini seminano foglie alla deriva sopra acque metalliche.

In questa ora nessuno saprebbe pronunciare il nome più caro,

né alzare una mano per accarezzare un seno;

in questa ora del cancro uno straniero giunto da spiagge remote

domanderebbe inutilmente quali progetti abbiamo

o quanti uomini muoiono di malattie tropicali in questa isola.

Nessuno lo ascolterebbe: le palme delle mani rivolte verso l’alto,

gli orecchi otturati dal tappo della sonnolenza,

i pori chiusi con la cera di un fastidio elegante

e della mortale deglutizione delle glorie passate.



Dove incontrare in questo cielo senza nubi il tuono

il cui scoppio spacca, da sopra a sotto, il timpano dei dormienti?

Quale conchiglia paleolitica spaccherebbe con il suo aspro corno

il timpano dei dormienti?

Gli uomini-conchiglia, gli uomini-scimmia, gli uomini-tunnel.

Popolo mio, tanto giovane, non sai ordinare!

Popolo mio, divinamente retorico, non sai raccontare!

Come la luce o l’infanzia ancora non hai un volto.



All’improvviso il mezzogiorno si mette in moto,

si mette in moto dentro se stesso,

il mezzogiorno statico si muove, oscilla,

il mezzogiorno inizia a elevarsi tra flatulenze,

le sue cuciture minacciano di scoppiare,

il mezzogiorno senza cultura, senza gravità, senza tragedia,

il mezzogiorno che orina verso l’alto,

che orina in senso opposto alla grande orinata

di Gargantuà nelle torri di Notre Dame,

e tutte quelle storie, lette da un isolano che non sa

che cosa sia un universo risoluto.



Ma il mezzogiorno si decide nel crepuscolo e il mondo si delinea.

Alla luce del crepuscolo una foglia di yagruma (14) dispone il suo velluto,

il suo colore argentato del rovescio è il primo specchio.

La bestia lo guarda con il suo occhio terribile.

In questo trance la pupilla si dilata, si distende

fino a catturare la foglia.

Allora la bestia esamina con il suo occhio le forme seminate nella sua

schiena

e gli uomini gettati contro il suo petto.

È l’ora unica per guardare la realtà in questa terra.



Non una donna e un uomo faccia a faccia,

ma il contorno di una donna e un uomo faccia a faccia,

entrano senza gravità nell’amore,

in modo tale che Newton fugge vergognandosi.



Una guinea (15) strilla per indicare l’angelus:

abrus precatorius, anona myristica, anona palustris.



Una litania vegetale senza aldilà si eleva

davanti agli archi floridi dell’amore:

Eugenia aromatica, eugenia fragrans, eugenia plicatula.

Il paradiso e l’inferno scoppiano e solo resta la terra:

ficus religiosa, ficus nitida, ficus suffocans.

La terra che produce per i secoli dei secoli:

Panicum colonum, panicum sanguinale, panicum maximum.

Il ricordo di una poesia naturale, non codificata, mi viene alle labbra:

albero del poeta, albero dell’amore, albero del sesso.



Una poesia esclusivamente della bocca come la saliva:

fiore di rabbia, fiore di cera, fiore della Y.



Una poesia microscopica:

Lacrime di Job, lacrime di Jupiter, lacrime d’amore.



Ma la notte si chiude sopra la poesia e le forme si sfumano.

In questa isola per prima cosa la notte risveglia l’olfatto:

le aperture di tutte le narici frustano l’aria

cercando un fiore invisibile;

la notte si mette a macinare migliaia di petali,

la notte si lascia attraversare da meridiani e paralleli d’odore,

i corpi s’incontrano nell’odore,

si riconoscono in questo odore unico che la nostra notte sa produrre;

l’odore porta la bacchetta delle cose che passano per la notte,

l’odore entra nel ballo, si stringe contro il güiro (16),

l’odore esce dalla bocca degli strumenti musicali,

si posa nel piede dei ballerini,

il capannello dei presenti divora quantità d’odore,

apre la porta e le coppie si aggregano alla notte.



La notte è un mango, è un ananas, è un gelsomino,

la notte è un albero davanti a un altro albero senza muovere i suoi rami,

la notte è un insulto profumato sulla guancia della bestia;

una notte sterilizzata, una notte senza anime in pena,

senza memoria, senza storia, una notte antillana (17);

una notte interrotta dall’europeo,

l’inevitabile personaggio di passaggio che lascia il suo escremento illustre,

al massimo, cinquecento anni, un sospiro nel percorso della notte antillana,

un’escrescenza vinta dall’odore della notte antillana.

Non importa che sia una processione, una conga (18),

una comparsa, una parata.

La notte penetra con il suo odore e tutti vogliono accoppiarsi.

L’odore sa strappare le maschere della civilizzazione,

sa che l’uomo e la donna si incontreranno puntualmente nel bananeto.

Musa paradisiaca, proteggi gli amanti!



Non devi che conquistare il cielo per goderne,

due corpi nel bananeto valgono tanto come la prima coppia,

l’odiosa coppia che servì per segnare la separazione.

Musa paradisiaca, proteggi gli amanti!



Non vogliamo potenze celestiali ma presenze terrestri,

che la terra ci protegga, che ci protegga il desiderio,

felicemente non portiamo il cielo nelle nostre vene,

solo sentiamo la sua realtà fisica

per la comunicazione della pioggia che cade sulle nostre teste.



Sotto la pioggia, sotto l’odore, sotto tutto quel che è una realtà,

un popolo si fa e si disfa lasciando testimoni:

una veglia, una festicciola, una mano, un crimine,

disordinati, confusi, sprofondati nella risacca perpetua,

facendo lievi saluti, mostrando i denti, percuotendosi le reni,

un popolo discende risoluto in enormi blocchi di concime,

sentendo come l’acqua lo circonda da ogni parte,

più in basso, più in basso, e il mare che freme alle sue spalle;

un popolo resta insieme alla sua bestia nell’ora di partire,

urlando nel mare, divorando frutti, sacrificando animali,

sempre più in basso, fino a conoscere il peso della sua isola;

il peso di un’isola nell’amore di un popolo.



(1943)

Traduzione di Gordiano Lupi


Note del traduttore:

(1) canto indigeno

(2) frutto tipico cubano

(3) strumento musicale cubano simile a una chitarra

(4) fiore cubano

(5) strumento musicale cubano

(6) pianta tipica cubana dai fiori rossi

(7) campo di canna da zucchero

(8) uno dei ceppi indigeni cubani

(9) tipica uva bianca cubana

(10) strumento musicale cubano

(11) tagliatori di canna da zucchero che lavorano con il machete

(12) pianta cubana

(13) frutto cubano

(14) pianta cubana

(15) uccello tropicale

(16) strumento musicale cubano

(17) antillana, delle Antille, intraducibile, anche se molti usano l’orribile italianismo antigliana.

(18) strumento musicale cubano

giovedì 23 agosto 2012

Virgilio Piñera, cent'anni dopo...

Per ricordare centenario della nascita di Virgilio Piñera (1912 - 1979), pubblichiamo una sua poesia del 1944, tratta dalla collezione completa La isla en peso, edita da Tusquets (Barcellona), nel settembre del 2000, ma che fa parte della raccolta giovanile El oro de los dias. Tutto inedito in Italia.


Ah, dall’hotel…


I

È una catena?

Verso sera comincia il tribunale

E le aggressioni del leone sono ogni volta più numerose.

È davvero una catena?

Il tunnel passa e torna a passare davanti al tribunale

con i suoi rumori avvolti in un tappeto giallo.

Una catena con i suoi anelli?

Oggi giudicheranno il leone.

Tu, la piega del braccio destro, guarda e prostrati

fino a quando il manicomio intero sia entrato nel tunnel.



Passava una ragazza dalla falsa giovinezza?

Passavano le spaventose vecchie del salone verde?

E tu, tribunale, agita la campanella, tribunale mio, agitala con furia

che finisce di scendere l’ascensore.

Vuole salire con me?

È che davvero ho tanto coraggio

che desidererei accompagnare coloro che saliranno questa notte.

Ma non ci hanno ancora detto dove saremo giudicati,

sì, il leone sa dove saranno ascoltate le sue discolpe,

ma lui è sicuramente il re degli animali,

e io dico, noi, i residenti di questo hotel

con il suo tunnel che circoliamo senza la minima pietà.

È notevole, le voci non riescono a salire più in alto del primo piano,

e io so che c’è gente in attesa di certe chiamate…

Dicono che il leone sarà assolto.

Nel frattempo facciamo un giro per il quartiere.



Noti forse gli alberi o meglio la lingua del tunnel

che esce da quella finestra?

Non so se davvero sia una catena.

Subito annunciano con voce stentorea:

Assolto il leone! Tutti si commuovono.

Anima mia, sarà meglio che entri nel tunnel.

Con grande stupore del tribunale il leone finisce per suicidarsi.


II


No, se io circolo, se faccio lievi inclinazioni a destra e a sinistra,

se mi apro la camicia e mostro il petto,

no, non è quella la vera causa,

è, piuttosto, la mia resistenza, il mio orrore magnifico a non essere giudicato

alle sei della sera.

In qualche modo sarò rimpiazzato,

scenderò tra grandi calori fino al piano terra.

Allora non potrai invitarmi perché l’interrogatorio sarà molto lungo.

Ci sono diversi casi,

e non so per quale motivo mi si voglia giudicare proprio

alle sei della sera.

Tutti sanno che io sono uno arrivato da poco.

Neppure conosco il corridoio che porta alla cucina,

né le due pareti alte che si uniscono alle dodici del mattino

perché muoiano i ratti che infestano il cortile delle acque pluviali.

Sai, anima mia, che sono un semplice mortale,

che mi piace essere il timbro della grande città

e mi piace la banda musicale nel parco.



Però sì, devo protestare,

parlerò con l’ometto dell’ascensore,

griderò.

Oh, che strano!

ogni volta che lancio un grido il tunnel impallidisce,

si mette una rosa funebre e dice:

Povero me!



III



Dall’hotel un dorato ginocchio comincia la genuflessione,

attraendo tutto quel che è gelido documento alle sei della sera,

tutto quanto può essere più tardi o prima ardente,

ma che in quel momento delle sei è la congelazione del sole.



Possiamo ancora affermare che sia una catena?

Vedo come il grande animale salta,

i suoi anelli si rifugiano nel seno delle dame,

vedo come le toghe del tribunale si muovono al ritmo dei suoi grugniti,

la sua lingua esige la saliva di tutti,

la sua lingua, molto degnamente, asperge qui e là.



Contro pareti gialle, contro epitaffi che non si vedono, striscia,

decifra i messaggi lasciati dalla polvere delle scarpe nei mosaici,

nessuno sfugge alla lucentezza della sua lingua,

nessuno resiste alla sua perfetta mobilità,

gli uni e gli altri si osservano con lo sguardo tipico degli attori in scena

per comunicarsi che tutti sono alla fine la gran lingua.

E io pure, sì, io mi muovo per il salone con velocità sorprendente,

sono la gran lingua,

tutto quanto urta contro la mia porpora diventa porpora composta da

ferree aste,

ma già non sono le sei della sera. Sono stato condannato.



Qualcuno mi precede in questo salone che è come un piatto di sangue,

un piatto di sangue con una testa di bue che galleggia,

una testa di bue per alimentare la tua lingua, per placare la tua sete.

Che risa, la mia lingua sullo stesso boccone!

Il giro eterno e quegli uccelli che escono dalle sue papille,

quei grandi uccelli che si alzano in volo fino a perdersi nella coda del sole,

quei grandi uccelli sopra al silenzio.



(1944)

Traduzione di Gordiano Lupi

sabato 18 agosto 2012

Poesie di Virgilio Piñera - da Le Furie (1941)





Le Furie


Questo gelato cristallo della persona

tra furie cadendo si diverte.

Rende solenni gli smorzati ceri il sogno della sua risata

e i denti che introducono il destino.

A un vento di cadaveri

il bordo della sua tunica interroga:

È la pacata piuma delle Furie

che nella fronte degli dei batte,

oltre la pelle, nel sordo volo,

sollecitando il fiume avvelenato.



Ho bisogno delle furie

-fiore d’ira latrando tra le tombe.

Crudele Narciso,

ho bisogno delle Furie scatenate.

Finora sono stato presente ai santuari

con ginocchi da cane giustiziato,

con un getto di sangue tra le labbra,

vestito di cadaveri.

E tu, cane che vegli,

se nella notte di carezze

scendi nell’acqua con il suo rumore intrecciato

per bere dalla tenerezza aspra,

alle furie ti consegno sventrato.

Oh, il tuo rimorso come un rospo!

Sollecito le Furie

che di notte dimenticano

la feroce esistenza del ricordo

e questo rimorso di morire

con la corda di vimini del peccato.



Più che una salvezza amministrata,

voglio il vostro lubrificato volo, Furie,

cauti sguardi su mansueti bruti,

gialla follia fulminando

le raffinate arti del fedele cane

e la sua lingua che lambisce gli sguardi.



Non ho conosciuto, Furie, il segreto

del pesce allegro senza modestia alzata,

né il verso delle foglie sonnolente,

né ancora le arpe dai suoni iniziati.

Di niente sono consapevole, allegre Furie:

codeste isole dalle acque ornate

dove uomini tetri e distinti

furiosamente sugli dei ridono.

Codeste isole e luce furiosa unite

passano con rami e consacrazioni

reclinati in tenui solitudini.

Tutto è conoscenza, allegre Furie.

Sono il garzone delle malinconie

che distribuisce arie gialle.



Amore, amore, vendo la tua rossa piuma,

ma il rimorso come un rospo,

ma il cane che lambisce gli sguardi,

ma le ginocchia del santuario,

ma l’aria gialla tra le mani,

ma la salvezza amministrata,

ma il cadavere della solitudine,

ma l’occhio imputridito dello specchio,

ma la lingua dell’avvelenato,

ma la conoscenza sottomessa.



Forse, Furie, vendete insanguinate piume?

Ma dopo il piacere il godimento,

ma dopo l’acqua il fresco,

ma dopo il sogno le visioni,

ma dopo l’innocente l’innocenza,

ma dopo il profumato specchio

profumati cadaveri che suonano,

ma dopo le combinazioni

i numeri che aggiungono i cadaveri,

ma dopo il dio comunicato

sempre la conoscenza sottomessa.



Non è così, Furie mie?

Non è che il fiume divido cadendo tra voi?

Non è che il garzone delle malinconie

odia furiosamente codeste isole delle consacrazioni?

Una gialla rabbia,

una gialla tela,

un giallo specchio,

una gialla pioggia,

è tutto quel che resta,

allegre Furie.



(1941)




Elegia così



Invito alla parola

che passeggia tra cani il suo deserto latrato.

Tutto è triste.

Se con lucide foglie coroni la fronte e i seni

un freddo sorriso fiorirà nella luna.

Tutto è triste.

Dopo i cani tristi mangeranno delle foglie

e latreranno parole dal lucido suono.

Tutto è triste.

Un cane invita i giacinti nel fiume.

Tutto è triste.

Con lunari parole, con cagnesche frecce

con dentate foglioline

feriscono le mute donzelle i giacinti.

Tutto è triste.

Dietro le parole i serpenti ridono,

la sorda terra non permette suoni.

Tutto è triste.



Latra un uccello celeste nel cielo

per allontanare la morte.

Con fiori della notte la scopre,

con parole da cane la seduce,

con un calice di terra la seppellisce.

Tutto è triste.

Invito la terrosa parola

che perfora la vita e gli specchi

e l’eco della sua immagine diviso.

Tutto è triste.

Un gioco di parole con latrati.

Tutto è triste.

Un giavellotto con rapido vento vola

in variazioni virili.

Tutto è triste.

Mezzo calice di terra ammutolì la musica.

Tutto è triste.

Dopo la terra bevve se stessa.

Tutto è triste.

E quando arriverà il tempo della morte

ponetemi di fronte allo specchio per vedermi.

Tutto è triste.



(1941)

Traduzioni di Gordiano Lupi
da LA ISLA EN PESO - Tusquets Editores - Barcellona, 2000

venerdì 17 agosto 2012

Tre italiani nelle carceri cubane


Forse sono innocenti ma nessuno ne parla…


La bambina morta (fonte Café Fuerte)

A Cuba ci sono ancora tre italiani in carcere, condannati a lunghe pene detentive, dopo la morte di una baby prostituta al termine di un’orgia in una casa di Bayamo, piccolo centro nella zona orientale dell’isola. Nessuno fa niente per loro, forse non sono persone importanti, forse sono cittadini di serie B. Il Ministero degli Esteri - in tutt’altre faccende affaccendato - pare del tutto disinteressato a risolvere un problema grave per le famiglie dei cittadini coinvolti. La stampa non fa parola di un fatto orribile, che dal dicembre del 2011 vede i nostri concittadini reclusi nelle carceri cubane, costretti a scontare una pena a loro dire ingiusta.

Angelo Malavasi e Simone Pini, accusati di omicidio e corruzione di minori, sono stati condannati a 25 anni di galera, mentre Luigi Sartorio dovrà scontare 20 anni per il secondo capo di imputazione. Luigi Sartorio, dopo un lungo periodo in cui mostrava segni di squilibrio psico-fisico, disturbi segnalati senza esito al personale del carcere del Combinado del Este, si è visto diagnosticare un tumore al cervello ed è stato operato.

Pini e Sartorio hanno proclamato la loro innocenza rilasciando dichiarazioni ala stampa straniera. Pini sostiene (e può provare) che non si trovava a Cuba quando si è verificato il tragico evento.


Sartorio, Pini e Malavasi

I condannati cubani sono in prigione da oltre due anni, prima in alcuni penitenziari della provincia di Granma, quindi Sartorio e Malavasi sono stati fatti rientrare rispettivamente al Combinado del Este e La Condesa. Pini è ancora a Bayamo, nel carcere provinciale di Las Mangas. Il cadavere di Lilian Ramírez Espinosa, 12 anni, era stato rinvenuto il 19 maggio 2010 in un luogo difficilmente accessibile, coperto dalla vegetazione spinosa, nella campagna alla periferia di Bayamo. La minorenne era asmatica e pare che avesse preso parte a un convegno erotico, ma la morte è sopravenuta per asfissia nel bagagliaio dell’auto, dove era stata nascosta prima di essere seppellita nei campi.

I familiari degli italiani assicurano che i condannati sono innocenti e che i veri assassini di Lilian Ramírez Espinosa sono ancora a piede libero. Accusano il Dipartimento Tecnico di Investigazioni di Bayamo di aver fatto un pessimo lavoro, di aver fabbricato prove e usato comportamenti minacciosi, inganni, pressioni psicologiche e persino di aver usato le maniere forti per ottenere confessioni. Gli italiani assicurano che non si trovavano a Cuba nel giorno in cui è morta la bambina e affermano che le autorità ignorano deliberatamente le prove portate a sostegno del fatto che erano in Italia.

La storia di questo orribile delitto non sembra finita. I nostri connazionali sono nelle mani di un sistema processuale che non garantisce la certezza del diritto e a questo punto si sentono anche un po’ abbandonati dalla giustizia italiana.


Gordiano Lupi

giovedì 16 agosto 2012

Triste, solitario y final

di Paolo Rigo




«Fa giorno con un cielo tutto rosso, sembra di fuoco, eppure il vento è fresco e umido e l'orizzonte una foschia grigia. I due uomini sono saliti in coperta e sono due facce ben diverse quelle che guardano verso la costa, celata dalla nebbia. Gli occhi di Stan hanno il colore della foschia; quelli di Charlie, il colore del fuoco. La brezza salata spruzza i loro visi di gocce trasparenti. Stan passa la lingua sulle labbra e sente, forse per l'ultima volta in questo viaggio, il gusto salato del mare»

A volte tendiamo a sottovalutare un autore solamente perché quell’uomo, quello scrittore è troppo lontano dagli standard di grandezza che un possibile orizzonte di pubblico, badate bene specializzato, elitario, rispetto alla stragrande maggioranza di lettori, ha posto come muro verso il Valhalla della santità classica. Tutta questa premessa per dire che credo che uno degli autori più sottovalutati del panorama mondiale letterario sia Osvaldo Soriano.

Urge precisare qualcosa: non è che Soriano non abbia avuto una discreta fortuna, non è che non abbia avuto qualche tipo di riconoscimento, basterebbe per tutti la collaborazione internazionale come firma dell’Unità, all’epoca davvero uno dei quotidiani più importanti nel panorama italiano per dare un’idea di quanto fosse cospicuo il rispetto e la gravida area che orbitava intorno allo scrittore argentino, ma bisogna assolutamente precisare che quando si vuole parlare di Soriano bisognerebbe considerare anche alcune questioni bibliografiche. Probabilmente non tutti sanno che uno dei maggiori successi in Italia dello scrittore, la raccolta di racconti Fútbol, altro non è che un vero pasticcio editoriale una raccolta sine consenso dell’autore, un’opera che ha la stessa intenzionalità autoriale delle vidas e razos medievali di UC de Saint-Circ: zero. Ma la questione è talmente lunga che avrebbe bisogno di un saggio a sé, vorrei invece spezzare una lancia, per quanto piccola, per elogiare la meravigliosa piccola luminosità di un testo come Triste, solitario y final.


Credo che sia uno dei libri più divertenti ed intelligenti che abbia mai letto dove Soriano mischiò un omaggio leggero, gustoso ad uno dei generi preferiti dall’autore, il noir, alla parodia, al comico, e per finire a un altre grande amore: Stanlio e Olio. Soriano fece tutto con una dovizia atipica, e del tutto casuale -almeno stando alla leggenda divulgata dallo stesso autore- se è vero che il libro prese corpo spontaneamente legando racconti, novelle e storie, una di seguito all’altro senza una vera e propria intenzionalità, e vi mise tutto, dipinse con mano ferma la storia di falliti senza speranza che pur sentendosi i migliori non riescono ad emergere mai, proprio come accade nei racconti. Se vi capita di leggere le scalcinate avventure di Mister Peregrino Fernández, beh, sono sicuro che rimarrete piacevolmente sconvolti dalla possibilità che quel terzino con la faccia grossa del Torino sia esistito davvero, e lo stesso accade con Stanlio: sarà stato davvero così triste? È incredibile la verosomiglianza con cui Soriano si muove nel mondo, guardandogli dentro e parodiandolo, lavandolo come si fa lavando una vecchia casseruola sporca. Bisogna pensare ai grandi per trovare tale capacità. Io dirò solo un’ultima cosa: Grazie Soriano.

lunedì 13 agosto 2012

Cuba revoca la lista nera per i musicisti in esilio


di Yoani Sánchez – da El País


Gloria Estefan durante una manifestazione a Miami

A partire da oggi Celia Cruz, Bebo Valdés e Willy Chirino potranno essere trasmessi dalle emittenti cubane. Per decenni, oltre cinquanta artisti critici con il regime sono stati censurati dai programmi radiotelevisivi. Adesso, secondo quanto scrivono alcuni media stranieri come la catena britannica BBC (http://www.bbc.co.uk/news/world-latin-america-19174552), le autorità avrebbero soppresso la cosiddetta “lista nera”, un elenco di nomi proibiti mai reso pubblico e la cui eliminazione - come di regola - non è stata annunciata ufficialmente. L’informazione è stata diffusa da alcuni lavoratori del settore, anche se nessun cubano ha ancora sentito uscire dal suo transistor il tipico grido “Azúcar!”, lanciato dalla Regina del Son. Oltre alla ormai scomparsa Celia Cruz molti altri artisti per diversi anni hanno sofferto la censura cubana. Tra loro la cantante di boleri Olga Guillot, il sassofonista Paquito d’Rivera (http://www.paquitodrivera.com/) e il pianista Bebo Valdés. Persino il noto interprete spagnolo Julio Iglesias è stato censurato per la sua posizione critica nei confronti del regime. Adesso la musica di questi autori tornerà a essere diffusa dai media nazionali, dopo che diverse generazioni di cubani sono stati privati della loro arte. Per il momento, la nuova misura non ha portato alcun segno di cambiamento nelle varie emittenti nazionali. Paquito d’Rivera ha telefonato a diverse radio cubane, nazionali e locali, ricevendo risposte evasive, spesso i funzionari si sono mostrati sorpresi, riferendo di non sapere niente in merito. In ogni caso, il mercato informale della musica vendeva da anni le produzioni di questi artisti. Durante le feste private era diventato un fatto normale ascoltare Willy Chirino e Gloria Estefan. I loro temi musicali venivano inseriti persino nelle attività ufficiali e negli eventi organizzati in forma istituzionale. Le nuove tecnologie hanno reso possibile l’avvicinamento dei cubani a queste voci proibite, tramite copie distribuite per mezzo di CD, DVD e memorie USB. Possiamo dire che questo cambiamento segue la stessa logica di altre “riforme rauliste”: accettare ciò che non è più possibile impedire, autorizzare quel che sta accadendo in maniera irreparabile. La censura radiofonica cercava di restringere il campo, ma la nuova misura riconosce l’impossibilità di condizionare i gusti musicali secondo considerazioni ideologiche.

Nonostante tutto, la fine del divieto non significa che le canzoni di questi artisti cominceranno subito a passare sulle frequenze radiotelevisive nazionali. Le emittenti devono acquisire i loro dischi e molti direttori di programmazione procederanno con i piedi di piombo, verificando se siamo in presenza di una decisione definitiva, che non comporta passi indietro. Alcune canzoni composte da questi artisti continueranno a subire repressioni, soprattutto quelle che alludono alla libertà e a un’eventuale transizione politica a Cuba. Per avere un’idea, possiamo ascoltare il popolare tema di Nuestro día ya viene llegando (Il nostro giorno sta per arrivare), interpretato da Willy Chirino: http://www.youtube.com/watch?v=GhJlwB-B9aU.

 
Traduzione di Gordiano Lupi

Nota del traduttore:

Nuestro día ya viene llegando (Il nostro giorno sta per arrivare) di Willy Chirino - http://www.youtube.com/watch?v=GhJlwB-B9aU - Siamo certi che Raúl Castro non lo farà mai trasmettere da una radio cubana, anche se in molte case viene ascoltato ogni giorno. Potrebbe essere la colonna sonora della liberazione…

Foto presentazione alle Isole Tremiti


La locandina dell'evento


Il libro
  
Carlos Alberto Montaner e Gordiano Lupi durante la presentazione

Il sindaco di Isole Tremiti, Carlos Alberto Montaner e Gordiano Lupi

Gordiano Lupi e Carlos Alberto Montaner, dopo la presentazione

Foto di gruppo con alcuni partecipanti 

 
Gordiano Lupi, la lettrice Maria Assunta, Carlos Alberto Montaner

Carlos Alberto Montaner firma una dedica


Gordiano Lupi, Linda Montaner, Cristina De Vita, Carlos Alberto Montaner

domenica 12 agosto 2012

Il letto o la strada?


di Yoani Sánchez


Gocce di sudore, danza, fianchi in movimento, occhi maliziosi. Siamo di notte, durante una festa avanera, quando la tensione erotica si avverte come una presenza tangibile e corporea. Gli sguardi si incrociano, i gesti concordano un incontro nell’oscurità, le labbra decidono senza parole un intenso scambio di baci che si compierà subito dopo. A Cuba la sessualità sembra uscire dai pori e da ogni angolo di strada, sgorga persino dall’asfalto. I vestiti attillati, i sorrisi maliziosi, le frasi lascive, fanno trapelare una sensualità che colpisce chi visita l’Isola per la prima volta. Pare che in ogni momento sia possibile vedere per strada scene erotiche. Le persone si scambiano battute che alludono continuamente al sesso, mentre nel linguaggio popolare sono decine le parole che indicano i genitali. Chi entra in contatto con la nostra realtà in un primo tempo è spinto a credere che ci siamo lasciati alle spalle ogni tabù sul piacere carnale e che abbiamo superato ogni timidezza.

Tuttavia, dietro questa visibile esplosione di piacere erotico, si nasconde una mentalità pacata quando è il momento di affrontare il rapporto sessuale. La disinvoltura che si manifesta con balli ed espressioni, contrasta con il pudore e il silenzio quando si tratta di spiegare ai figli la sessualità o di affrontare l’argomento in maniera seria. Inoltre questa disinvoltura sensuale si scontra frontalmente contro l’incartapecorita ideologia ufficiale. Il governo cubano ha sempre avuto difficoltà nel destreggiarsi con il carattere lascivo del suo popolo. Il sobrio modello impiantato nel paese avrebbe avuto vita più facile se avesse avuto a che fare con un uomo molto formale e dai costumi morigerati. Ma anche questa caratteristica è stata sfruttata dalla sicurezza di Stato, che indaga le relazioni che nascono nei letti e le trasforma in materiale per compiere estorsioni. Quante volte abbiamo sentito dire: “sembra che dispongano di alcune foto compromettenti, in questo modo riescono a farlo tacere…”. Figure pubbliche, diplomatici, corrispondenti stranieri, dissidenti, generali e funzionari vengono spiati e documentati nell’atto di amare e di lasciarsi amare. Viene realizzato un archivio completo che racconta posizioni, incontri e storie di letto, per essere usato proprio quando si deve togliere di mezzo una persona. Questa pratica è stata usata così tante volte che molti cubani sospettano che durante un orgasmo ci possa essere un occhio che spia dal buco della serratura, una macchina fotografica nascosta nel lampadario sul soffitto o un microfono inserito nel corpo dell’amante.

Questo mix di paranoia ed estasi, è stato molto ben raccontato nel romanzo “La moglie del colonnello” di Carlos Alberto Montaner (1). La storia è ambientata negli anni Ottanta, quando truppe cubane appoggiavano il MPLA durante la guerra di Angola. Il colonnello Arturo Gómez riceve una busta gialla che contiene le prove dell’infedeltà di sua moglie, durante un viaggio da lei compiuto in Italia. A partire da questo momento la vita di entrambi si riduce a una manovra politica nelle mani di ufficiali con ambizioni da detective, rappresentanti di una supposta morale rivoluzionaria che vede nel modo di comportarsi della donna un tradimento della patria. Il fatto intimo perde la sua condizione di cosa privata, il piacere si trasforma in colpa e ogni istante di lussuria dovrà essere espiato. In un sistema totalitario, non è possibile che un individuo custodisca il segreto di un adulterio. Bisogna metterlo sotto la luce dei riflettori, in modo che serva da monito, va indicato al pubblico ludibrio, si deve far sapere che l’occhio del Grande Fratello ha visto la condotta frivola e non la perdona. Se poi chi ha commesso l’infedeltà coniugale è sposata con un militare o con un alto funzionario, lo scherno sarà esemplare. Il letto diventa una trappola che provoca maggiori controlli, le lenzuola si trasformano nelle reti di una caccia politica e l’amore carnale in un peccato controllato da fustigatori ideologici.

Questo è un libro dove si analizza il sesso e il potere. La sua lettura rivelerà al lettore il miraggio della cosiddetta morale rivoluzionaria, la falsità di un atteggiamento da ascetismo militante. Coloro che accusano Nuria di essere un’adultera, valutano la sua carne, si spingono ad ammirarne le parti intime, sperando di scambiare il suo corpo nudo con una sorta di misericordia. In ogni caso “La moglie del colonnello” non è soltanto il racconto di come lo Stato si intrometta nei fatti personali, ma è anche un raffinato romanzo erotico, che esula dalla triste realtà degli anni del sussidio sovietico. Le scene erotiche, molte delle quali ci giungono grazie alle lettere che l’amante italiano scrive a Nuria, sono un mix di spudoratezza moderna e di maestosità perpetua. Forse perché una parte di queste sequenze presenta come scenario la città di Roma, intrisa di storia e ricca di siti archeologici. Nuria sperimenta fuori da Cuba quella libertà di sensi e desideri che sa essere rigidamente controllata nel suo paese. Il professor Valerio Martinelli l’aiuta a riscoprire la donna che si nasconde sotto gli atteggiamenti, le maschere, l’opportunismo e i silenzi. In questo caso la sua liberazione come cittadina comincia dal sesso, sgorga dalla sua vagina. Ma nessuno che viva sotto un totalitarismo può sfuggire al suo controllo. Persino all’estero, Nuria è seguita dalla Sicurezza di Stato. La sua piacevole esperienza di emancipazione carnale si trasformerà in una manovra di polizia per incalzarla. Il letto è la trappola tentatrice nella quale spesso si cade, il premio che porta come conseguenza una dura punizione.

La focosità della protagonista, la sua necessità di esprimersi con l’atto sessuale va messa in relazione con il sesso come via di fuga dalla realtà che tanto si pratica a Cuba. L’assenza di spazi di una vera e propria libertà di espressione e di associazione, porta a esprimersi con gemiti e grida di piacere. Invece di scagliare una pietra, ci sfoghiamo con una fellatio; prima di chiedere i diritti civili, mettiamo la nostra lingua in un’altra bocca… un gesto che mentre lo compiamo non permette neanche di parlare. Accarezzare per protestare, rifugiarsi in un orgasmo per non affrontare le truppe antisommossa… mostrarci appassionati, visto che non possiamo farci vedere liberi. Il letto come via di fuga, verso la quale ci spingono, ma senza rinunciare al controllo e alla possibilità di fermarci.

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi


Note del traduttore:

(1) “La moglie del colonnello” di Carlos Alberto Montaner, tradotto da Marino Magliani, è pubblicato in Italia da Edizioni Anordest (http://www.edizionianordest.com/), nella collana Célebres Ineditos di narrativa latinoamericana.