sabato 29 settembre 2012

Gary Cooper, l'eroe laconico

di Guillermo Cabrera Infante

Guillermo Cabrera Infante

L’articolo è stato scritto nel mese di marzo del 2001, quando Gary Cooper - se non fosse morto - avrebbe compiuto 100 anni.

Gary Cooper, il cowboy di Iowa che conquistò Hollywood, avrebbe compiuto lunedì prossimo cent’anni, se il cancro non se lo fosse portato via da quarant’anni. Nella finzione è stato un uomo laconico e fedele ai suoi principi, pioniere di una stirpe di attori importanti come James Stewart, Henry Fonda e Clint Eastwood. Idealizzato come attore di western (Il forestiero, Mezzogiorno di fuoco), è stato anche grande interprete di drammi (L’idolo delle folle) e commedie (Colpo di fulmine, Arianna).

Gary, il cui vero nome era Frank, Cooper, è stato il più americano degli attori di Hollywood, figlio di genitori inglesi, ha ricevuto la sua prima educazione in Inghilterra. L’attore che ha fatto del yep la sua maniera di dire yes (nessun altro attore può dirlo senza correre il rischio di imitarlo), l’uomo del West ideale, il cowboy per antonomasia, era una persona elegante, sofisticata, e - sorpresa! - molto cittadina. Fu chiamato Frank in omaggio al più reticente fratello di Jesse James e venne a Hollywood per entrare dalla porta stretta degli stuntmen (controfigure ma anche specialisti) nei panni di uno splendido cavallerizzo. Furono l’eleganza nel montare a cavallo vagamente mascherato da cowboy, la statura (era quasi due metri) e la notevole bellezza che gli permisero di mettersi in luce tra molte controfigure.


Gary Cooper è venuto fuori da questo mondo anonimo per diventare l’interprete di quasi cinquanta pellicole come personaggio fondamentale. La sua prima opera è stata The Winning of Barbara Worth (Fiore del deserto), diretta da uno dei grandi di Hollywood, Henry King, ingiustamente dimenticato dai critici. (Un altro regista che amava molto Cooper, Hanry Hathaway, è stato sistematicamente eliminato dall’elenco dei Grandi).

Il suo agente Nan Collins (che è passato alla storia del cinema solo per essere stato agente di Cooper) gli cambiò il nome in Gary, una sorta di omaggio alla città, allora un paese dell’Indiana, dove nacque l’attore. Dopo numerose volte che, come dice il critico René Jordán, “galoppava verso la macchina da presa, guardava i suoi possibili spettatori per poi cadere da cavallo”, Gary Cooper “mi è entrato nell’occhio”, come disse il produttore Sam Goldwyn, quando decise di affidargli un ruolo importante, dopo essere stato protetto da un’altra donna, la sceneggiatrice Frances Marion (Gary Cooper è sempre stato favorito dalle donne, nella vita reale e in quella sullo schermo).

Il suo vero debutto fu ne L’ultimo fuorilegge, dove divise la scena con la voluttuosa e fatale Thelma Todd e - sorpresa! - con William Powell, che era soltanto un bandito. Da cowboy si trasformò in playboy ne I figli del divorzio, una pellicola lacrimevole come una cipolla, girata in maniera molto rapida, come si doveva fare con i 18 quadri al secondo del cinema muto. Cooper durante il film ebbe una relazione con la compagna di scena, la piccante Clara Bow, mentre il regista Frank Lloyd, meno romantico, dichiarò: “Farò di Cooper una stella anche se dovrò spezzargli la schiena”. Ma fu il regista Joseph von Sternberg (più avanti) a terminare la pellicola, con l’altissimo Cooper atterrito dal piccolo Sternberg. Gary si trovava molto meglio con un’altra piccola star, Clara Bow, con la quale ebbe un’intensa storia d’amore, ai tempi del cinema muto. Fu proprio la Bow a introdurlo nella pellicola successiva, un’opera maestra diretta da William Wellman intitolata Ali. Cooper appariva e scompariva con la stessa velocità, ma il suo rapido passaggio bastava a far intuire doti da attore e faceva capire che avrebbe potuto dimenticarsi dei motivi per cui era venuto a Los Angeles, visto che il suo sogno non era Hollywood ma quello di fare il caricaturista in un giornale nazionale.


Cooper aveva cominciato con il grande Ronald Colman e con le stelle del muto Vilma Bankly, Richard Arlan e Antonio Moreno. Interpretò It insieme a Clara Bow, una donna che si innamorò perdutamente di lui, poi fece Beau Sabreur, emulo di Beau Geste, titolo che fu uno dei suoi grandi successi nella versione parlata del 1939. (In Beau Sabreur, Cooper aveva un nome da vino: Henri de Beaujolais). Subito dopo interpretò The Shopworn Angel. Nella versione parlata del 1938 la star era il suo epigono e amico James Stewart. Parlando di epigoni, senza Gary Cooper non sarebbe esistito James Stewart, ma non ci sarebbero stati neppure Henry Fonda e molti giovani attori laconici fino a Clint Eastwood. L’imitazione del modo di camminare di Gary Cooper è tipica degli attori molto alti, che sono obbligati a muovere le gambe come se avessero difficoltà di movimento, ma al tempo stesso identificano uno stile. Un critico arguto, Juan Cueto, racconta di aver visto diverse volte Mezzogiorno di fuoco solo per veder camminare Cooper!

Il suo gran momento giunse con L’uomo della Virginia, basato sul romanzo omonimo di Owen Wister, un classico del western come libro, film e serie televisiva. Cooper gioca a carte contro il bandito Trampas (interpretato da quel grande attore che fu Walter Huston, padre di John e nonno di Anjélica) che compie una cattiva mossa e dice una brutta parola riferita all’avversario. Cooper per tutta risposta pronuncia appena un brusio nella sua prima pellicola (mal) parlata: “Quando vuoi chiamarmi così, sorridi”. La pellicola è piena di mormorii e di musica che Cooper varia e interpreta secondo uno stile che si sta formando. Gary Cooper aveva già depurato la sua tecnica fino a raggiungere uno stile che gli permetteva di recitare per la macchina da presa e di mormorare al microfono. Tutti i suoi primi registi si disperavano perché non solo non vedevano Cooper recitare, ma soprattutto non comprendevano quel che diceva. Se si guardava Cooper dalla sedia del regista sembrava di vedere un attore che non recitava. Era grande la sorpresa quando a fine giornata si analizzava il materiale girato e ci si rendeva conto che Gary Cooper, senza aver mai frequentato una scuola di recitazione e meno che mai il teatro, dava vita a una vera e propria scuola per interpretare eroi laconici. Dopo ci hanno spiegato che il suo stile erano i suoi occhi e il regista Anthony Mann ha elaborato la “teoria degli occhi chiari”, che sembrava una recita in lingua inglese di quei versi che dicono “occhi chiari, sereni” - riferiti ovviamente a uomini, quasi tutti i maschi del cinema e tanti altri epigoni: James Stewart, John Wayne, Burt Lancaster, Henry Fonda, Paul Newman, Charlton Heston e Peter O’ Toole. Dopo, come sempre, Howard Hawks farà sua questa teoria ariana (con un giudeo nel mezzo, Paul Newman) e la limiterà agli occhi azzurri, dimenticando che uno dei suoi attori preferiti fu un uomo dagli occhi scuri come Cary Grant, in origine chiamato Archibald Leach. (lo pseudonimo Cary, badate bene, viene da Gary).


A questo punto arriva Marocco e anche Marlene Dietrich. Nella sua prima pellicola a Hollywood, diretta da Joseph, allora ancora conosciuto come Josef, von Sternberg - originariamente chiamato Joe Stern. In Marocco Marlene Dietrich è una divoratrice di uomini e Gary Cooper è, per la prima volta nella sua carriera, un tombeur de femmes, come è stato nella vita reale. Nel suo cuore ci sono state Clara Bow e subito dopo Lupe Vélez, detta The Mexican Spitfire, appellativo usato per indicare una riserva di caccia inglese negli anni Quaranta. Solo che Lupe era messicana e preparava la guerra da sola. In Marocco, Cooper (un legionario le cui amanti sono una vera e propria legione) fa innamorare Marlene Dietrich che alla fine decide di seguirlo nel deserto, per mettersi comoda si toglie le scarpe e corre scalza sulla calda rena, che a mezzogiorno sarà stata incandescente. Non importa: brucia molto di più la passione.

Marlene Dietrich

City Streets (Le vie della città) fu diretta dal famoso regista armeno Rouben Mamoulian, ma è stata scritta da Dashiell Hammett, l’autore de Il falcone maltese, The Maltese Falcon, girata due volte negli anni Trenta e rifatta nel 1941 da John Huston, con Humphrey Bogart. Ma l’attore ideale per incarnare in “diavolo biondo” che era Sam Spade fu proprio Gary Cooper. Bogart non è mai stato alto e biondo né le donne impazzivano per lui. Gary Cooper, al contrario, ebbe numerosi legami legali e molte donne come amanti, quasi tutte attrici che vanno da Clara Bow a Grace Kelly, quando era già anziano. Quella che King Vidor definì “la sua reticenza naturale” rappresentava un valore aggiunto per la sua elegante bellezza. Per caso in un’altra pellicola diretta da King Vidor, The Fountainhead, ebbe come compagna Patricia Neal, una delle donne più attraenti ma al tempo stesso più elusive di Hollywood. La loro storia d’amore durò il tempo di girare un’opera maestra attaccata dai critici con forza dinamitarda. In realtà la vera dinamite fu Patricia Neal che con la sua presenza fece traballare il matrimonio di Cooper. Gary non divorziò perché la moglie Rocky era cattolica praticante e rifiutò la separazione. Era religiosa ma pure rabbiosa…


Il suo amico Ernest Hemingway (si erano conosciuti dopo che Cooper era stato l’eroe hemingwayeano in Addio alle armi, quasi un addio alle anime visti i diversi e controversi finali). Ma Hemingway, nonostante tutto, diceva che era la miglior pellicola mai realizzata da una sua opera. (Si sbagliava EH - la miglior pellicola fu Gli assassini, basata su uno dei suoi racconti più riusciti). Cooper si recò a far visita a Hemingway nella sua fattoria dell’Avana e andarono spesso a caccia insieme a Idaho. Durante la sua ultima visita all’Avana aveva un volto gonfio che sembrava aver perso l’antica bellezza. Non era per colpa dell’età, ma di un’operazione estetica mal riuscita. In ogni caso fece ancora due o tre film perché la sua vita era recitare. Cooper creò un canone che è stato seguito da molte star maschili e con il suo naturale talento cinematografico è stato capace di recitare senza aver fatto teatro né aver studiato in nessuna accademia. Era nato per il cinema: la sua economia di gesti e le sue poche parole erano ideali per il grande schermo. Come le sue molte donne, la macchina da presa lo amava.

Tra le sue pellicole possiamo elencare una grande quantità di opere maestre. Prima tra tutte Mr. Deeds Goes to Town di Frank Capra, pellicola con la quale il piccolo regista e l’altissimo attore hanno creato la commedia sociale. Ne L’ottava moglie di Barbablù (sono moltissimi i suoi titoli che comprendano la parola donna) di Ernst Lubitsch - il genio austriaco della commedia -, recita insieme alla straordinaria attrice Claudette Colbert un soggetto sceneggiato da Billy Wilder (la prima di una lunga serie) e interpreta il ruolo di un Don Giovanni che per lui diventerà consueto. The Westerner (L’uomo del West) diretta da William Wyler (da non confondere con Billy Wilder) è stato uno dei suoi migliori western. Meet John Doe (Arriva John Doe), di nuovo per Capra, è un’altra commedia sociale intrisa di satira politica. Il sergente York, diretta da Howard Hawks, è un’opera rilevante, dove Cooper interpretava in maniera originale la biografia del soldato più decorato della Prima Guerra Mondiale. Sempre per Hawks ha realizzato un’altra commedia eccellente, Colpo di fulmine, dove interpretava un professore innamorato di una Barbara Stanwyck, incarnazione del desiderio, su sceneggiatura di Billy Wilder. Ne L’idolo delle folle interpretava Lou Gehrig, uno dei giocatori di baseball più famosi della storia. Gehrig era mancino, a differenza di Cooper, e per creare l’illusione del giocatore mancino Cooper giocava con la mano destra ma la macchina da presa invertiva i suoi movimenti fino a farlo sembrare mancino. Cooper pronunciava in questo film la commovente frase di addio di Gehrig, che avrebbe fatto sua al momento di dire addio al cinema e che rappresenta un omaggio rivolto ai compagni *. Questa pellicola gli valse una delle sue molte nomination agli Oscar, che vincerà due volte, con Il sergente York e Mezzogiorno di fuoco. In Mezzogiorno di fuoco sembrava invecchiato prima del tempo, ma la sua recitazione era più eroica e meno laconica rispetto ad altri western. La sua tragica determinazione nel voler liberare il paese di cui era stato sceriffo diventava un confronto tra Cooper e la morte imminente per mano di un fuorilegge uscito dal carcere dove lo steso Cooper lo aveva rinchiuso. Di nuovo insieme a Wilder, questa volta come sceneggiatore e regista, in Arianna, interpretava un Humbert Humbert per una Lolita romantica come Audrey Hepburn ed esibiva una collezione di amanti come aveva avuto nella realtà. Un anno prima aveva finito di interpretare La legge del signore per il suo vecchio amico William Wyler. Un pugno di polvere lo vedeva recitare un ruolo quasi romantico e al tempo stesso crudelmente reale, come uomo che ben oltre l’autunno della sua vita incontrava la primavera dell’amore in Suzy Parker, che era stata una delle modelle più belle della moda internazionale. Gary Cooper interpretò altre pellicole interessanti come Dove la terra scotta, L’albero degli impiccati e Cordura, nelle quali personificava il buon senso di fronte alla follia. Le ultime prove sono soltanto mediocri apparizioni, fugaci cammei, partecipazioni rapide e non rappresentative della sua arte. Il 13 marzo del 1961, poco dopo aver compiuto 60 anni, Cooper, che era diventato un uomo religioso (andò a far visita persino al Papa) consegnò la sua anima al Creatore. Gli attori muoiono mille volte nel cinema ma l’uomo muore una volta sola nella vita.


*La frase pronunciata da Lou Gehrig per il suo addio al baseball e fatta propria da Gary Cooper è patetica perché si tratta di una dichiarazione in articulo mortis: “Mi considero oggi l’uomo più felice sulla faccia della terra”.

(da Cine y sardina, testi di cinema, inedito in Italia)



Traduzione di Gordiano Lupi

venerdì 28 settembre 2012

CDR: rappresentanza civica o controllo politico?


di Yoani Sánchez - 27 settembre 2012
da El País – Blog Cuba libre
(inedito in Italia)


Il minestrone cucinato nel pentolone con legna raccolta da alcuni vicini, le bandierine attaccate in mezzo al quartiere e le grida di Evviva! quando arriva la mezzanotte. Un rituale che si ripete con minore o maggiore entusiasmo ogni 27 settembre per tutta l’Isola. Vigilia del cinquantaduesimo anniversario della fondazione dei Comitati di Difesa della Rivoluzione, i media ufficiali si impegnano a commemorarlo, un tema musicale cerca di infervorare chi fa parte dell’organizzazione, mentre si rispolverano vecchi aneddoti di gloria e di potere. Ma al di là di certe formalità, che si ripetono identiche ogni anno, si percepisce che l’influenza dei CDR nella vita dei cubani è sempre minore. Sono lontani i tempi in cui tutti eravamo cederistas e i cartelli - che raffigurano un uomo brandendo il machete - erano ancora intatti sulle facciate di alcune case.

In un periodo di totale scomparsa del loro protagonismo, vale la pena chiedersi se i comitati sono stati un modo per trasmettere il potere verso la cittadinanza o una rappresentanza di questa nei confronti del governo. I fatti lasciano spazio a pochi dubbi. Da quando furono creati nel 1960, ebbero una base eminentemente ideologica, marcatamente delatoria. Lo stesso Fidel Castro assicurò durante il discorso in cui annunciava la loro nascita: “Andremo a costituire, per controbattere le campagne di aggressione dell’imperialismo, un sistema di vigilanza collettiva rivoluzionaria, perché tutti sappiano l’identità dei loro vicini, quali rapporti abbiano con la tirannia, quali siano le loro attività e amicizie.


Quelle parole del Leader Maximo adesso sono difficilmente reperibili in forma integrale, nei siti web e nei periodici che circolano a Cuba. In parte perché, anche se sono uomini del Comandante en Jefe, gli attuali editori di questi spazi sanno che un simile linguaggio stona non poco nel secolo XXI. Ossia, quello che poteva sembrare una fervente frase rivoluzionaria pronunciata dal balcone del Palazzo Presidenziale, al giorno d’oggi si presenta come un discorso dispotico e autoritario. Un Big Brother annunciato e compiuto. Se quelle parole produssero esaltazione nei primi anni Sessanta... adesso sono capaci solo di provocare un mix di terrore, repulsione e vergogna.

Il lato più dolce dei CDR, quello che viene sempre presentato nelle notizie ufficiali, parla di una forza popolare che si occupa di raccogliere materie prime, aiutare nelle vaccinazioni infantili, promuovere le donazioni di sangue e proteggere i quartieri dalla delinquenza. Detto così, il CDR sembra un apolitico comitato tra vicini di casa preposto a risolvere i problemi della comunità. Credetemi, dietro questa facciata di rappresentatività e solidarietà si nasconde un meccanismo di vigilanza e repressione. E non lo dico stando seduta alla mia scrivania, come non sono le parole di un turista che trascorre due settimane all’Avana. Sono stata tra quei milioni di bambini cubani che hanno raccolto bicchieri vuoti o cartoni, tagliato l’erba e distribuito prodotti contro le zanzare nei CDR di tutto il paese. Sono stata anche tra i vaccinati contro la poliomelite e ho degustato persino qualche piatto di minestrone durante le feste di quella organizzazione. Sono cresciuta come una piccola cederista, ma quando sono diventata adulta mi sono rifiutata di militare tra le fila del CDR. Ho vissuto tutto questo e non me ne pento, perché adesso posso dire a ragion veduta che tutte le cose positive diventano niente di fronte a ingiustizie, delazioni, controlli e maltrattamenti che milioni di cubani hanno dovuto subire dai cosiddetti comitati.


Parlo di tanti giovani che non poterono accedere all’università, negli anni di maggior estremismo ideologico, a causa di un cattivo giudizio riferito dal loro presidente del CDR. Era sufficiente che nel corso di una verifica, fatta nel centro scolastico o lavorativo, qualche cederista dicesse che quella persona non era “abbastanza combattiva” perché non fosse accettato a svolgere un lavoro migliore o a iscriversi in una facoltà universitaria. Furono proprio queste organizzazioni di quartiere a organizzare con maggior forza i vergognosi meeting di ripudio messi in atto nel 1980 contro i cubani che decisero di emigrare dal porto di El Mariel. E anche oggi risultano la base principale degli atti repressivi contro Damas de Blanco e altri dissidenti. Non hanno mai funzionato come forza per unire e riconciliare la società, ma come un ingrediente fondamentale per esacerbare la polarizzazione ideologica, la violenza sociale e la creazione di odio.

Ricordo un giovane che viveva nel mio quartiere di Cayo Hueso, aveva i capelli lunghi e ascoltava musica rock. Il presidente del CDR gli rese la vita difficile e lo accusò di molte atrocità solo perché lui si voleva mostrare come era. Alla fine venne arrestato per “pericolosità sociale”. Oggi, quella persona così intransigente vive con sua figlia nel Connecticut, dopo aver difeso il prestigio del mio quartiere e aver tartassato ideologicamente un sacco di persone. Inoltre so che diversi grandi negozianti del mercato illegale assumono qualche incarico nei comitati per usarlo come paravento delle loro attività illecite. Al tempo stesso facevano parte del “fronte di vigilanza” ed erano anche i più grandi rivenditori illegali di sigari, benzina o alimenti della zona. Salvo rare eccezioni, non ho conosciuto persone eticamente raccomandabili che dirigessero un CDR. Al contrario, di solito erano individui in preda a basse passioni: invidia per chi se la passava un po’ meglio, risentimento per chi era riuscito a costruire una famiglia armoniosa, odio per chi riceveva rimesse dai parenti che vivevano all’estero, rancore per chi esprimeva opinioni con sincerità. Proprio la carenza di valori e l’accumulazione di rancori, oltre alla mancanza di sincerità, hanno fatto cadere in disgrazia i CDR.


Perché la gente è stanca di nascondere la borsa dagli sguardi del vicino delatore che osserva dal balcone. La gente è stanca che davanti alla propria casa il decrepito cartello con una figura minacciosa che brandisce il machete sia la causa principale della propria mancanza di libertà. La gente è stanca di avere a che fare con un’organizzazione che quando serve si mette dalla parte del padrone, dello Stato, del partito. La gente è stanca di 52 anniversari, uno dopo l’altro, come un usurato deja vú da incubo. E il modo di esprimere questa stanchezza è una frequenza molto ridotta alle riunioni dei CDR, non facendo le guardie notturne per “pattugliare” gli isolati, persino evitando di mangiare il - sempre più insipido - minestrone della notte del 27 settembre.

Se ci sono ancora dubbi sui motivi di stanchezza delle persone, torniamo allo stesso discorso di Fidel Castro durante quella giornata del 1960, quando rivelò sin dal primo momento l’obiettivo della sua turpe creatura: “Andiamo a costruire un sistema di vigilanza collettiva. Andiamo a costruire un sistema di vigilanza rivoluzionaria collettiva!”


Traduzione di Gordiano Lupi

lunedì 24 settembre 2012

Virgilio Piñera: tra vita e letteratura

di Antón Arrufat

Questo breve saggio di Antón Arrufat - grande amico del poeta - è l’introduzione alla raccolta completa dell’opera poetica di Virgilio Piñera, che ho appena finito di tradurre e che conto di rendere disponibile quanto prima in forma gratuita, grazie a un e-book scaricabile da Internet. (Gordiano Lupi)


Per molti anni Virgilio Piñera fu considerato un drammaturgo. La sua celebrità letteraria riposava, e ancora riposa, nelle sue pieces teatrali. Altri aspetti della sua creazione artistica continuavano a essere ignorati o evitati dalla critica e dai lettori. A Cuba si pubblicò una parte della sua opera narrativa nei primi anni Sessanta, mentre l’autore era in vita, in Spagna dopo la sua morte l’editoriale Alfaguara editò i suoi tre romanzi e due volumi di racconti, mentre all’Avana si dette alle stampe la prima edizione cubana del suo romanzo La carne de René, esaurita in pochi mesi. Nonostante tutto questa parte della sua scrittura continua a essere parzialmente ignorata. Neppure la considerazione critica, senza dubbio molto scarsa, è riuscita ancora a rimuovere la sua immagine parziale di drammaturgo.

A questa situazione dobbiamo aggiungere la totale mancanza di conoscenza che ha sepolto la sua poesia. Lo stesso Piñera ebbe in questa ignoranza la sua parte di responsabilità. Durante gli anni della maturità non si mostrò interessato a pubblicare le sue poesie. Non fu così in gioventù, quando, al contrario, si presentò al pubblico - fondamentalmente - come poeta. La poesia rappresentava il centro delle sue preoccupazioni. Scriveva critica di poesia, si occupava delle opere dei poeti contemporanei, discuteva e teorizzava. Il primo dei suoi libri, Las Furias, del 1941, fu un quaderno di poesie. Ma in un periodo, che non è facile stabilire, cominciò a perdere interesse per la poesia. O meglio, perse interesse a pubblicarla. Non accadde improvvisamente, ma lentamente. Il suo racconto El conflicto, uno dei racconti più lunghi che scrisse, apparve lo stesso anno de Las Furias. Tre anni dopo riunì in Poesia y prosa una serie di racconti e poesie, ma la maggior parte delle pagine erano in prosa. Più avanti realizzò la sua prima rappresentazione teatrale Electra Garrigó; scrisse altre due pièces teatrali, En esa helada zona e Jusús, e ne pubblicò un’altra, Falsa alarma, nel 1949, in due numeri della rivista Orígines. Tutta questa attività estranea alla scrittura poetica la resa pubblica con una certo fastidio, come sempre accadeva quando si trattava di divulgare la sua opera scritta, elemento ulteriore della sua personalità paradossale. Piñera si preoccupò soprattutto di scrivere, lavorò febbrilmente durante i suoi sessantasette anni di vita, senza preoccuparsi troppo di far conoscere quanto scriveva. Alla sua morte furono trovate diciotto casse di manoscritti inediti.


Questo fastidio per la pubblicazione può essere dovuto a vari fattori esterni. Piñera era povero e non aveva un salario stabile. Non poteva pagarsi le edizioni, come facevano altri scrittori cubani. Molte volte, in seguito, parlò della sua povertà. La continuità della sua rivista Poeta era direttamente proporzionale al numero dei suoi vestiti. Quando nel suo armadio non gli restarono vestiti da vendere o da impegnare, la rivista chiuse. In totale, due vestiti per due numeri di Poeta. Le sue opere, una volta terminate, dovevano attendere tre o quattro anni per essere pubblicate. In quell’epoca all’Avana non c’erano case editrici, esistevano solo diverse stamperie che si occupavano di imprimere alcuni libri dietro pagamento da parte dell’autore. A questi fattori deve aggiungersi il più importante: la personalità di Piñera. Alcune divergenze con gli intellettuali e il suo modo d’intendere la letteratura lo portarono ad allontanarsi da alcuni centri letterari del periodo storico: prima dal gruppo Espuela de Plata, poi da quello Orígines. Povero ed eccentrico, restò solo. In fondo era quel che voleva e che aveva sempre cercato. Perse - o non volle mai avere - l’aiuto economico di Rodríguez Feo, che sovvenzionava i costi della rivista Orígines e della sua casa editrice.

Forse queste difficoltà contribuirono al suo abbandono o finirono per creare in lui la consapevolezza di non poter pubblicare i suoi scritti. Molti anni dopo, quando Piñera si trovò alla guida di una vera casa editrice, Ediciones R., nel 1960, non mise in catalogo nessuna sua opera. Solo dopo lunghe insistenze da parte di Cabrera Infante, alla fine si decise a raccogliere il suo teatro in un volume, che uscì proprio nel 1960. Fui il suo dattilografo. A volte, originale in mano, smetteva di dettare e chiedeva sconfortato: “Ma credi che saranno pubblicati davvero?”. Poi si rianimava e tornava a dettare.


Le sue poesie soffrirono questo fastidio per la pubblicazione, ma ci fu anche un problema più grave: con il tempo la sua poesia si trasformò in un fatto strettamente personale, non solo rifiutò di diffonderla in pubblico, ma smise persino di leggerla agli amici. Non parlava mai di poesia. Non confessava mai: “Ho finito di scrivere una poesia”. E nonostante questo, continuò a scrivere poesia fino alla fine. All’interno delle diciotto casse sono state ritrovate conservate centinaia di poesie. Molte pagine sono puri tentativi, esperimenti falliti, abbozzi, ricerche, altre sono composizioni terminate e riuscite. Tutta questo dimostra che, nonostante dubbi, rivalità e difficoltà per pubblicare, Piñera non rinunciò mai a esercitarsi nella poesia.

A questo aspetto dobbiamo aggiungerne un altro ancora più complesso. Forse per colpa della sua alta considerazione per la poesia e per il mestiere di poeta, le sue poesie gli sembravano troppo imperfette e, una volta terminate, non gli interessavano più. Oppure gli producevano quel singolare fastidio che in un poeta diventa irrevocabile, e lo porta a condannare ciò che scrive. Un fatto è certo: la sua volontà di scrivere poesia diversamente da quella della sua epoca, sentimentale o lezamiana, poneva a dura prova le sue forze. Era solito dire che spesso quella grande tensione verso il nuovo gli faceva “rompere le stoviglie”. Nel 1968, dopo ripetute richieste da parte di Rodríguez Feo, acconsentì a raccogliere ne La vida entera le poesie che aveva pubblicato in gioventù e un esiguo numero di inediti, scritti successivamente. Piñera non smentì la sua personalità e procedette a compilare una breve nota introduttiva dove dichiara pubblicamente di non considerarsi un poeta vero e proprio, ma solo “un poeta occasionale”. Come dire, in sintonia con il suo concetto di poesia, scriveva poesie di circostanza come i versi di Victor Hugo a sua nipote, quelli di Mallarmé al ventaglio della sua donna, o quelli che adornavano le cartoline che inviava Luisa Pérez de Zambrana.


Sono queste poesie circostanziali l’opera di un poeta occasionale?

Letti certi testi teorici di Piñera, le sue critiche ai poeti, i suoi articoli come “Terribilia meditans”, “Erística sbre Valéry”, o “Poesía cubana del XIX”, il poeta occasionale, di cui si sente un esempio, si contrappone al poeta concentrato. Come dire che Piñera avverte il pubblico che in se stesso soffre il difetto (carenza di concentrazione) che trova in diversi poeti cubani.

Ma la breve nota introduttiva è tipica di Piñera. Con identica ironica modestia ripete le stesse cose nel prologo alla raccolta delle sue pièces teatrali, dove qualifica la sua opera di drammaturgo, che senza dubbio in quel periodo era la più conosciuta e apprezzata, come una quasi opera, e lui stesso si presenta come un quasi drammaturgo. Viene da chiedersi se si tratti di modestia, di rigore, oppure se sia solo un gesto elegante, una strategia, addirittura una sorta di disprezzo verso se stesso e verso il lettore. A mio parere sono tutte queste cose insieme.


Virgilio Piñera dubitava del valore della sua opera poetica? A questa domanda, dopo la sua morte, possiamo rispondere solo con speculazioni. Per noi solo una cosa è certa, chiara, definitiva e tangibile, davanti alla sua abbondante scrittura poetica: in silenzio, nell’ombra, quella dolce ombra che tanto si compiaceva di citare perché gli ricordava l’osservazione fatta da Gautier nei confronti del prediletto Baudelaire, continuò a lavorare il verso. Il poeta che era in lui non gli vietò di accedere alla velleitaria poesia. E l’obiezione che faceva a un gruppo importante di poeti cubani, per Piñera carenti di concentrazione, restò latente nel suo animo. Nell’ultimo periodo della sua vita, non scrisse poesie isolate, ma lavorò con la maggior concentrazione possibile a un libro di poesia, dove ogni parte rappresentava la somma dell’insieme. Una broma colosal, comparve tra le sue carte postume, con oltre cinquanta testi, come esempio di ciò che predicava.

In un primo periodo, la sua scrittura fu segnata da un certo disincanto per il valore della letteratura, che lo portava a diffidare della poesia e del poeta: posizione critica di fronte all’artificio e alle falsità verso cui porta un eccessivo atteggiamento letterario di fronte alla vita. Espressione cosciente di questa posizione sono i suoi eccellenti Ah, del hotel e Poema para la poesía, entrambi del 1944, suoi saggi di questa epoca; ma ugualmente si esprime, in un piano più segreto, nella narrativa e nei primi lavori teatrali. Il conflitto tra vita e letteratura, lacerante in Piñera, si manifesta nell’apprezzamento del corpo umano prima ancora dell’anima, della realtà senza ornamenti e della ricerca del movimento vitale prima delle considerazioni etiche, religiose e filosofiche, ma anche in un’espressione letteraria concorde con questa idea: linguaggio scarno e quasi colloquiale, sfilata allucinante di luoghi comuni e frasi fatte, aggettivazione neutra, assenza di descrizioni subliminali del paesaggio.


Nonostante tutto, questo dualismo tra la vita e la letteratura subisce negli ultimi anni della sua desolata vecchiaia - quando scrive la maggior parte dei testi di Una broma colosal - una leggero cambiamento. Il piano adesso sembra pendere verso la letteratura, verso il recupero del suo valore, quando prima, al contrario, sembrava inclinato verso il valore della vita. Nelle poesie scritte durante gli anni Settanta, nonostante l’ironia graffiante e il sarcasmo che le pervadono come una paradossale lama gelida, risulta evidente che Piñera ha cambiato idea: l’artista si inserisce nella sua opera come creatore supremo di qualcosa di decisivo per l’uomo. Anche se mutilato, detestato, ma comunque efficace, resta il decifratore dell’irrealtà, come lui stesso direbbe, colui che si separa dal reale. La sua scrittura, nonostante i diversi generi impiegati e le cui frontiere a volte scompaiono, si chiude in una sintesi di piena consapevolezza con l’integrazione di entrambi i poli del dilemma. O meglio: con la sua fusione in un’unità, nella quale si annullano come entità antinomiche.

Virgilio Piñera non è soltanto il narratore e il drammaturgo che conosciamo, che in ogni caso conosciamo meno di quel che crediamo di conoscere, ma è anche un altissimo poeta, uno dei grandi poeti latinoamericani. Della cosiddetta generazione di Orígines, Lezama Lima e Piñera costituiscono le intelligenze più originali. E risulta curioso che chi, come Piñera, appena pubblicò la sua poesia, si rifugiò nell’ombra, lasciando campo libero a Lezama, suo grande antagonista, e forse morì dubitando del suo valore, compaia oggi - e per sempre - insieme a Lezama, equiparato al grande poeta di Enemigo rumor. Incostante la poesia. Imprevedibili le conseguenze delle valutazioni che facciamo di un poeta sconosciuto.


*

Negli ultimi anni della sua vita, presentendo l’imminenza della morte - senza che una sofferenza quotidiana glielo facesse supporre -, presentimenti che adesso si scoprono nelle ultime poesie, lettere e racconti che scrisse, Virgilio Piñera predispose diversi suoi libri per la stampa.

In Una broma colosal raccolse le poesie del suo ultimo periodo. La maggior parte furono scritte dal 1969 al 1979, data della sua morte. Tra loro solo una, El hechizado, sonetto dedicato a Lezama Lima, non è inedita. Il resto è rigorosamente inedito, e rappresenta lo stadio finale raggiunto dalla sua poesia.

Il titolo Una broma colosal è dell’autore. Non è stato deciso da chi ha organizzato la raccolta. Abbiamo scelto, Luis Marré e io, alcuni versi delle sue stesse poesie per assegnare titoli mancanti alle liriche, cercando di farlo con i versi che a lui sarebbe piaciuto scegliere: i più disinvolti e i meno letterari.

L’organizzazione segue l’ordine cronologico. Il poeta aveva - per fortuna - l’abitudine di datare le sue poesie. Le poche liriche prive di data, sono state collocate, per somiglianza di tono o colore della carta, nel posto dove compaiono.

Ho realizzato con gli originali che lui mi consegnò, con quelli posseduti da Abilio Estévez e con quelli che donò la famiglia alla Biblioteca Nazionale, un minuzioso confronto.

Offro al pubblico la versione più lavorata, quella di data più recente, che è, quasi sempre, quella che il poeta lasciò nelle mani di Estévez o nelle mie.

Includo soltanto due poesie (1) di redazione anteriore: El león, del 1944, e Aire mallarmeano, del 1951, che Virgilio Piñera non inserì nelle sue raccolte pubblicate, ma si trovavano tra i suoi originali, forse per caso. Di stile e intonazione diverse al resto delle poesie che compongono il presente volume, se il lettore conosce l’opera poetica di Piñera, saprà collocarle nel loro giusto luogo storico.



(1) Questi due testi compaiono in questa edizione de Il peso di un’isola, nella sezione Poesie scomparse, restituendoli al complesso di poesie di simile contesto.


*

Avvertiamo il lettore che questa raccolta non è esaustiva. Abbiamo rispettato la selezione che lo stesso Virgilio Piñera realizzò della sua poesia. Riproduciamo i libri La vida entera e Una broma colosal, così come lui li compose, il primo in vita e il secondo alcuni mesi prima di morire. Le poesie che disconobbe espressamente (si veda il suo articolo Cada cosa en su lugar - Ogni cosa al suo posto, Lunes de Revolución, dicembre, 1959) come La muerte del danzante, elogiata da alcuni critici distratti, non trovano posto in questa raccolta. Nella sua nota a La vida entera, l’autore fa riferimento a un limitato numero di poesie che, secondo quanto afferma, sarebbero andate perdute o lui stesso le avrebbe fatte sparire, e che, tra quelle, ne lascia, nonostante tutto, un modesto numero alla voracità dei suoi biografi. Visto che abbiamo trovato queste poesie, e anche altre, stampate in Espuela de Plata e Clavileño, integriamo l’ultima sezione di questo libro sotto il titolo, naturalmente, di Poemas desaparecidos - Poesie scomparse. Nonostante le nostre ricerche, non osiamo garantire che in quelle diciotto casse non si trovino molte altre poesie. Le lasciamo alla voracità dei futuri editori di Piñera.

Antón Arrufat


   Raccolgo qui le opere poetiche scritte tra il 1941 e il 1968. Quelle degli anni precedenti (1935 -1940) o sono perdute o le ho fatte sparire io stesso. Non tutte. Restano alcune poesie che lascio alla voracità dei miei biografi. Tre di loro furono pubblicate (1). Il resto è in mie mani.

   Sebbene non ritenga che questo libro rappresenti un peso morto nell’economia della mia opera di scrittore, devo ribadire che mi sono sempre considerato un poeta occasionale. Con questo giudizio mi limito ad anticipare i miei possibili lettori.

   Cosa giustifica questa edizione delle mie “poesie”? Per fare in vita quel che da morto non potrei fare: mettere ordine. Lasciamo la nostra casa in ordine prima di chiudere, per l’ultima volta, le sue porte.


Virgilio Piñera

sabato 22 settembre 2012

La settimana di Virgilio Piñera

Passando la settimana





Per Fina Ibañez



1



Il mare è come un piatto.

È lunedì. Fatti un ritratto.

che non assomigli per niente

al tuo volto afflitto.

Quando finirà questo giorno morto,

ad accogliere disponiti un martedì incerto.



2



Oggi non ti fare il ritratto:

il mare è furibondo:

in ogni martedì il mondo

assomiglia al tuo ritratto.

Un mondo indeterminato

dove solo ci sono impiccati.



3



Passa il mercoledì cantando,

non cucinare e non ti stancare;

sotto la pianta di mango

beviti una limonata.

Lascia che il martedì, senza fretta,

si vada facendo cenere.



4



Il giovedì fai quel che ti pare.

È un giorno che non esiste.

Soltanto lo chiamano giovedì.

Galleggia nel giorno, silenziosa.

Non sei niente, quasi niente.



5



Il venerdì viene illuminando

il sabato. Fai in fretta.

Lava e stira il tuo vestito.

Stai attento non fare a pezzi

il tuo sogno riparatore, perché…



6



Il sabato è splendore,

amici, frullato e risa.

Il sabato si discorre

sotto piante rampicanti:

così passeranno le ore.

Celebrerai la messa

del pittore e dello scrittore.

Il sabato è splendore,

amici, frullato e risa.



7



Finale del fine settimana.

Come un soffio questa domenica

se ne andrà.

Appena tempo ci sarà

per scambiare due parole.

Ce ne andiamo con la domenica.

Dove ci vorrà portare

nella fuga delle sue ore?

Ma al lunedì, mia signora,

già il lunedì sta per cominciare.



(1976)

Poesia inedita di Virgilio Piñera, scritta tre anni prima di morire. Traduzione di Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi

venerdì 21 settembre 2012

Congedo

Virgilio e Fidel: non c'è mai stato amore


Se vuoi confessarmi ti lascio fare

ma così tante cose ti dirò che supplicando

mi chiederai di non andare avanti in tanto orrore.

La mia bocca ti dirà che in teneri anni

il dolore cominciò a fare il suo letto

in questa carne che ora si congeda

dallo scenario dove si improvvisano

i nostri atti, scritti nel libro

indecifrabile e vacuo dei sogni

le cui pesanti pagine un dito,

lento e glaciale volta implacabile,

fino a che nausea e tempo ci consumino.


Virgilio Pinera, da Poesie Scomparse, lirica del 1945

mercoledì 19 settembre 2012

Votare o non votare


di Yoani Sánchez
da http://blogs.elpais.com/cuba-libre/


In questi giorni a Cuba stanno per cominciare i comizi municipali per eleggere i delegati al Potere Popolare. I media ufficiali ci ripetono che “questa la migliore democrazia del mondo” e che è il momento scegliere tra noi “i più capaci”. Le strade si riempiono di cartelloni che alludono al tema e in ogni quartiere vengono resi pubblici gli elenchi dei candidati. L’atmosfera risulterebbe simile a quella di qualsiasi altro paese durante il periodo in cui vengono nominati i rappresentanti di zona, se non fosse per dettaglio importante: non esiste nessuna aspettativa che questo processo possa influire sulle incalzanti problematiche nazionali. Nessuna possibilità che produca un cambiamento.

La macchina elettorale cubana è del tutto bloccata. Gli abitanti di ogni zona votano per una biografia e una foto, ma non hanno diritto a chiedere al probabile delegato di circoscrizione la sua opinione su determinati problemi. In pratica, mettiamo un voto dentro un’urna senza sapere se il candidato sia favorevole o contrario ad ampliare il lavoro privato, se preferisca eliminare o mantenere le restrizioni migratorie e neppure se ritenga giusto prolungare o accorciare il Servizio Militare Obbligatorio. La stessa Legge Elettorale precisa che non si possono fare campagne politiche, quindi la popolazione può solo decidere in base alla biografia e al ritratto che preferisce.

Da qui derivano situazioni assurde come quella di indicare nella scheda un determinato nome perché ha l’aspetto della brava persona, oppure perché si è laureato come ingegnere e questo indica la sua laboriosità. Ci sono persone che scelgono un candidato con tre figli perché il fatto di essere padre o madre dovrebbe garantirne l’onestà. Altri ancora optano per un rappresentante perché l’hanno incontrato qualche volta al mercato. Il risultato finale è che quei delegati di quartiere che un giorno occuperanno un seggio nell’Assemblea Nazionale voteranno all’unanimità tutte le leggi che saranno presentate. E mai, dico mai, oseranno proporre il benché minimo cambiamento.

Traduzione di Gordiano Lupi

venerdì 14 settembre 2012

I ladri di sabbia di Coral Spring



di Flavio Bacchetta
flaviojamaica@cwjamaica.com
da Falmouth (Giamaica)



Una mattina di luglio, i pescatori di una piccola comunità giamaicana si svegliano con una sorpresa: cinque chilometri della loro «spiaggia d'argento» non esistono più. Chi l'ha rubata? Cosa si nasconde dietro il furto? E chi l'ha coperto? Un giallo in piena regola, tra «vecchia guardia» locale e nuovi colonialisti.

La Giamaica è, tra le altre cose, terra di misteri e scenario di gialli, la cui soluzione avrebbe scatenato Sherlock Holmes, forse l'unico in grado di risolverli. Uno di questi iniziò nel luglio 2008. Una mattina Coral Spring, piccola comunità di pescatori nella provincia di Trelawny, la cui capitale Falmouth è sede del nuovo sbarco delle crociere caraibiche, si svegliò con un'amara sorpresa: la splendida spiaggia libera di Silver Sand, cinque chilometri di sabbia bianca fine come il talco, era stata quasi interamente svuotata del suo contenuto. Cinquecento tonnellate di arena erano sparite. Pochi testimoni riferirono di aver assistito durante la notte precedente a un traffico frenetico di camion che caricavano e trasportavano via il prezioso materiale. Tutto ciò avveniva a meno di un miglio di distanza dalla locale stazione di polizia, che si era ben guardata dall'intervenire.

Avete una pallida idea del fracasso che deve aver provocato nel cuore della notte un'operazione del genere? Ogni camion può caricare al massimo una tonnellata di materiale. Moltiplicate per cinquecento e provate a immaginare. Di sicuro un'idea precisa doveva avercela Roberto Saviano, quando descrisse in Gomorra un simile andirivieni di mezzi, intenti a depredare la sabbia dalla foce del fiume Volturno, azione che l'impresa camorra perpetrava di continuo, ai fini di utilizzarla insieme al cemento per le sue costruzioni criminali.

Le inchieste giornalistiche

Tornando a Coral Spring, dove prima riluceva la "Spiaggia d'argento" ora rimane solo una triste depressione irta di pietre e ciottoli. Silver Sand faceva parte di un progetto che puntava alla costruzione di un mega resort turistico del valore di 110 milioni di dollari. La cordata imprenditoriale era guidata dai due Mogul della "vecchia guardia" giamaicana: Gordon "Butch" Stewart, inglese di origine, proprietario della catena Sandals, fondatore dell'Air Jamaica, la compagnia di bandiera, e anche editore dell'Observer, uno dei maggiori quotidiani dell'isola; ed Elias Issa, libanese, proprietario dei consorzi alberghieri Grand Lido e Couples.

Solitamente rivali, i due decisero di unire le forze per fronteggiare le nuove joint-ventures straniere del turismo, principalmente spagnoli e dominicani, che costruirono lungo la Giamaica, fin dal 2002, mostruosi complessi alberghieri all-inclusive da un minimo di 3.000 stanze, stile Costa Brava.

Sfruttando spazi della foresta pluviale, i nuovi conquistadores avevano già metastatizzato l'isola caraibica con alberghi presenti da anni in tutto il Centro America; la catena dei Riu, l'Iberostar, Fiesta e l'ultimo nato del gruppo spagnolo Pinero, il Bahia di RunawayBay.

Stewart e Issa avevano affidato il nuovo progetto in comune ai propri figli, denominandolo Coral Spring Complex. I "ladri di sabbia", così facendo, sottrassero ai due "grandi vecchi" il giocattolo per i loro rampolli.

L'Observer di Stewart cominciò, un paio di settimane dopo l'accaduto, a scrivere editoriali accusando compagnie stranieri del furto, senza fare però nomi specifici. Ma fu un settimanale minore, il Sunday Herald, a fare un'inchiesta dettagliata, bruciando la concorrenza del prestigioso Gleaner, il primo quotidiano dell'isola. Dalle denunce del giornale, venne a galla che uno dei dirigenti del gruppo Fiesta, proprietario dell'hotel Gran Palladium e del lussuoso complesso residenziale The Palmyra a Montego Bay, aveva ordinato, ad aprile 2008, 20 mila metri cubi di sabbia marina per le spiagge dei due complessi a una piccola ditta di costruzioni, la Bedrock Building, che aveva iniziato l'attività giusto l'anno prima.

La piccola azienda non era riuscita a completare la consegna nei sessanta giorni previsti dagli accordi contrattuali ed era stata minacciata di azione legale se non avesse portato a buon fine l'ordine. Dai documenti esaminati risultò che la Bedrock aveva consegnato a fine giugno solo tremila dei 20 mila metri cubi promessi, per cui il tempo stringeva per le sorti della giovane impresa.


Cronologicamente era verosimile, agli occhi della legge, che il clamoroso furto coincidesse con il completamento della consegna, per cui un ispettore andò a bussare alle porte dell'ufficio del direttore del Palmyra, mister Costanzo, il quale dichiarò che la direzione aveva deciso di annullare l'ordine di sabbia alla Bedrock dopo aver riscontrato delle irregolarità nella documentazione della ditta fornitrice. Ma intanto, miracolosamente, l'enorme spiaggia del Palmyra appariva completata e pronta per l'uso, per cui l'affermazione del dirigente strideva alquanto con i documenti emersi dall'inchiesta del settimanale.

Non risultò inoltre nulla di scritto sull'annullamento dell'ordine, per cui la polizia ordinò alcune perizie tecniche, prelevando campioni di sabbia dal complesso.

Nel frattempo la Nepa, l'agenzia governativa per la difesa dell'ambiente, compiva rilevamenti ai fini di determinare l'impatto che la scomparsa del litorale avrebbe avuto sulle mangrovie e le foreste adiacenti del Cockpit Country, una piccola Amazzonia ancora vergine nel cuore della Giamaica.


Tre mesi dopo...

Passato il clamore dell'inchiesta iniziale, tutto rientra nei ranghi del quieto vivere caratteristico dello jamaican style. La polizia non ha comunicato ancora i risultati delle perizie sulla sabbia del Palmyra, la cordata Stewart/Issa non ha avanzato ulteriori richieste di accertamenti, ed ovviamente quello che pensa e sostiene l'opinione pubblica giamaicana vale come al solito, cioè meno di zero.

Fino a che il 21 ottobre esce sul Guardian, autorevole foglio londinese, un'intervista al vicecapo della polizia giamaicana, Mark Shields, nella quale sono denunciate evidenti complicità tra le forze dell'ordine a copertura del misfatto di luglio. Il funzionario punta sulla certezza che diversi ambienti criminali si siano mossi per tale operazione: i ricettatori della sabbia rubata, i camionisti addetti al trasporto, fino al committente finale, per cui è impossibile che tutti l'abbiano fatta franca senza che qualcuno negli alti ranghi della polizia abbia chiuso un occhio o meglio entrambi. La notizia è ripresa anche dal nostro Corriere della sera, che dedica ai fatti giamaicani uno spazio nella sezione esteri del suo sito.

Il Gleaner, primo quotidiano nazionale, è costretto a scuotersi dal torpore iniziale e mi telefona chiedendomi di occuparmi della vicenda. Mi reco sul luogo del "delitto" e apprendo da pescatori del posto che un Big Man della Parish (provincia) di Trelawny vicino al sindaco avrebbe coperto l'intera operazione in complicità con la stazione di polizia di Duncan, il paesino che si trova a meno di un miglio da Coral Spring.

«Rumors», semplici pettegolezzi, oppure dati di fatto? Quello che è certo è che Falmouth, il capoluogo di provincia, è in subbuglio da alcuni mesi per la notizia che da lì a tre anni al massimo ospiterà il più importante porto di crociera dei Caraibi dopo Nassau in Bahamas, e nessuno ha l'interesse, né i Big Men né lo small people, a far emergere alla luce uno scandalo che potrebbe bloccare la chance di emancipare una zona degradata come questa dalla sua miseria. E soprattutto mettere a rischio la possibilità, per i pochi benestanti della zona, di potersi arricchire senza freni. Sta di fatto che pochi giorni dopo il Gleaner esce con un suo editoriale di protesta senza però portare nuovi elementi concreti alla luce, e la mia inchiesta rimane sospesa.


Quattro anni dopo...

Nel febbraio del 2011, in seguito alle accuse specifiche della Felicita ltd, l'impresa proprietaria della spiaggia di Coral Spring, i titolari della Bedrock Building, Devon Sterling e Christopher Pryce, vengono arrestati e portati davanti alla Corte di Falmouth. Ma durante il processo il direttore della Felicita è minacciato di morte e ritira l'accusa nei confronti dei due, che sono così rilasciati. Il 3 luglio 2011, tre anni dopo il clamoroso furto, il caso viene nuovamente discusso, stavolta direttamente alla Corte Suprema.

Insieme alla Bedrock, sono chiamati in giudizio il gruppo Fiesta, proprietario del Gran Palladium, il RiuTropical di Negril, il Club Riu di Montego Bay e Palmyra Resort& Spa. Tutti negano le accuse, tranne Fiesta che ammette, davanti all'evidenza delle commesse scritte, di aver ordinato nel 2008 10 mila metri cubi di sabbia alla Bedrock, che conferma.

Da allora il caso è rimasto fermo, anzi "insabbiato". Dov'è oggi la sabbia rubata? Occultata da qualche parte, ammesso che sia possibile nascondere 500 tonnellate di materiale su una piccola isola che scarseggia di magazzini senza dare nell'occhio, oppure molto più semplicemente adagiata sotto le schiene dei turisti nei nuovi paradisi artificiali dell'isola?

Non è di certo la prima volta che una spiaggia libera nei Caraibi è saccheggiata del suo contenuto ai fini della vendita presso i resort turistici; ma un furto di queste dimensioni non era mai stato portato a termine prima.


I nuovi conquistadores

Alla luce dei soliti rumors mormorati nell'ambiente turistico che frequento da 16 anni, sembra che i Grandi Vecchi promotori della cordata di Coral Spring abbiano lasciato cadere le accuse, alla luce di una ricca compensazione elargita dai resort spagnoli.

È la solita storia quaggiù: un'oligarchia di potentati economici, formata dai locali post-coloniali e i "nuovi mostri" stranieri, se la canta e se la suona a piacimento, alla faccia della legge e della cittadinanza. Il loro abbuffarsi intorno alla sempre più esigua torta Giamaica, tra litigi e riappacificazioni a suon di milioni di dollari o euro, ha prodotto una deforestazione del 40 per cento dell'isola e la distruzione della piccola imprenditoria turistica, a fronte dell'impiego di una manodopera sotto pagata, con il minimum wage (il salario minimo) fermo a 4.500 dollari giamaicani a settimana, equivalenti a circa 45 euro.

Nel 2002 il salario minimo era di tremila dollari giamaicani, con un incremento del 50 per cento in dieci anni, mentre il costo della vita è triplicato da allora. Tutto ciò mentre la gente è stretta nella morsa delle gangs criminali, che ammazzano circa duemila persone all'anno, una media che pone l'isola caraibica appena dopo Messico e Colombia, e una polizia corrotta, responsabile tra l'altro di centinaia di omicidi di cittadini innocenti.


Il pezzo era stato pubblicato in origine su:
(per gentile concessione dell'autore)

La poetica di Virgilio Pinera


Reversibilità



Circondato da uno sciocco, un muto e un cieco
- decorazioni mostruose del negozio -,
attendi il tuo turno dal barbiere.
Loro hanno il vantaggio
di essere fuori dal tempo.
Sacri e consacrati
per una morte in vita,
niente potrebbe ferirli.
Ma tu esisti, esisti a metà,
in uno strano modo di esistere.
Tra i molti paradisi di questo mondo
nessuno ti toccò in sorte.
Il tuo ruolo è testimoniare
il tremendo divertimento degli altri,
e tramite la parola, trasformare
quel piacere in qualcosa di più sublime.


E mentre abbellisco il prossimo,
mi imbruttisco fino ad acquisire la maschera grottesca
di chi esiste a metà, soffre nel ceppo dei suoi giorni
immaginari, e la sua maschera corrode il suo volto reale.


Da bambino già fingevi d’essere un altro.
Tu non potevi essere tu.
Se vedevi un albero non era un albero,
era qualcosa d’indecifrabile.
Qualcosa che, indescrivibile, diventava il tuo altro io.
Intanto i frutti del paradiso terrestre
si allontanavano da te in una barca nera
costruita con parole ermetiche,
tanto indecifrabili come te stesso.


Ora il barbiere impugna la lama,
e si prepara a radere il cliente cieco,
che prova quasi l’orgasmo
quando la lama gli lambisce il pomo d’Adamo.
Ma è un cliente, e la lama è inoffensiva.
Non si abbatterà sulla giugulare né falcerà la sua vita.
Ma io vedo fiumi di sangue,
il barbiere trasformato in Jack lo squartatore,
il cieco come una donna fatale, riceve quel che merita.
La scena è così perfetta, così propizia.
Qua lo specchio moltiplica le passioni,
una poltrona è il letto della concupiscenza,
e questo asciugamano un torrente di lacrime.
L’amante tradito impugna la lama.
Bisogna vedere come si sovrappone un barbiere
a un uomo folle di passione,
e un cliente cieco a una cortigiana sgozzata.
L’irreale è realtà, il minuscolo, grandioso.
E anche se nessuno se ne accorge, finisco per trasformare il mondo.
Soltanto mio, atemporale. Loro continuano intatti.


- Grazie - dice il cieco -. Quanto le devo?
E lo sciocco ripete: Quanto le devo?
E ride senza sapere di cosa ride.
Non lo vedono. Non possono vederlo.
Ma tutti, ormai fuori dal tempo, sono figure giacenti.
Li animo man mano che sviluppo la trama.
- Signore - mi dice il barbiere -. È il suo turno.
- Signora - mi dice l’amante tradito -, raccomanda la tua anima.
- Signore - mi dice il barbiere -, la rado?
- Signora - mi dice l’amante tradito -, mi appresto a sgozzarla.
Sgorga il sangue dalla mia carotide, tremo come un invasato.
- Si sente male, signore? - mi chiede il barbiere innocente.


Perfettamente rasato abbandono il negozio di barbiere,
e perfettamente sgozzato mi portano alla morgue.
Un mondo gelatinoso nel quale scivolo a ogni passo
mi avvolge nelle sue ondate di realtà luminose.
Il tempo smette di passare, anche il sole
si è occultato, e la notte non esiste.
Il barbiere legge in casa sua il giornale,
il muto inghiotte il suo boccone, il cieco s’immerge nel sonno,
con le sue grida popola l’idiota la piazza deserta.
Ma tutti loro, senza saperlo neppure,
seguono lungo un viale il mio corteo funebre:
sono una puttana famosa che è stata appena sgozzata.

(Traduzione di Gordiano Lupi)


(1978)

Questa poesia, scritta un anno prima della morte, inedita in Italia, descrive la poetica di Virgilio Pinera, che per primo fece teatro dell'assurdo, anticipando Beckett e Ionesco.

giovedì 13 settembre 2012

Virgilio e la morte

Il poeta di bronzo


Derelitto, indeciso,
cieco, confuso,
passeggio per il Prado
tenendo per mano
uno dei leoni di bronzo
che si limitano a veder passare.
Siccome è di bronzo, è docile
questo leone di Nemea.
Se fosse di carne e ossa
già mi avrebbe divorato.
Ma un leone di bronzo
mai apre le fauci.
Con fatica lo trascino
- il bronzo non cammina -
e moribondo arrivo
fino al poeta di bronzo
che nelle sue mani regge
un libro sempre di bronzo.
Essendo di bronzo
non può parlare,
né muovere la testa
per lo stesso motivo,
né guardarmi negli occhi
perchè il bronzo non guarda.
E nonostante questo sa bene
che fin là mi sono trascinato
per implorare dalla sua immortalità
il segreto della sua immobilità,
e mi dice nel linguaggio del bronzo
- funebre linguaggio dei poeti morti -
di consegnare la mia carne a quel leone di bronzo,
perchè il leone la mia anima con il suo bronzo rivesta.
Il poeta assiste alla mutazione insigne:
mi immobilizza il bronzo e la fiera si anima.
Sento che da Prado la mia carne si allontana,
e al tempo stesso sento che eternamente verde,
sarò per sempre un leone nel Prado,
arrogante, irridente, sul mio piedistallo,
aspettando che passi un poeta inquietante
con in mente il progetto stupendo
di portarmi a morire
ai piedi immortali del poeta di bronzo.

(1978)

Virgilio Pinera (1912 - 1979) scrive questa lirica surreale ambientata nel Paseo del Prado all'Avana, dove ci sono i due leoni di bronzo e la statua di José Martì (il poeta di bronzo), un anno prima di morire. Testimonianza eterna, come la statua che sarebbe voluto diventare, di grande letteratura universale. Immodestamente e con grande umiltà provo a renderla in un italiano dignitoso.

Due o tre segreti
Per Fifi

Solo da morto ti confiderei
i due o tre segreti
che ogni uomo porta nel suo petto.
Molto rideresti
con il tuo sorriso tra le labbra,
e io riderei di me senza paura.
Ragazzo, che sciocco sei stato:
vivere così tanti anni
con due o tre segreti.
Se avessi osato
non ti avrebbero tolto il sonno e l'allegria.
Non li portare nella tomba:
tanto rispettare gli altri
o te stesso non vale la pena.
Ora che sei morto
e con te i tuoi segreti,
se fosse in mio potere
resuscitarti, Virgilio,
quali sono i tuoi segreti, ti chiederei.
E trasformati in polvere di scherzo
potresti morire tranquillo.

(1978)


Parole di giovane
Per Roberto Pérez, nel giorno del suo ventitreesimo compleanno


Eternamente giovane nel suo momento,
il giovane passeggia tra i larici del camposanto,
e lascia udire la sua canzone.
Oh, morti! Sono così pieno di vita,
pulsa nel mio cuore, nella mia fronte.
Splendo come un sole,
e ho nella gola un usignolo.

Si prepara a vivere, oh delizia!
L'acqua,
che non lava piaghe nella sua pelle,
la lascia brunita
come lo scudo di Perseo.

Sono il magico specchio
in cui depositano i loro sogni gli amanti.
Cantatemi inni, lodi.
Sono un orgoglio per i sensi,
e una fragranza per l'anima.

Il giovane passa con aria di sfida.
Sole, luna, stelle.
Io sono la seduzione. Venite ad adorarmi.
(1978)
 
Certo, non hanno lo stesso appeal e identico pubblico di un inedito di Giorgio Faletti (per fortuna!), ma queste poesie vengono tradotte per la prima volta in italiano. Fanno parte della raccolta  "Una broma colosal", uscita in Spagna per Tousquets Editores (Barcellona) nel volume "La isla en peso", una sorta di Meridiano poetico dell'opera di Virgilio Pinera. Il 2012 è il centenario della sua nascita.

lunedì 10 settembre 2012

Efraim Medina Reyes, l'anti Marquez

Efraim Medina Reyes è uno scrittore, conosciuto e apprezzato in Italia, e non solo, per romanzi come C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo, Tecniche di masturbazione fra Batman e Robin, La sessualità della Pantera rosa.

Colombiano di origini, è nato a Cartagena de Indias, prende subito le distanze dai mostri sacri della letteratura del suo paese, infatti nel 2002, in un’intervista a La Voce Nuova di Piacenza, Reyes rilasciava la seguente dichiarazione: “Se c'è qualcosa di fittizio, piuttosto, è la Colombia da cartolina illustrata che spacciano autori come García Marquez, vecchi d'anni e di mente. Gente che per cercare la Letteratura volta le spalle alla vita. Hanno diffuso un mucchio di stereotipi: una volta una ragazza norvegese mi ha chiesto come mai scopavo così male per essere un latino. Senza contare che molti, all'estero, sono convinti che noi parliamo con le mucche. Invece solo lui ci parla, García Marketing. L'ho chiamato così una volta, perché ha trovato la formula perfetta del libro che vende. Anche da noi, intendiamoci, ma non certo a quelli della mia generazione. La mia generazione vive per il 70% nelle città e ha gli stessi problemi, gli stessi sogni, la stessa musica di chi sta in qualsiasi altra metropoli europea o americana. Noi, in quella Colombia rurale e folcloristica, non ci riconosciamo. Davanti alla TV, nei cinema, abbiamo assorbito come tutti il mito americano e ci stiamo sforzando di metabolizzarlo".


Il Sud America, la Colombia, come colonia culturale degli Stati Uniti potrebbe essere una chiave di lettura delle opere di Reyes, ma giusto per essere precisi possiamo dirvi che l’autore di C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo, si divide tra la Colombia natia e l’Italia, ed è pronto a non risparmiare niente e nessuno nemmeno nel Belpaese, visto che in un'intervista del 2002 il nostro, sollecitato sul dare un suo personale giudizio sulla situazione italiana, ha tranquillamente definito ripugnanti diverse persone della cultura ufficiale italiana. Ora Reyes, abile penna, capace di inchiodare il lettore alla sua densa pagina, tramite la Fiasco Srl, versione italiana della multinazionale Fracaso Ltda, è passato a proporre direttamente, cioè in prima persona, la sua ultima fatica letteraria, cioè Pistoleri, Puttane e Dementi. Personaggio eclettico, nel suo passato possiamo trovare studi di medicina, guantoni da boxe e note di basso, diventa ancora più eclettico come lettore visto che apprezza Ray Bradbury, il poeta peruviano César Vallejo, Celine, Pavese, Onetti, Stefano Benni, Laurence Sterne, Heinrich Boll, Andrés Caicedo, il poeta colombiano Juan Manuel Roca, Raymond Chandler, Carson McCullers, Djuna Barnes e molta, moltissima poesia anglosassone ma anche tedesca, soprattutto poeti del XIX secolo come Heinrich Heine.


Passando a Pistoleri, Puttane e dementi si notano subito gli echi ridondanti della cultura del fiasco, tanto invocata da Reyes, ricca di personaggi che già abbiamo trovato nelle sue opere più famose come Kurt Cobain, il leader suicida dei Nirvana o Freccia Verde, super eroe di seri B appartenente al Dc Universe. Pistoleri, Puttane e Dementi è un libro di poesie, l’abbiamo detto finalmente, dove la parola del poeta non serve a sciogliere le stelle o a sottomettere le acque, l’uomo non ha nessun potere sul fato, ma “E’ forza, è rabbia, è fare irruzione in un macello esasperante”. Insomma è rabbia, come il grunge ed è volontà di cambiamenti come quella di Green Arrow, non per nulla abbiamo citato prima questi due personaggi, filtrati dai romanzi più famosi di Reyes.
Infine possiamo dire che “ Esistono due tipi di assenza”, la prima è quella del lettore (come non l’avete ancora letto?) e la seconda e legata al non apprezzarlo, basti vedere le Ragioni del Boscaiolo: L’ascia conficcata nel tronco si può guardare in due modi: la parte dell’ascia che si vede e l’altra. Una è l’amore e l’altra la morte. Ciascuno decide qual è la morte.
Efran Medina Reyes è nato a Cartagena de Indias, Colombia, nel ’67, Efraim Medina Reyes vive tra Bogotà e l’Italia. A breve usciranno i romanzi Corso accelerato di intelligenza basica, Angelo Colla Editore, e Quello che ancora non sai del pesce ghiaccio, Feltrinelli. I suoi libri precedenti sono: C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo, Tecniche di masturbazione tra Batman e Robin, La sessualità della Pantera rosa, tutti editi da Feltrinelli. L’amore conta, per dirla con il verso di una canzone italiana.

Se volete richiedere una copia di Pistoleri, Puttane e dementi potete inviare un messaggio a medinareyes67@gmail.com

Fabio Izzo

sabato 8 settembre 2012

Tutti se ne vanno di Wendy Guerra


Wendy Guerra
Tutti se ne vanno
Le Lettere – Euro 18 – Pag. 240
www.lelettere.it

Wendy Guerra è un’eccellente scrittrice cubana, nata nel 1970 all’Avana, laureata in regia cinematografica e radiotelevisiva presso la Facoltà di Scienze delle Comunicazioni dell’Istituto Superiore d’Arte. A Cuba, tra le cose positive costruite dopo il 1959, non si diventa registi per caso, ma esiste un vero e proprio corso di studi dove si studia tecnica e storia del cinema, grazie a lezioni impartite da veri maestri che si sono cibati di neorealismo, Godard, Fellini e cinema nordamericano indipendente. Wendy Guerra è un’allieva di Tomás Gutiérrez Alea, il suo stile letterario abbonda di piani sequenza descrittivi e di rapide pennellate che costruiscono caratteri e situazioni. Todos se van, tradotto in maniera egregia da Antonella Ciabatti per la collana Latinomericana, diretta da Martha Canfield per i tipi de Le Lettere, è scritto sotto forma di diario e comincia con una citazione tratta dal Diario di Anna Frank: “Potremmo chiudere gli occhi davanti a tutta questa miseria, ma pensiamo a coloro che ci erano cari, e per i quali temiamo il peggio, senza poterli aiutare”. Inutile dire che l’autrice parla di Cuba sotto metafora.

Wendy Guerra performance

Il diario è diviso in due parti. Nella prima parte abbiamo una bambina di nove anni che racconta la sua infanzia come un viaggio attraverso il dolore, contesa tra i genitori divorziati, in balia di un padre violento che la picchia, non la manda a scuola e spesso torna a casa ubriaco. “Ho pagato un prezzo molto alto per crescere da sola mentre tutti se ne andavano dall’isola”, afferma la protagonista. E vive un’esistenza costellata di abbandoni, per motivi sentimentali o politici, economici e di semplice vita quotidiana. La ragazzina cresce mentre tutti se ne vanno. Inesorabilmente. La seconda parte del romanzo è la più disperata. La bambina diventa adolescente proprio mentre i regimi socialisti vanno in crisi e crollano uno dopo l’altro, fino alla caduta del muro di Berlino. Wendy Guerra racconta con magistrali pagine di taglio cinematografico e con tono lirico la fine di un sistema, le fughe e la solitudine di una ragazzina che osserva il mondo cambiare mentre vede gli amici scappare.


Il Diario potrebbe essere in parte autobiografico, in ogni caso l’autrice ha vissuto in prima persona certe situazioni, perché è nata nel 1970 e alla caduta del muro di Berlino compiva diciannove anni. Wendy Guerra racconta la Cuba dei black-out energetici (apagón), dei poveri solar dove vivono famiglie senza possibilità economiche, dei giovani nascosti in umidi sottoscala per ascoltare i Beatles (“erano più proibiti che mangiare carne”), delle raccolte fallimentari di canna da zucchero, delle persecuzioni agli omosessuali, delle ideologie perdute. Racconta “la guerra fredda del silenzio adolescente”, mixata con la guerra fredda della politica, con un isolamento culturale che allontana i giovani sempre più dal sistema. “Il mio Diario è un lusso, è la mia medicina, è ciò che mi mantiene in piedi. Senza di lui non arriverei ai venti anni. Io sono lui e lui è me. Entrambi non ci fidiamo”. Racconta di una ragazzina che vuole scappare dagli slogan e dalle ideologie, che non sopporta più quel che accade, ma si rende conto che fuggire dalla politica significa andare via da Cuba.

Wendy Guerra desnuda

E poi il romanzo è costellato di stupende immagini letterarie: “L’Avana odora di gas liquido e di pesce fresco, che viene dall’aria salata del Malecón”. Tutti se ne vanno racconta anche la paura del futuro, perché crollano i muri, i giovani scappano, ma i vecchi non sanno vivere senza muri e temono quel che potrà accadere. La conclusione non lascia scampo: “Sono all’Avana, ci provo, cerco di avanzare ogni giorno un po’ di più. Ma una volta gelato il mare dei Caraibi, non c’è alcuna possibilità di arrivare in nessun posto. Da questa parte continuo a scrivere il mio Diario, a svernare nelle mie idee, senza potermi spostare, per sempre condannata all’immobilità”. Questo è il destino della ragazzina, ma anche della scrittrice, che pubblica i suoi romanzi in tutto il mondo, ma che - come Cabrera Infante e Reinaldo Arenas - è inedita a Cuba, a parte alcune innocue raccolte di poesie.

Nunca fui Primera Dama (inedito in Italia)

Todos se van (2006) è il debutto letterario di Wendy Guerra, il libro ha riscosso un enorme successo in Spagna, dove ha vinto il premio Bruguera, è stato tradotto in molte lingue, ma in Italia è uscito nel 2007, passando inosservato, come quasi tutti i libri che raccontano il vero volto di Cuba e che sono invisi al regime. Molto spesso mi faccio una domanda alla quale non so dare risposta: l’apparato castrista dirige la nostra politica culturale? Resta il fatto che Wendy Guerra è una grande scrittrice di cui ci priviamo, a vantaggio di inutili e ripetitivi titoli commerciali. La Guerra ha pubblicato anche Nunca fui Primera Dama (Bruguera - Barcellona, 2008), mentre da poco è uscito Posar desnuda en La Habana (Alfaguara, 2012), entrambi inediti nel nostro paese. Ha dato alle stampe tre raccolte di poesie: Platea oscura (L’Avana, 1987), Cabeza rapada (L’Avana, 1996) e Ropa interior (Bruguera - Barcellona, 2008). Scrive un blog interessante intitolato Habaname per il periodico spagnolo El Mundo: http://www.elmundo.es/blogs/elmundo/habaname/.

Posar desnuda en La Habana (inedito in Italia)


Leggiamo un breve estratto da Tutti se ne vanno.


I giorni dell’attesa - 1989 (pagina 197)

Ogni mattina mia madre mi chiama per dirmi quale governo dell’Europa dell’Est è caduto. Si gode tutto ciò come se fosse un grande show. Osvaldo chiama poco da Parigi. Quando lo fa mi chiede di prepararmi al viaggio. Io mi occupo di suddividere i messaggi per le mogli degli altri pittori che se ne stanno andando via poco a poco. Non voglio compromettere nessuno su questo Diario. E neppure raccontare alla lettera i miei piani. C’è bisogno di molto silenzio e di molta discrezione per uscire da Cuba in questo momento. Noi artisti siamo presi di mira. Ci sono più poliziotti che critici in mezzo a noi. Non esco quasi di casa, non vado a trovare nessuno perché la maggior parte dei miei amici se n’è andata. Lucia e sua madre sono a Madrid. Se ne sono andate senza dirlo. Di tutti quelli che avevano iniziato la scuola, saremo in pochi a diplomarci. Jesús continua a vendere i quadri di Osvaldo e a procurare borse di studio per allungare il soggiorno dei pittori che se ne sono andati con lui. Ha ottenuto l’appoggio della fondazione Mitterand. Il suo progetto va avanti. Il libro di Cleo sta per uscire in Francia. Mi resta solo da dire addio. La mia rubrica telefonica è piena di segni rossi. Non posso più fare quei numeri. Non mi risponderebbe nessuno. La città è abitata quasi solo da sconosciuti. Tutti se ne vanno. Mi lasciano sola. Il telefono non suona più. Io aspetto il mio turno in silenzio.



Gordiano Lupi