di Giovanni Agnoloni
Rientro da una di quelle
trasferte di lavoro che sono dei viaggi nel senso più ricco della parola. In
Puglia, invitato insieme allo scrittore cubano Amir Valle a presentare Non lasciar mai che ti vedano piangere, suo romanzo da me tradotto,
edito da Anordest per la collana “Célebres Inéditos”.
La serata, svoltasi a Castellaneta
(TA), rientrava nel programma di “Spiagge d'Autore”, manifestazione
pregevolmente organizzata dalla Regione Puglia, in
collaborazione con l’Agenzia PugliaPromozione, la Confcommercio Puglia e il
Teatro Pubblico Pugliese.
Non lasciar mai che ti
vedano piangere è un
romanzo potente, di grande impatto sul piano letterario, umano e storico. L'ho
voluto sottolineare fin da subito, nell'ex-Convento delle Clarisse, una piccola
e bellissima chiesa sconsacrata nel centro dell'affascinante cittadina; subito
dopo l'introduzione del moderatore Fabio Salvatore. Sì,
perché è vero che la presenza di Charlie Chaplin imbeve di sé un'opera che ha nelle memorie cinematografiche un motore
fondamentale – fatto significativo, visto che presentavamo il libro nel paese
natale di Rodolfo Valentino, il mito per eccellenza del cinema muto, laddove
Chaplin ha segnato proprio la transizione al sonoro.
Tuttavia, il romanzo è notevole
anche da tanti altri punti di vista. Non soltanto perché, per la prima
volta, accosta la figura di Chaplin e quella di “Che” Guevara, evocando – in uno dei suoi filoni narrativi – il
progettato rapimento, da parte del giovane Ernesto, del “padre” di Charlot e di
Marilyn Monroe e Joe DiMaggio, nel 1952. E neanche solo perché – seguendo lo
spunto dato a Valle dallo scrittore paraguayano Augusto Roa Bastos – unisce a
questo elemento la vicenda (altrettanto fondata su risultanze documentali) del
piano di sequestro di Chaplin da parte di Hitler, nel 1942, dopo aver visto Il
grande dittatore. C'è anche un altro motivo, ancor più lacerante.
Queste due storie, infatti, associate a quella del trafugamento del cadavere
dell'attore nel 1978 in Svizzera, s'intrecciano con la drammatica esperienza di
vita di Anika, nome fittizio di una donna reale, che oggi vive sotto falsa
identità negli Stati Uniti, ma che, dopo una giovanissima età vissuta in gran
parte da orfana, ha trascorso un'adolescenza di violenze indicibili: prima da
parte dello zio a cui era stata affidata, poi, finita in riformatorio per
averlo ucciso perché la violava e la faceva prostituire, da parte del gruppo di
ragazzi neonazisti del cui leader, Ernan, si era innamorata; salvo poi uscirne,
sia pur a un prezzo terribile, salvata dai ricordi d'infinita dolcezza dei film
di Chaplin che vedeva da piccola.
Alle spalle, una trama di
inquietanti presenze di estrema destra; una rete di entità occulte realmente
esistente in Europa e facente capo alla
figlia di “cotanto” padre Gudrun Himmler.
È questa la vicenda che fa da collante tra tutti i temi eccellentemente intrecciati in questo libro, e che ci ficca nello stomaco una botta di viscerale sofferenza, sia pur sublimata da uno stile profondamente armonioso.
Tutte queste valenze, unite alla
storia personale dell'autore – esule a Berlino perché anticastrista, e che per
più di un anno è stato, per questo motivo, impossibilitato a vedere il figlio
più piccolo, e da sei non vede i genitori – e alla sua profonda fede cristiana,
sono emerse nel suo dialogo con Fabio Salvatore (cui ho partecipato in veste di
interprete, a volte cedendo alla tentazione di aggiungere qualche dettaglio,
memore delle sensazioni lasciatemi dal romanzo) e, nella parte finale, con
l'attrice Sarah Maestri,
autrice de La bambina dei fiori di carta
(Aliberti Editore).
Memorabile cornice
dell'appuntamento, i panorami lunari della gravina di Castellaneta e i vicoli
di Bari Vecchia, tra il Castello, la Cattedrale, la Basilica e il porto, dalle
tinte assolate così vicine ai colori dell'Avana Vecchia, come Amir Valle mi ha
confessato.
Una tre-giorni in cui ho potuto
sentire il retrogusto di una e forse di tante vite. Com'è vero anche per Non
lasciar mai che ti vedano piangere. Per
questo è importante leggere il romanzo. Perché è imbevuto anche del dolore di
cui non parla.
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