martedì 31 luglio 2012

El nuevo blog

Ser cultos para ser libres desde hoy muda aspecto y temas. No es más sólo un blog dedicado a Cuba en sentido lato, de la literatura a la situación sociopolítica, sino se convierte en un blog inspirado por la serie de libros de ficción latinoamericana “Célebres Inéditos” de la editorial “Edizioni Anordest”.

Esto significa que – aunque mantiene un específico ángulo de observación sobre la realidad cubana – amplía su horizonte para incluir todo el mundo de Latinoamérica. Para llevar a cabo todo esto, voy a valerme de la colaboración de traductores, expertos en literatura suramericana, estudiosos, críticos y periodistas. Sin embargo, también me gustaría que el blog se abriera aún más, acogiendo unas reflexiones, artículos o indicaciones vuestras.

Podréis enviarlas info@edizionianordest.com. Juntos con vosotros, vamos a intentar realizar un verdadero magacín, que pueda abarcar el vasto campo de la cultura suramericana. No anhelamos a ser completos, y ni siquiera queremos ser enciclopédicos. Esto sería absurdo. Nuestra tarea es la de encender la curiosidad de los lectores, así es que puedan buscar las obras señaladas, profundizando conocimientos tal vez superficiales. Vamos a publicar sobre todo inéditos de autores no muy conocidos en Italia, pero importantes en el continente latinoamericano: algunos ejemplos se pueden encontrar en las páginas del blog: Carlos Alberto Montaner, Álvaro Vargas Llosa, Amir Valle, Virgilio Piñera, Calvert Casey, Guillermo Cabrera Infante, Reinaldo Arenas, Felix Luis Viera, Ivan Garcia, Orlando Pardo Lazo.

La novedad es que, de ahora en adelante, no van a ser solamente escritores cubanos.

Es una promesa.

Gordiano Lupi

Giallo Payá

I due sopravvissuti negano di essere stati inseguiti e urtati da un'auto

"Per favore, tiratemi fuori di qui", dice lo spagnolo Carromero alla comunità internazionale.

Lo svedese Modig afferma di essersi recato a Cuba per portare 4.000 euro a Payá, che sarebbe servito a creare una sezione giovanile del MCL. "Sono consapevole di essere venuto a realizzare attività illecite, non permesse a Cuba. Non è la prima volta che consegno denaro e strumenti elettronici a dissidenti", aggiunge.


I due politici europei sopravvissuti all'incidente dove sono morti Oswaldo Payá e Harold Cepero, hanno negato di essere stati inseguiti e urtati da un altro veicolo. "Ho perso il controllo dell'auto dopo essere entrato in una buca", ha spiegato il conducente. "Non ricordo altri veicoli coinvolti nell'incidente", ha aggiunto lo svedese. Nonostante tutto, la famiglia di Payá afferma che i due stranieri inviarono messaggi dai loro cellulari assicurando che erano stati inseguiti e urtati diverse volte da un veicolo. Modig e Carromero sono ancora detenuti a Cuba. il Ministero degli Interni incolpa Carromero del sinistro, per eccesso di velocità, non rispetto dei segnali e perdita di controllo del veicolo. Rischia fino a 10 anni di galera. Modig e Carromero possono essere accusati - proprio come lo statunitense Alan Gross - di attività sovversiva e controrivoluzionaria, per aver distribuito denaro, strumenti elettronici non consentiti e aver aiutato la formazione di un gruppo giovanile dissidente. Modig e Carromero erano a Cuba con visto turistico, perchè è impossibile ottenere altre tipologia di visto se una persona non è autorizzata a svolgere funzioni politico - giornalistiche dal governo cubano. Alla luce della situazione giudiziaria dei due stranieri, le loro dichiarazioni non rivestono un valore decisivo, sarebbe opportuno attendere quando saranno rilasciati e potranno parlare in patria, da persone libere. Per adesso la loro priorità è lasciare Cuba. E non sarà facile.

Gordiano Lupi

lunedì 30 luglio 2012

L'opposizione cubana eternamente divisa

di Yoani Sanchez - da El Pais
Inedito in Italia - ESCLUSIVA


In meno di un anno l’opposizione cubana ha perso due leader importanti. Il 14 ottobre scorso è morta Laura Pollan, coordinatrice delle Dame in Bianco e figura chiave nel processo di scarcerazione dei prigionieri della Primavera Nera. Una settimana fa è scomparso Oswaldo Payá, fondatore del Movimento Cristiano di Liberazione. Questi attivisti godevano di grande considerazione internazionale e la loro scomparsa giunge in un momento in cui la dissidenza sta cercando nuovi orizzonti. Analizziamo in breve lo scenario attuale e i possibili effetti nel prossimo futuro.

L'opposizione cubana attiva sull’Isola si caratterizza per un carattere decisamente pacifico e non armato. Ha preferito basare la sua azione su programmi politici, documenti in cui chiede il rispetto dei diritti umani, manifestazioni di piazza, cartelloni dipinti sulle facciate o semplici riunioni a porte chiuse. La dissidenza si comporta ed esprime le sue idee in maniera molto più democratica del governo che ha sede in piazza della Rivoluzione.

All'interno della dissidenza esistono diverse opinioni sui possibili percorsi e destini della transizione. Molte scelte sono divergenti ma alcuni punti sono comuni. Per esempio un filo conduttore che attraversa la società civile è la consapevolezza che siano improcrastinabili cambiamenti politici, sociali ed economici. Un obiettivo comune è quello di porre fine alla persecuzione dei non conformi, agli arresti arbitrari e alle condanne per motivi politici. Tutti concordano che il Governo di Raúl Castro non sta affrontando con sufficiente energia i problemi nazionali.

Sono state tentate molte classificazioni schematiche dell'opposizione cubana, ma la maggior parte di questi studi si è focalizzata sulle tendenze politiche dei gruppi che li compongono. Alcuni analisti hanno stabilito divisioni di carattere generazionale, tra oppositori storici e protagonisti molto più giovani. Ma, nella pratica, non sono né i colori politici, né l’età che differenziano - in maniera significativa - le diverse associazioni dissidenti.

Un punto chiave delle diversità risiede nella legittimità che viene riconosciuta al governo di Raúl Castro e alle sue proposte di cambiamento. Una parte sostiene che un possibile dialogo con le autorità porterebbe a una transizione non violenta. Sono di questa idea figure importanti come José Daniel Ferrer - Presidente della Unione Patriottica di Cuba - che afferma: “Il dialogo è possibile ma solo dopo aver rinforzato la società civile”. Altri, da parte loro, non prendono neppure in considerazione l'idea di scendere a patti con il regime, sostenendo l'illegittimità di un governo che non si basa su una corretta investitura popolare. Questi dissidenti considerano il Partito Comunista alla stregua di un sequestratore di ostaggi con cui non si deve - in alcun modo - trattare. Negoziare o distruggere, sembrano le due concezioni agli antipodi intorno alle quali si definiscono le attuali forze di opposizione.

L'embargo nordamericano è un altra problematica che contribuisce a diversificare le posizioni politiche. All'interno dell'Isola, molti dissidenti sostengono che devono mantenersi le restrizioni economiche per mettere alle corde il governo. Secondo la loro opinione, permettere un commercio libero con gli Stati Uniti o autorizzare i viaggi dei nordamericani a Cuba, significherebbe fornire ossigeno fresco capace di rinforzare la posizione del Generale Presidente. José Luis García (Antúnez), leader dissidente che risiede nel centro dell'Isola, è uno dei principali sostenitori di questa posizione.

Raggiungere il popolo, la grande sfida

Dissidenti cubani alla messa funebre

La dissidenza cubana non può accedere ai mezzi di comunicazione di massa. Questo limita in maniera significativa la capacità di diffondere proposte e programmi politici. Il governo di Raúl Castro non permette di accedere ai microfoni di Stato neppure per un minuto, ma utilizza la televisione e la stampa ufficiale per definire i dissidenti come "servi dell'Impero", o "gruppuscoli senza importanza". Sono stati frequentemente oggetto di lapidazioni mediatiche, l'attivista per i diritti umani Elizardo Sánchez, la leader dissidente Martha Beatriz Roque, il laico di ispirazione cattolica Dagoberto Valdés e lo stesso gruppo delle Dame in Bianco.

Questi protagonisti sociali potranno essere importanti nei prossimi anni, ognuno secondo la sua prospettiva. Inoltre esistono diversi progetti di promozione socioculturale, come quello diretto da Antonio Rodiles che raccoglie anche persone collegate a istituzioni statali. È molto importante che queste attività siano accompagnate da un costante lavoro informativo. Per questo i giornalisti indipendenti e i blogger alternativi assumeranno un ruolo sempre più decisivo.

In questo scenario, la morte di Oswaldo Payà apre un interrogativo sul futuro del Movimento Cristiano di Liberazione, che conta numerosi membri sparsi per tutta l'Isola. Questa forza politica deve riuscire a sopravvivere alla scomparsa del suo fondatore per dimostrare la maturità raggiunta da tutta l’opposizione cubana. Va detto anche che Raúl Castro si è impadronito di alcuni punti che erano in primo piano nell'agenda dei suoi avversari politici. L'apertura alla piccola impresa privata, la possibilità di comprare e vendere case o auto e la concessione in usufrutto delle terre incolte, sono alcune delle riforme che il Governo ha disposto negli ultimi quattro anni. Un simile panorama obbliga i gruppi oppositori a tracciare nuovi orizzonti e a ridefinire molte proposte.
Traduzione di Gordiano Lupi

L'incidente a Oswaldo Payá - News

Abbiamo un comunicato uficiale nel quale il Ministero degli Interni attribuisce al guidatore la responsabilità dell'incidente in cui è morto Oswaldo Payá: “Eccesso di velocità - 120 chilometri all'ora in una zona con limite di 60 -; mancanza di attenzione al controllo del veicolo e frenata non corretta". la vedova Ofelia Acevedo non accetta la ricostruzione ufficiale e chiede di poter parlare con i sopravvissuti, lo spagnolo Ángel Carromero e lo svedese Jens Aron Modig. Il Movimento Cristiano di Liberazione ha aperto una raccolta di firme (vedere sito Internet) per chiedere chiarimenti sui fatti.

Il provocatore e le feste

Carmen Boullosa (da Edmundo Paz Soldán, Gustavo Faverón Patriau, a cura di, Bolaño selvaggio, Senzapatria Editore)

Trad. di Giovanni Agnoloni

Quando entrai nel mondo letterario di Città del Messico portandomi sotto braccio le mie prime poesie – e sognando di scriverne molte altre ancora –, ci misi un attimo a rendermi conto che il territorio dei giovani poeti era diviso in due. Era il 1974, la città viveva i suoi ultimi anni d’oro, e in breve sarebbe stata sfregiata dagli Ejes viales, grossi viali unidirezionali che tagliano i quartieri antichi (idea di Hank González, leggendario per la sua vorace corruzione, non precisamente per essere un nostro ‘Mosè’ dai grandiosi progetti), strade decisamente ad hoc per i quotidiani imbottigliamenti di traffico. Allora non vedevo tutto questo splendore, nella città, ed ero convinta di essere arrivata tardi, per due motivi. Innanzitutto, prima del ‘68 era successo tutto ciò che contava qualcosa. Avevo vissuto il movimento sessantottino per sentito dire, tramite mia madre, che ogni giorno tornava dall’università con notizie e volantini. Anche l’università pubblica (UNAM) aveva perso i suoi caffè, chiusi a partire da quell’anno. Il colmo (per me): mia madre era morta nel ‘69, per cui passai dall’essere una bambina iperprotetta in una scuola di monache al vedi di farcela da sola, quando mio padre si sposò con una matrigna simile a quella delle favole. E ancora non frequentavo il mio circolo di amiche, scrittrici o artiste, con le quali avrei formato il mio scudo, la mia allegria, il mio gruppo. Il secondo motivo era che credevo di essere vecchissima: ben presto avrei compiuto vent’anni, e i giovani della mia generazione pubblicavano da un sacco di tempo, erano in gambissima, mentre io a malapena riuscivo a cavarmela da me: ero già stata cantante rock in un gruppo heavy metal, e lo stesso (e con pessimi risultati) in un gruppo di musica pop, per guadagnare qualche peso; lavorai in unbar nella vicina città di Toluca, feci la hostess alla fiera del bestiame, assunta dall’Ambasciata americana, maestra di studenti di un liceo praticamente della mia età; tenni un corso estivo d’arte per bambini, e in questo periodo una mia sorella minore morì in un incidente, portandosi via quel poco di serenità e sicurezza che mi restava. Nei corridoi della Facoltà di Lettere e Filosofia camminava Alcira, poetessa uruguayana, che era andata fuori di testa da quando era rimasta chiusa per più di dieci giorni nei bagni della Facoltà nel ‘68, durante l’occupazione militare; Bolaño la trasforma in un personaggio de I detective selvaggi (per usare le sue parole, “un poliziesco, ma anche un roman-fleuve e un Bildungsroman”), e si tratta di Auxilio Lacouture, che è inoltre protagonista e voce narrante di Amuleto. I poeti della mia generazione si erano schierati in partiti antagonistici preesistenti. Uno ammirava il poeta popolare, Efraín Huerta – famoso per le sue ‘mini-poesie’, cariche di umorismo, disinvoltura e freschezza –, e l’altro quelli della rivista Plural, diretta da Octavio Paz – il futuro Premio Nobel, intellettuale e cosmopolita – e curata da un formidabile gruppo di scrittori – García Ponce, Elizondo, De la Colina e l’(anche) poeta Tomás Segovia. Gli autori ‘raffinati’ in contrapposizione a quelli ‘di strada’, sebbene nessuna delle due fazioni fosse strettamente quello che dichiarava di essere. Octavio Paz ed Efraín Huerta discendono dalla stessa tradizione letteraria messicana. Entrambi nacquero nel 1914, e sono della stessa generazione di Rulfo. Da giovani, Paz e Huerta curarono insieme, alla fine degli anni ‘30, una rivista, Taller. Con gli anni si allontanarono. Erano nate in loro differenze estetiche, ma soprattutto politiche. Octavio Paz aveva preso le distanze dallo stalinismo e in seguito dalla Rivoluzione cubana. Efraín no. Quelli della ‘parte’ di Paz chiamavano gli efrainiti stalinisti. I sostenitori di Efraín chiamavano gli octaviani reazionari. Nessuno degli appellativi era del tutto esatto. C’era di più, nelle loro avversioni e nelle loro affinità, e c’era anche meno. I giovani poeti efrainiti percorrevano le strade a piedi o in autobus, erano iconoclasti, partecipavano a seminari, leggevano, passavano al setaccio e rubavano libri dalle librerie, portavano borse a tracolla, capelli lunghi, sandali huarache, con la suola ricavata da pneumatici, pubblicavano qua e là e passavano delle ore nei caffè del centro della città, specialmente nel Café La Habana, e in bar di basso livello. I giovani poeti octaviani si criticavano ferocemente a vicenda le poesie seduti a tavoli di caffè vicini a quelli dei sostenitori di Efraín, compravano o rubavano libri nelle librerie, portavano borse a tracolla e capelli lunghi, e quasi sempre sandali huarache, andavano per le strade della città a piedi o in autobus o nelle loro macchine, pubblicavano nei supplementi e sulle riviste vicine a Octavio Paz. Alcuni degli efrainiti erano bellicosi, si presentavano agli eventi letterari a fischiare, giudicare, polemizzare e far confusione. Si autodefinivano gli Infrarealisti ed erano comandati da Roberto Bolaño, che scrisse e firmò il Manifesto Infrarealista del 1976 – con l’atteggiamento irriverente e spavaldo dei surrealisti; secondo Bolaño stesso, l’infrarealismo era la versione messicana di Dada. Paz elogiava le avanguardie che erano state così fedeli ai manifesti, ed era stato molto vicino ai surrealisti. Noi octaviani ed efrainiti ci vedevamo come inconciliabili. In realtà, eravamo tutti rami dello stesso albero, come evidenzia il Manifesto infrarealista: Un nuovo lirismo, che in America Latina comincia a crescere, a sostenersi in modi che non smettono di meravigliarci. La tenerezza come un esercizio di velocità. Respirazione e calore. Esperienza a briglia sciolta, strutture che divorano se stesse, folli contraddizioni. Le parole sembrano dettate da Vicente Huidobro (1885-1915), cileno come Bolaño, che è stato in rapporti con più avanguardie di chiunque altro, nella storia letteraria mondiale, e che sia Paz che Huerta avevano ammirato fin da giovani. Tra gli efrainiti (e con loro gli infrarealisti) e gli octaviani c’era attrito – e le battaglie erano attizzate dalla generosità dello Stato messicano, principale mecenate di artisti e autori, sotto il cui controllo si trovavano allora tutti i mezzi di comunicazione. Non erano blocchi senza divergenze. Roberto Bolaño, che ammirava ed era amico di Efraín Huerta, ha ripetuto in varie interviste che “rispetto a lui aveva grandi differenze politiche”, che non devono sorprenderci, perché era filo-trotskista. Per quel che ne so, soltanto due erano amici di octaviani ed efrainiti (e in special modo di Roberto Bolaño): tra i poeti, Verónica Volkow, la bisnipote di Trotsky. Tra gli editori, solo Juan Pascoe, che era anche stampatore del Taller Martín Pescador, così battezzato da Bolaño. Fu nella tipografia di Pascoe che tanto Bolaño quanto io pubblicammo i nostri primi libri, elegantissime edizioni private, libretti stampati con caratteri mobili in una pressa tipografica manuale su carta umida, dalla quale uscirono anche i primi lavori di José Luis Rivas, Francisco Segovia, Verónica Volkow e altri autori della nostra generazione. Nel suo Manifesto infrarealista, Roberto Bolaño diceva: I borghesi e i piccoli borghesi vivono la vita sempre in festa. Tutti i fine-settimana vanno a una festa. Il proletariato non conosce feste. Solo funerali con ritmo. Ma questo cambierà. Gli sfruttati faranno una grande festa. Memoria e ghigliottine. In senso letterale, Bolaño aveva ragione, per quanto riguardava le feste celebrate (ma per fortuna non nelle sue affermazioni ‘alla Robespierre’). Il mondo letterario era piccolo e ristretto, e andavamo avanti a feste (se così possiamo chiamare i reading, le letture, gli opening, i caffè). Ci vedevamo spesso. Ricorderò cinque di queste feste, tra il ‘73 e il ‘76, non strettamente in ordine cronologico. Una è il festeggiamento del libro di Efraín Huerta nella casa editrice di Juan Pascoe. Venne un gran numero di persone, nella grande casa nel quartiere di Mixcoac. Gli efrainiti cantarono a squarciagola rancheras e boleros. Gli infrarealisti rimasero “accanto al barile di pulque che avevamo portato, e a un formaggio di 25 kg fatto dai mennoniti, che ci eravamo portati dietro fin dal mercato de La Merced.” Io non assistetti a questo festeggiamento, per cui mi rifaccio al nostro editore e anfitrione. La seconda è la festa per celebrare il libro di Octavio Paz pubblicato dalla stessa casa editrice: anche qui vennero tantissimi octaviani. Si conversò molto. In quest’occasione non si beveva pulque ma toritos, alcol a 96° con latte di riso o di arachidi (quest’ultimo quasi letale). Con i miei stessi occhi vidi alcuni infrarealisti (i sabotatori) lanciare un bicchiere contro Paz (che stava benissimo, con una giacca elegante) e il poeta scuotersi la cravatta e poi proseguire la conversazione come se non fosse successo nulla, sorridendo. La terza festa, che, ricordo, ebbe luogo qualche tempo prima, in occasione dell’opening dell’esposizione di Basha Batouska, la moglie del saggista e poeta Gabriel Zaíd (Zarco, ne I detective selvaggi). Qui non vennero infrarealisti, ne sono del tutto certa, perché non ci furono incidenti. Noi giovani poeti arrivammo portando scarpe normali, ma con borse a tracolla e senza esser prima andati a farci i capelli. In questa circostanza conobbi personalmente Octavio Paz e chiacchierai con lui. Avevo appena pubblicato la mia prima poesia in un supplemento letterario ‘professionale’, e mi offrì dei commenti molto favorevoli, al riguardo. Va da sé che mi sembrò di volare tra le nuvole. Mi invitò a fargli visita a casa sua. Il suo appartamento (dove pure evitai di andare in sandali) era splendido, elegante, pieno di opere d’arte indiane e messicane, di dipinti straordinari, e aveva una sua biblioteca privata. Una casa davvero bella, piena di luce; la casa di un poeta che era stato ambasciatore. Aveva delle maniere impeccabili e una conversazione senza pari. Poiché non sono mai stata a casa di Efraín Huerta (dove sicuramente le persone saranno andate in sandali huarache), mi attengo alla descrizione di un suo angolo che è stata fatta da Juan Pascoe, lo stampatore-editore: “aveva, incollati, ritagli di giornali, presi da diversi articoli, fuori dal loro contesto, con il seguente annuncio: “OCTAVIO PAZ HA UCCISO SUA MADRE” (...) una foto di Alejo Carpentier, un’altra di Ernesto Cardenal, una bandierina cubana, varie versioni decorative della falce e del martello.” Non andai neanche alla quarta festa, che ricordo sempre attraverso le parole del nostro editore Pascoe: Bolaño presiede l’apertura formale del gruppo infrarealista. Davanti a una quarantina di persone, spiega i motivi del suo odio per Octavio Paz: “i suoi nefasti crimini al servizio del fascismo internazionale, i suoi pessimi cumuli di parole che risibilmente chiamava ‘poesie’, la sua abietta offesa all’intelligenza latinoamericana, il tedio della ‘rivista letteraria’ che puzzava di vomito e si faceva chiamare Plural.” Nella quinta delle feste qui enumerate, Paz e Huerta lessero insieme delle poesie. Fu un’occasione storica. Quando Paz cominciò a leggere, le orde efrainite, o forse solo gli infrarealisti, cominciarono a fischiarlo. Efraín – a cui avevano praticato la laringectomia – si alzò e con le braccia richiese ai suoi ‘fedeli’ silenzio e rispetto. Lasciarono Paz leggere in silenzio. Non so per certo se Bolaño fosse presente alla lettura di San Ildefonso, perché vidi il suo gruppo solo da lontano: mi facevano paura. Quando feci la mia prima lettura poetica – rientrava nel premio per aver vinto la sostanziosa borsa Salvador Novo, per poeti sotto i ventun anni, ed è menzionata in Amuleto perché la ottiene Ernesto San Epifanio (Darío Galicia), e per celebrarlo si tiene una gran festa –, passai la notte in bianco, pensando che gli infrarealisti sarebbero venuti a fare sabotaggio. I temibili si presentarono alla lettura, fischiarono i poeti quando ne ebbero voglia, ma a me risparmiarono la vita. Forse per Darío Galicia, che era stato borsista l’anno precedente, e del quale ero amica. Ne avevo fin troppe con i miei demoni personali, per potermela vedere anche con gli infrarealisti. Tutto mi costava un grande sforzo. Avevo letto le poesie di Bolaño, che erano state stampate da Juan Pascoe, e lo rispettavo. Era un buon momento per vivere nell’allora bellissima Città del Messico. Si poteva parlare con Paz o con Huerta, Rius, Arreola, Carroza e Aragón, Tito Monterroso, Rulfo o Elizondo. Alla fine dei conti, nella nostra città vivevano fin dagli anni ‘50 anche García Márquez e Mutis. La sapeva fin troppo bene, l’autore di Amuleto. La galleria di autori latinoamericani era ampia e accessibile. Negli anni ‘70, l’onda di esiliati che venivano dall’America Latina portava un’aria nuova nell’ambiente. Io, per come potevo, aprivo gli occhi e m’imbattevo nei Mostri Sacri in caffè, librerie od opening. Ormai ero rimasta senza casa, e loro sarebbero stati la mia nuova famiglia. Bolaño lasciò il Messico nel ‘77. Perché se ne andò da una città splendida, che inoltre gli dava da vivere con quello che scriveva? Si pagò il biglietto con quanto ricevette per due articoli in “una rivista”, per andare a lavorare come “lavapiatti, cameriere, vigilante notturno, spazzino, scaricatore di porto, vendemmiatore.” Forse quel che desiderava veramente era, come disse in un’intervista: vivere fuori dalla letteratura. Io in Messico vivevo a stretto contatto con la letteratura. Vivevo tra scrittori e mi muovevo in un mondo nel quale coloro che non erano scrittori erano artisti. E a Barcellona cominciai a muovermi in un mondo nel quale non c’erano scrittori. Avevo amici scrittori, ma poco a poco iniziai ad avere amici di altro tipo. Feci di tutto, com’è evidente... E mi sembrò magnifico. Fu per seguire i dettami del suo Manifesto infrarealista? Il rischio sta sempre da un’altra parte. Il vero poeta è quello che si abbandona sempre. Mai troppo tempo in uno stesso posto, come i guerriglieri, come gli ufo, come gli occhi bianchi degli ergastolani. LASCIATE TUTTO, DI NUOVO / METTETEVI IN MARCIA. Lui partiva, lasciandosi andare, perché la verità è che era già una figura di primo piano nel nostro mondo letterario. Se ne andò prima che potessi frequentarlo. Quando ormai ero cresciuta, libera da quella cosa spaventosa che è l’essere molto giovani, ebbi come compagno uno dei grandi efrainiti, Alejandro Aura, il padre dei miei due figli. Paz quasi non me lo perdona. Mario Santiago (Ulises Lima nell’opera di Bolaño) veniva a casa, spesso portandosi sottobraccio dei piccoli opuscoli con le sue nuove poesie, che lui stesso pubblicava, e beveva in quantità allarmanti, da buon efrainita. Alcuni anni dopo, quando avevo già pubblicato i miei primi due libri di poesie e i miei primi due romanzi, un giornalista, che stava facendo un reportage al riguardo, mi domandò con quale ‘fazione’ mi schierassi (se quella di Huerta o quella di Paz). Risposi che stavo dalla parte di Ramón López Velarde, il poeta che morì al termine della Rivoluzione Messicana, uno dei preferiti di Bolaño, e anche uno di quelli venerati da Paz – Octavio gli dedicò molte pagine – e da Huerta. La domanda “Paz o Huerta?” era quella giusta. D’altro canto, nessuno pensava a una contrapposizione pro o contro il “Realismo magico”. Quando eravamo ‘quei’ giovani latinoamericani, non era questo il parametro che prevaleva – o per il quale optare. C’era fin troppo con cui confrontarsi, negli anni ‘70: Cortázar, Donoso, Ibargüengoitia. Diversi tra loro, praticavano generi differenti, come lo stesso García Márquez, tanto realismo o giornalismo quanta immaginazione o fantasia. Le stelle narrative del nostro cielo erano tante e brillavano con egual forza. Sia nel ‘partito’ degli octaviani, sia in quelli degli efrainiti, c’era una suddivisione tra i narratori. C’erano quelli che provavano ammirazione per “La Onda” (un movimento di narratori urbani realisti, che avrebbero potuto essere efrainiti) e quelli che si ritenevano ‘arreorulfobioycasariani’, che preferivano non il “Realismo magico”, ma l’ottica dell’immaginazione, i fantasmi, la follia e i sogni (come ne L’invenzione di Morel di Bioy Casares, nei racconti di Borges o Silvana Ocampo – avrebbero potuto essere in qualche modo paralleli agli octaviani). Insisto nel dire che le grandi stelle andavano e venivano da un genere all’altro. Nell’una come nell’altra ‘scuola’, si poteva maltrattare la forma lineare, antica, narrativa. Sapevamo che bisognava seguire la tradizione, per poi tradirla bene. Questo è precisamente quel che ha fatto Bolaño, colmando il divario tra le due ‘fazioni’ narrative e poetiche. Nel suo primo lungo romanzo (I detective selvaggi) c’è più de “La Onda”, diciamo di ‘efrainita’, anche se non esattamente. In Amuleto e nel prodigioso 2666, i sogni illuminano la realtà e la realtà illumina i sogni collettivi; c’è surrealismo, fantasia e follia, e anche uno sguardo freddo verso la realtà. Anni dopo, come noi tutti, Bolaño dovette dare una risposta al dilemma se dire sì o no al “realismo magico”. La domanda ci venne lanciata dalle generazioni successive alla nostra, per le quali non esisteva più un mondo letterario introspettivo e ricco come quello che avevamo avuto negli anni ‘70. I più giovani valutano il panorama letterario latinoamericano con i criteri di chi ha letto solo le poche opere che sono state tradotte in inglese, e preferiscono i libri non troppo lunghi, perché devono stare in valigia. È inevitabile: con le tragedie politiche ed economiche dell’America Latina, le case editrici collassarono e i circoli si frammentarono notevolmente. Efraín Huerta morì nell’82. Octavio nel ‘98. Città del Messico oggi è come una fotografia di quello che fu negli anni ‘70, ritoccata con Photoshop da un folle. L’anno in cui nacqui io la cifra ufficiale era di 3 milioni di abitanti. Oggi quella non ufficiale parla di 23 milioni. Quando lessi I detective selvaggi e Amuleto, che erano usciti da poco, fu come tornare nella nostra casa negli anni ‘70, la bella casa che ci toccò nella nostra (infernale) gioventù. Alcuni romanzieri fanno della loro infanzia il paradiso irrimediabilmente perduto (e sempre avvelenato) al quale, scrivendo, vogliono ritornare. Roberto Bolaño ha fatto propria la nostra gioventù e l’ha ricostruita nei suoi romanzi. Leggerli era sentirmi a casa, e non solo per la città e per gli ambienti riconoscibili, ma anche per un’affinità, un gusto. Per me era ovvio che ci eravamo preparati, come altri narratori della nostra generazione (Sada, Hinojosa, Villoro), nel mondo degli anni ‘70, all’ombra del ‘68 e dei colpi di stato militari del Cono Sud e delle guerriglie: i diseredati. Tra romanzieri della stessa generazione è difficile l’ammirazione, ma quando si verifica è una fortuna. Io Roberto lo ammiro. E ho avuto la doppia fortuna di esserne a mia volta ammirata. Ci conoscemmo formalmente vent’anni dopo che lui aveva lasciato il Messico, a Vienna (che, al contrario di Città del Messico, oggi ha un terzo degli abitanti di una volta). Gli unici due relatori eravamo lui ed io. Ci avevano invitati a parlare di un tema che apparteneva a Bolaño, non a me: l’esilio. Parlai di ciò che mi venne voglia di dire, e Bolaño pure, uscendo deliberatamente dal tema. Ci riconoscemmo immediatamente come fratelli, lo portai con me alla cena che mi veniva offerta all’Ambasciata, e in cambio (o per vendicarsi) lui mi portò a conoscere, in periferia, l’angolo più brutto e sgradevole possibile del corso del Danubio, dove delle sgraziate anatre nuotavano con sorprendente goffaggine. Bolaño seppe interpretare la lezione del cieco, e mi rivelò una Vienna che era più simile a Città del Messico di quanto non si possa immaginare. Evitò che finissimo in uno qualsiasi dei luoghi tipici – che a me piace moltissimo visitare –, convinto che saremmo stati attaccati dai neonazisti. A partire da allora, intavolammo una corrispondenza che non s’interruppe mai; ci scrivevamo quasi tutti i giorni. Credo che neanche una volta ci soffermammo sul “realismo magico”, però certamente parlammo male di molti scrittori. Ci ritrovammo anche in occasione di altri eventi letterari, o quasi. In una circostanza, in cui andai per dei reading a Nîmes, arrivai in treno a Blanes, mangiai con lui, con Carolina, sua moglie, e con suo figlio Lautaro (la “scintillina”, come lui chiamava Alexandra, non era ancora arrivata), davanti al mare. Quando uscì il mio romanzo su Cleopatra, generosamente viaggiò fino a Madrid per presentarlo – un romanzo così anomalo, né realista né fantastico ma anche le due cose insieme, che aveva incantato Roberto fin da quando era ancora un manoscritto. Il 2 luglio 2003 gli scrissi rimproverandolo per non aver risposto a un mio messaggio di un paio di giorni prima. Il 3 scrisse Carolina: “Cara Carmen, Roberto mi chiede che risponda alla sua posta e comunichi che è stato ricoverato... tra poco sarà dall’altra parte della tastiera. Un bacio, Carolina.” Morì il 15 dello stesso mese. Mi ci vollero mesi per cercare di abituarmi all’idea che Roberto era morto. Apparve la sua raccolta di racconti e non volli neanche aprirla. Poi il monumentale 2666, di cui lui mi aveva scritto e parlato tanto, fu irresistibile. È uno dei grandi romanzi nella mia lingua, di una bestialità furiosa; il resto dell’opera di Bolaño impallidisce, al confronto. Quindi passai al libro di racconti, irregolari esercizi di un maestro di acrobazia narrativa. Alcuni sono semplicemente accomodanti, scritti alla maniera del personaggio di Sensini, per vincere concorsi o, peggio ancora, conquistare seguaci. Sempre con la sua mano maestra, sì, anche se Roberto Bolaño non scriveva con la mano. Scriveva con i denti che gli mancavano (come Auxilio Lacouture, anche se lei i molari li perse quando non aveva soldi per andare da un buon dentista, o per puro disinteresse). Paz, Huerta, Lihn, Huidobro: Bolaño ereditò il meglio da tutti. Quando andò via dal Messico, non fuggiva da loro: correva per raggiungere la palla che i maestri avevano lanciata, e che volteggiava per aria.

[1] Canzoni popolari (N.d.T.).
[2] Liquore ottenuto dalla fermentazione dell'idromele o di un succo ricavato dall'agave (N.d.T.).
[3] Cioè si ispiravano a Juan José Arreola, Juan Rulfo e Adolfo Bioy Casares (N.d.T.).
[4] A. Bioy Casares, L'invenzione di Morel (ed. Bompiani, 2000). 
[5] Ovvero, com'è spiegato subito dopo, seppe far vedere alla scrittrice ciò che nessun uomo dotato della vista sarebbe riuscito a scorgervi (N.d.T.).  

sabato 28 luglio 2012

Un altro ventisei

di Alejandro Torreguitart Ruiz


Mattina frenetica in casa mia. Tra poco il nostro Speedy Gonzales erede al trono si esibisce in televisione per dirci che sarà sempre ventisei, proprio come nella canzone di Carlos Puebla. In alternativa possiamo sentire Machado Ventura, un ragazzino imberbe che fa politica da poco e parla ancora di nemici batistiani nascosti sotto mentite spoglie di dissidenti. Oggi è il ventisei di luglio, bandiere rosse e nere pendono dai balconi, i negozi sono chiusi, i politici raccontano cazzate, come sempre. E io non le vorrei ascoltare, vorrei vivere pensando che oggi è il 15 di agosto, si va al mare, si beve birra e si tampina qualche ragazza. Non me ne può importare di meno di quel che dicono Raúl a Guantanamo e Machado Ventura in Piazza della Rivoluzione, all’Avana. Mio padre no, lui si alza di buon mattino e accende la televisione, tanto Cubavision che Tele Rebelde passano la stessa spazzatura. “A Cuba siamo poveri ma consapevoli della forza di una Rivoluzione che deve andare avanti. La situazione è questa, guadagnano poco anche i medici, anche noi guadagniamo poco. Ma l’imperialismo non vincerà”, dice Raúl.

“Babbo, tu sei contento di dover campare portando turisti a giro per L’Avana?”, chiedo.

“La situazione è questa”, risponde.

“Non parlare come Raúl, adesso. Ho chiesto la tua opinione. Sei un medico, non dovresti fare soltanto il medico per campare?”.

“Noi siamo rivoluzionari prima che medici”.

Inutile continuare. In alternativa c’è Machado Ventura che grida alla minaccia batistiana. Deve aver visto Juan de los muertos questa notte, forse il nipotino gli ha portato il dvd pirata in casa. Parla di zombi e non si rende neppure conto delle cazzate che dice. Batistiani. Siamo nel 2012, Machado Ventura. Nel 2012. Svegliati, prima che sia troppo tardi. La maggior parte dei giovani cubani non ricorda neppure la faccia del presidente mulatto, magari vorrebbe una Cuba democratica, pluralista, libera, ma a tutto pensa fuorché all’ideologia batistiana. Magari voleva sentirti dire qualcosa sul permesso di entrata e di uscita dal paese, sulla possibilità di riunire i cubani della diaspora, sul libero associazionismo, sulle elezioni. Magari. Niente di tutto questo, i nostri allegri vecchietti rimestano retorica in forma breve, fidelismo corretto al raulismo in forma breve, e via andare. Per loro sarà sempre ventisei. Fino alla morte.

L’Avana, 26 luglio 2012
Traduzione di Gordiano Lupi


Il 26 luglio di Garrincha

venerdì 27 luglio 2012

Sempre 26!

Raul Castro ha pronunciato il solito discorso retorico in occasione del 26 luglio, anniversario del fallito attentato alla Caserma Moncada nel 1953, che dette vita alla Rivoluzione Cubana. Tra le tante cose si è lasciato andare a un'affermazione arrogante: "Se vogliono discutere problemi coma la democrazia, come la chiamano loro, la libertà di stampa, i diritti umani, e tutte quelle storie che hanno inventato nel corso degli ultimi anni, soprattutto la questione dei diritti umani, discutiamole pure. Ma a tal proposito discutiamo anche di come vanno le cose negli Stati Uniti, proprio sullo stesso piano". Castro si è poi abbandonato a una difesa senza riserve della rivoluzione, affermando che a Cuba tutti sono poveri ma nessuno si lamenta, perchè è una situazione generalizzata e il popolo ama la Rivoluzione. A tal proposito il fumettista Garrincha ha realizzato una divertente vignetta.


Castro 2.0 partecipa alle Olimpiadi della Modestia

- Persino i medici guadagnano pochissimi, ma questa è la situazione di tutti.

- Avvisi tu l'antidoping o ci penso io?
- Avvisali tu che io voglio divertirmi ancora un po'...


Gordiano Lupi

giovedì 26 luglio 2012

Il caso Payà secondo Garrincha


"Il camion lo mettiamo nel Museo del Popolo combattente."




Gustavo Rodríguez detto Garrincha (L’Avana, 1962). Laureato in scienze geografiche. Nel 1986 comincia a pubblicare vignette satiriche su alcuni periodici cubani (Mujeres) e messicani. Nel 1995 viene inserito tra i componenti della prestigiosa rivista satirica Palante, uno spiraglio di libertà nella Cuba del periodo speciale. Nel 1998 passa alla rivista DDT e nel 2000 ne diventa pure editore. Garrincha ha vinto 12 premi internazionali e 25 concorsi nazionali, è stato membro di giuria in molti concorsi per cartoni animati ed è stato Presidente dell’Associazione Umorismo nell’organizzazione dei giornalisti cubani. Oltre a cartoni animati, fumetti e satira, realizza animazioni, illustrazioni e pubblicità. È uscito da Cuba nel 2005, attualmente vive e lavora negli Stati Uniti. Lavora per El Nuevo Herald; Cubaencuentro e Martí Noticias di Miami, in lingua spagnola e con diverse riviste pubblicate in inglese. Il suo blog è http://garrix.blogspot.it/. Dice di se stesso: “Disegnatore con tendenza alla sinusite, ad ascoltare musica, a far tardi con gli amici e a guardare il baseball la domenica pomeriggio. Nessuno è perfetto”. In Italia pubblica (da me tradotto) vignette e fumetti su LIBERO VELENO, ogni domenica. Ha ideato alcune serie di strisce comiche inedite davvero geniali. (Gordiano Lupi – www.infol.it/lupi).



La sua autobiografia in sintesi: "Gustavo Rodriguez (Garrincha). Dibujante desde niño. Nadie es perfecto, lo sé. Comencé a publicar historietas en 1986 en la revista Mujeres, en La Habana. Años después, colaboré con casi todas las publicaciones del país. Participé en muchas exposiciones y concursos de humor gráfico con unos cuantos premios. He hecho casi de todo: Caricatura editorial, gag cartoon, ilustración de libros, guiones, historieta, diseño, animación, postales… Lo mismo para medios impresos que para digitales. Me fui de Cuba en el 2005. Actualmente vivo, trabajo y disfruto en Estados Unidos. Publico regularmente en El Nuevo Herald, Cubaencuentro y Martí Noticias. Colaboro con otras publicaciones en inglés también. Esclavo alegre y voluntario de mi profesión, mis amigos, del fútbol en cualquiera de sus versiones y de la buena música".

El otro paredon negli USA

Il Tirreno del 24 luglio 2012
El otro paredon - articolo di M.M. Autunnali

Anteprima mondiale per Amir Valle domani in Puglia


venerdì' 27 luglio ANTEPRIMA MONDIALE DEL LIBRO



Domani venerdì 27 nel Palazzo Marchesale di Laterza, alle ore 20.30, lo scrittore Amir Valle e il traduttore Giovanni Agnoloni presenteranno il suo ultimo libro "Non lasciar mai che ti vedano piangere" (ed.Anordest).

Valle è un esule cubano e vive a Berlino. Scrittore, critico letterario e noto giornalista, è considerato
una delle voci fondamentali della narrativa contemporanea latino-americana. La sua opera è stata elogiata da scrittori come Manuel Vázquez Montalbán e i premi Nobel per la Letteratura Gunter Grass e Mario Vargas Llosa.

Vincitore di importanti premi letterari internazionali come il Premio Internazionale Mario Vargas Llosa, il Premio Internazionale Rodolfo Walsh per il miglior libro al mondo in lingua spagnola e il Premio Internazionale di romanzi noir di Carmona, Premio Novelpol per il miglior romanzo noir pubblicato in Spagna. La casa editrice più importante in Spagna, Planeta, pubblicó Jineteras (2006), considerato dalla crítica il miglior bestseller underground della letteratura cubana degli ultimi cinquant’anni.
Un romanzo d’impatto, che intreccia tra loro i destini di personaggi che hanno segnato il Novecento. Su tutti, Charles Chaplin, al centro di intrighi politici e sconcertanti coincidenze storiche: un rapimento ordinato da Hitler nel 1941, dopo aver visto Il grande dittatore; un tentato sequestro dell’attore insieme a Marylin Monroe e Joe Dimaggio, ordito da Ernesto Guevara nel 1952; il trafugamento del cadavere di Chaplin da parte di un gruppo di estrema destra, nel 1978.
Tre storie che convergono nelle parole di una neonazista pentita, vittima di
indicibili violenze e salvata dall’orrore proprio dal ricordo dei film di Chaplin.
Le sue memorie dolorose collegano tutte le vicende narrate, che toccano alcuni tra i massimi drammi del Novecento: da una parte, la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio e Berlino distrutta e poi lacerata dal Muro; dall’altra, il Sudamerica segnato dalla povertà e il sogno di un’utopica rivoluzione. E' una storia di intrighi legati allo stesso personaggio storico, il che ne fa un romanzo noir con una particolare connotazione storica.


mercoledì 25 luglio 2012

Quando un oppositore muore

“Cuando un opositor muere, en cualquier democracia, se dejan a un lado los odios y se respeta la dignidad del desaparecido. En una dictadura, como la cubana, no es así. La muerte de Payá ha sido groseramente festejada en varios medios oficialistas cubanos. Detrás de ese comportamiento irracional yace la inseguridad moral de quienes no pueden admitir que una persona honesta, convencida de sus ideas, defienda, con métodos pacíficos y desde las propias leyes vigentes, la democracia en Cuba.”

Rafael Rojas, en La Razón

"Quando un oppositore muore, in qualunque democrazia, si mette da parte l'odio e si rispetta la dignità dello scomparso. In una dittatura, come quella cubana, non è così. la morte di Payá è stata grossolanamente festeggiata da diversi media ufficiali cubani. Dietro questo comportamento irrazionale risiede l'insicurezza morale di chi non può ammettere che una persona onesta, convinta delle proprie idee, difenda, con metodi pacifici e secondo le leggi vigenti, la democrazia a Cuba."

Traduzione di Gordiano Lupi

Oswaldo Payá, il Ghandi cubano


Il suo sogno: unire tutti i cubani
L'autista: "Ho perso il controllo dell'auto"


Nuova grave perdita per la dissidenza cubana. Dopo Laura Pollán, se ne va anche Oswaldo Payá, uno degli uomini migliori, perchè teso alla ricerca di una conciliazione, di una via di mezzo tra gli opposti estremismi. Tutti lo ricordano per il Progetto Varela che gli valse il Premio Sacharov, una richiesta di referendum per cambiare la Costituzione cubana in senso democratico e liberale. Nessuno cita la sua opera incompiuta, il Progetto Heredia, a cui teneva molto, come spesso mi diceva nel corso delle mail che ci scambiavamo quando traducevo in italiano i suoi articoli. Il Progetto Heredia prende il nome dal grande poeta cubano che dovette soffrire un lungo esilio e riguarda le restrizioni migratorie di cui soffrono i cubani, sia per uscire dal paese che per tornare, una volta che il governo gli ha dichiarati emigranti definitivi. Il grande sogno di Payá era quello di realizzare una Cuba inclusiva, dove tutti i cubani avessero diritto d'asilo e potessero sentirsi a casa propria, senza bisogno di autorizzazioni governative per entrare e uscire. Questo è il progetto che ha lasciato incompiuto, ma che la parte migliore della dissidenza cubana deve cercare di realizzare. Cuba deve essere di tutti i cubani. Adesso è il momento del dolore, dopo aver pianto Laura Pollán, fondatrice e portavoce delle Damas de Blanco (14 ottobre 2011), in circostanze poco chiare, si aggiunge la morte del candidato Nobel per la Pace. Alcuni parlano di delitto di Stato, di omicidio premeditato, ma non ce la sentiamo di seguirli su una strada pericolosa. L'autista spagnolo che guidava l'auto sulla quale viaggiava Payá ha dichiarato davanti al suo console: "Ho perso il controllo dell'auto e sono uscito di strada". Inutile cercare spiegazioni da film di 007 per un tragico evento luttuoso che colpisce ogni persona amante della libertà.


Gordiano Lupi

Yoani, uno strano incidente, il futuro di Cuba

da Libero del 25 luglio 2012

Il pezzo integrale:

Sono giorni convulsi a Cuba, tra epidemia di colera, dengue che si diffonde e gravi notizie internazionali tenute segrete dal regime. Yoani Sánchez - insieme agli altri coraggiosi blogger - è in prima linea per informare, ma oggi è il giorno del dolore. Si piange la morte di un dissidente storico come Oswaldo Payá, un lungo corteo funebre si snoda lungo la calzada del Cerro, in direzione del Cementerio Colón.


Si è trattato solo di un tragico incidente automobilistico?

Non è il momento di fare supposizioni. Angel Carromero Barrios (lo spagnolo del Partido popular, nda) e lo svedese Jens Aron Modig, che viaggiavano insieme a Payá, potranno chiarire la dinamica dei fatti. Per adesso piangiamo il nostro Ghandi, un padre esemplare, un laico di grande statura morale. Cuba dovrà fare a meno di un uomo importante, un politico imprescindibile, fondatore del Movimento Cristiano di liberazione, ideatore del Progetto Varela, Premio Sacharov per i diritti umani nel 2002. Mi spiace che il notiziario ufficiale della televisione cubana non abbia dato la notizia della sua morte, ma d’altra parte il regime si è sempre impegnato a occultare il lavoro di Payá per una Cuba libera e democratica.

Approfittiamo di Yoani per fare alcune valutazioni sul futuro di Cuba. Raúl e Obama sono i leader del presente. Possono cambiare in senso democratico la realtà cubana?

Obama è un leader del presente, ma Raúl Castro rappresenta il passato. Si tratta di un uomo che ha ereditato il potere per diritto di sangue e sta tentando di mantenerlo senza compiere cambiamenti significativi. Mi rattrista che molti cubani ripongano le loro speranze nel presidente nordamericano, nella influenza che la sua gestione possa avere a Cuba. Questo significa che i miei concittadini si rendono conto che dall’interno non è possibile cambiare niente. Purtroppo la società civile cubana è troppo frammentata e censurata per poter abbattere il muro.

Come ti piacerebbe il futuro di Cuba? Hai un’idea politica?

Vorrei che un giorno potesse accogliere tutti i cubani, senza segregazioni di carattere politico o ideologico. Mi piacerebbe vivere in una Cuba pluralista e tollerante, dove i miei nipoti non vengano definiti “vermi” solo per il fatto di esprimere opinioni critiche. Bada bene, questo agognato paese non è dietro l’angolo, dovremo lavorare molto per ottenerlo. Il disastro economico, l’apatia generalizzata, l’emigrazione costante e la sfiducia che esiste in ogni membro di questa società, sono difficili da superare. Ci attendono anni duri, per uscirne fuori dovremo tornare a sentire che l’Isola ci appartiene e che non è un feudo di poche persone chiamate a decidere tutto per noi. Io cercherò di svolgere il mio ruolo dalla società civile, non da una tribuna.

A Cuba esiste un movimento di opinione per il cambiamento?

Mi piacerebbe pensare di sì, ma ancora la gente sta molto attenta a dire in pubblico ciò che pensa sulla situazione politica, economica e sociale. Nell’intimità delle case e tra amici, si ascoltano voci di cambiamento, desideri che lo status quo in cui viviamo lasci il posto a una società partecipativa. A Cuba il risveglio della società civile procede lentamente ma negli ultimi anni ha fatto considerevoli passi in avanti. L’assenza di Fidel Castro ha significato la fine di un’ipnosi collettiva realizzata dalla sua figura. Dal giorno in cui codesto grande ipnotizzatore non ha più potuto prendere il microfono e fare un discorso di tre ore, la gente ha cominciato lentamente a risvegliarsi e a parlare.

Cosa credi che succederà il giorno che morirà Fidel Castro?

Se mi avessero fatto questa domanda alcuni anni fa, avrei detto che sarebbe cambiato tutto. Malgrado ciò, nel tempo trascorso da quel 31 luglio 2006 - quando è stata annunciata la malattia di Fidel Castro - fino a oggi, il governo cubano si è dato da fare per preparare i cittadini alla notizia della sua morte. Abbiamo visto spegnersi la figura dell’“invincibile” Comandante in capo, come in uno di quei film dove il protagonista si allontana per un lungo cammino fino a perdersi dalla nostra vista. Nonostante tutto, alla scomparsa del simbolo che rappresenta la sua persona, moti cubani penseranno che è terminata un’intera epoca. Alcuni si sentiranno alleviati e forse le vendite di rum andranno alle stelle, mentre altri piangeranno in pubblico e davanti alle telecamere. Finalmente entrerà a far parte del nostro passato. Un giorno, quando i miei nipoti mi sentiranno parlare di Fidel Castro, non sapranno se era un politico, una stella della musica tradizionale o un giocatore di baseball. Quel giorno, sentirò che finalmente avremo superato il suo enorme peso verde olivo sulle nostre vite.


Gordiano Lupi

“La Storia raccontata dalle donne? Più critica”

Alvaro Vargas Llosa, autore di Una Principessa tra due mondi (Ed. Anordest) traduzione di Raul Schenardi, afferma: “Esiste pochissimo materiale su questo personaggio” e spiega perché il nome e la vicenda di Francisca Pizarro sono rimasti nell’oblio.

intervista a Alvaro Vargas Llosa di Lara Ferrari (Giornale di Reggio)



Di Francisca Pizarro si erano perse le tracce storiche, perché nessuno si era preso la briga di raccontarne l’odissea. “Una principessatra due mondi. La meticcia di Pizarro” (Ed. Anordest) di Alvaro Vargas Llosa, traduzione di Raul Schenardi, è un importante romanzo storico che recupera la figura di Francisca, figlia del Conquistatore spagnolo e di una principessa Inca. Per la prima volta lo scrittore e giornalista, figlio del Premio Nobel Mario Vargas Llosa, riscatta dall’oblio la figlia meticcia di Pizarro. Il lettore si troverà immerso in un appassionante affresco della nascita del Nuovo Mondo visto attraverso gli occhi a mandorla di Francisca e agli avvenimenti capitali del Perú: l’uccisione del padre e le guerre per la successione, le lotte intestine fra i capi indigeni e l’arrivo degli inviati del re di Spagna. Costretta ad abbandonare per sempre la terra natia, si assegna di riscattare il nome e l’eredità del padre.

 Signor Vargas Llosa, Francisca è un personaggio trascurato dalla storia. Come è riuscito a "rintracciarla"?
Un amico mio mi prestò un libro della studiosa di storia Maria Rostworowski su Francisca Pizarro,
che è il miglior saggio storico scritto su di lei, anche se molto breve per la scarsezza di materiale
sulla sua vita. Mi interessò così tanto che iniziai a leggere tutto quello che potevo trovare, che non
è molto. Tutto ciò che esiste è citato nella bibliografia del mio libro. Mi sembrò che mancava
qualcosa che gli storici non potevano sapere: intuire cosa passava per la testa di Francisca nei grandi
momenti della sua vita. Ovviamente usai l’immaginazione. Non invenzioni ma interpretazioni del
perché fece quello che fece. È’ soggettivo, però non si può provare né smentire...

Che cosa emerge, di sconosciuto per i lettori, dal suo racconto narrato attraverso la voce di
Francisca?

E' una storia diversa da quella dei libri di scuola? I libri di scuola non parlano mai
di Francisca tranne qualche menzione come “la figlia del conquistatore”. Esiste pochissimo materiale
sulla sua vita infatti l’unica biografia completa che esiste è di una scrittrice peruviana, anche se
è più una monografia che una biografia. Pensai che per riempire questo vuoto fosse necessario
intuire ciò che non si poteva sapere oggetivamente. La mia interpretazione, per esempio, è che
quando Francisca va in Spagna e si sposa con suo zio Francisco Pizarro lo fa per lealtà a suo
padre, che vide morire quando lo assassinarono a Lima quando era molto piccola. E poi, verso la fine
della sua vita, la mia interpretazione del perché si sposi con un nobile lontano dalla famiglia
Pizarro e vada a Madrid a sperperare tutti i suoi risparmi, è che lo faccia per liberarsi dell’ombra dei
Pizarro.

Nei suoi occhi di peruviano, e anche negli occhi di Francisca, come vede lei la nascita del Nuovo Mondo e oggi, che cosa è diventato?
È uno dei più grandi fatti della stora dell’umanità. Fu traumatizzante e lo è ancora oggi. La  conclusione è che condusse il nostro emisfero nel mondo occidentale, però le istituzioni dei paesi colonizzati dalla Spagna e dal Portogallo in America Latina e nei Caraibi non sono ancora consolidate. Un’importante questione ancora irrisolta sono i meticci. Ciò che è stato fatto a riguardo
fino a oggi non è sufficiente. Di fatto ancora oggi esistono ferite aperte di chiara eredità  precolombiana in certe zone.


Invece, il Perù, il suo Paese, in che stato di salute versa oggi? Secondo lei, la Storia ha un debito verso il Perù?
Il Perù è uno dei paesi dell’America latina che va meglio. Ha una democrazia, anche se debole,
ma che si sta rinforzando poco a poco. L’economia sta facendo passi da gigante. Una parte della
popolazione non crede ancora nella democrazia ma il cammino è quello giusto. Si dice sempre che la Storia è raccontata dagli uomini. E' così, non le pare?

Lei con questo libro dà un contributo in senso contrario. Ed è un uomo. Che cosa sarebbe la Storia raccontata dalle donne?
Hanno raccontato la storia gli uomini perché alle donne non ne
è stata data l’opportunità. Se la raccontassero le donne sarebbe diversa perché volente o nolente
la storia che prevale è sempre quella dei vincitori e dei potenti. Supponendo che la storia che ci
racconterebbero le donne sia la stessa che quella che ci hanno raccontato gli uomini, sarebbe
senz’altro più ironica, più intuitiva, più attenta alla psicologia che sta dietro ai fatti, più critica rispetto
alla violenza e allo Stato. Mi piace pensare che sarebbe così.

martedì 24 luglio 2012

I funerali di Payá tra arresti e sospetti

di Yoani Sánchez – da El País


Vignetta di Omar Santana (El Nuevo Herald)

Almeno sette oppositori del governo di Raúl Castro, tra loro il giornalista indipendente Guillermo Fariñas, sono stati arrestati in seguito ad alcuni incidenti avvenuti durante i funerali di Oswaldo Payá, salutato da una moltitudine di persone durante un’emozionante cerimonia che si è svolta all’Avana. Oltre a Fariñas, sono stati arrestati anche gli attivisti Julio Aleaga, Ricardo Medina, Antonio González Rodiles e Ailer Rodríguez, portati via dalla polizia politica mentre uscivano dalla Chiesa El Salvador del Mundo per recarsi al Cementerio Colón, dove è stato seppellito Payá. Circa 500 persone avevano assistito alla messa officiata dal cardinale Jaime Ortega, nel quartiere avanero de El Cerro. Poliziotti in abiti civili si sono uniti alla folla che piangeva il leader scomparso, confondendosi tra familiari, amici, attivisti, corrispondenti stranieri e diplomatici. Decine di dissidenti sono accorsi nella capitale dalle provincie centrali e orientali per dire addio al leader del Movimento Cristiano di Liberazione.

La famiglia ha ribattuto il desiderio di un indagine trasparente sulle cause dell’incidente che ha provocato la morte di Oswaldo Payá e di Harold Cepero. Secondo la versione ufficiale, l’autista ha perso il controllo del veicolo che si è schiantato contro un albero, nella provincia di Granma, zona orientale del paese. “Non cerchiamo vendetta, ma abbiamo sete di verità”, ha detto Rosa María, figlia del dissidente, accompagnata dai suoi due fratelli.

Ofelia Acevedo, vedova di Oswaldo Payá, ha letto una breve dichiarazione del MCL che aveva come tema la continuità e la difesa dell’opera del marito. La Chiesa era affollata di gente commossa, i presenti si sono abbandonati a un caloroso applauso quando la bara è uscita dal tempio. “Payá ha avuto gli onori di un capo di stato, almeno per l’affetto popolare che di cui è stato circondato al momento dell’addio”, ha commentato qualcuno.

È stato proprio all’uscita dalla chiesa - intorno alle 9.50 (15.50 ora italiana) - che sono avvenuti gli arresti. Il corteo funebre si era già messo in marcia verso il Cementerio de Colón, partendo dalle vie centrali della città. Ogni auto della comitiva aveva esposto sul parabrezza una foto del dissidente scomparso, molti partecipanti indossavano una camicia con impresso il suo volto e formavano con il dito indice e pollice la lettera L, simbolo del Ofelia Acevedoe allusione alla richiesta di libertà.

All’interno di un umile panteon familiare oggi riposano i resti mortali di chi è stato il leader più promettente della dissidenza cubana. Senza dubbio è un duro colpo per le forze democratiche del paese che apre numerosi interrogativi sul futuro del movimento oppositore. Nonostante tutto, il funerale di Payá ha messo in evidenza una grande unità del movimento civico. In lacrime, commossi, in preghiera davanti al feretro, sono passati i volti di tutti i suoi compagni di viaggio, persino di alcuni che non condividono i programmi del Movimento Cristiano di Liberazione. Il funerale di Payá ha unito anche persone lontane dalle sue idee, per diversità di programmi e per scelte politiche. La sfida è quella di mantenere i punti di contatto raggiunti in questi giorni di lutto.

Molti si chiedono se sia stato davvero fortuito l’incidente in cui hanno perso la vita Payá e Cepero e sono rimasti feriti un cittadino svedese e uno spagnolo, che secondo fonti non ufficiali guidava il veicolo. Alcuni sono convinti che si sua trattato di un omicidio organizzato dalle forse repressive della polizia segreta castrista. Altri non si pronunciano e preferiscono attendere le testimonianze dei due stranieri. La serrata sorveglianza e le continue minacce cui era sottoposto il leader oppositore contribuiscono ad aumentare i dubbi sull’accaduto.


Traduzione e riduzione di Gordiano Lupi

El otro paredon esce negli USA



La Nazione del 24 luglio 2012

Il Booktrailer:

EL OTRO PAREDON
Eriginal Books LLC
Casa editorial de libros digitales

Il mio articolo sulla morte di Payá


Da Libero del 24/7/2012

Oswaldo Payá, artefice del Progetto Varela, candidato al Nobel per la Pace, una delle figure più rispettate della dissidenza cubana, è morto domenica durante un incidente stradale. Payá viaggiava a bordo di un'auto a noleggio insieme ad altre tre persone, quando è uscito di strada dopo essere stato investito da un camion. Il fatto è accaduto nella provincia orientale di Bayamo, in una località nota come La Gabina. La figlia Rosa Maria riferisce che il padre era stato vittima alcune settimane prima di un altro spettacolare incidente. “I ragazzi che viaggiavano con lui parlano di un’auto che ha tentato ripetutamente di farli uscire di strada. Non è stato un incidente. Hanno voluto uccidere mio padre”, denuncia. Yoani Sánchez non si pronuncia sulle cause della morte di Oswaldo Payá. Attende di parlare con i due stranieri - lo spagnolo Angel Carromero Barrios, membro del Partido Popular, e lo svedese Aron Modig - che viaggiavano con il candidato al Premio Nobel per la Pace, ricoverati in ospedale, ma fuori pericolo. La nota blogger afferma: “Il telegiornale non ha dato neppure la notizia della sua morte. Un sistema politico che non rende onore a un avversario scomparso dimostra mancanza di moralità e una meschina natura ideologica”. Insieme a Payá è morto anche il dissidente Harold Cepero Escalante, di Ciego de Avila. Antonio Díaz, uno dei sopravvissuti, membro del MCL a Miami, ha chiamato i familiari, confermando che l’auto era stata investita da un camion. La morte di Payá lascia un vuoto enorme all’interno della dissidenza cubana. Payá, di professione ingegnere, assurge a fama mondiale negli anni Novanta, per aver ideato il Progetto Varela, raccolta di firme finalizzata a chiedere una riforma costituzionale per traghettare Cuba verso democrazia, diritti civili e libera iniziativa privata. Subito dopo la presentazione del Progetto Varela, il governo dichiara “irreversibile” la forma di Stato socialista. Molti collaboratori del Progetto Varela vengono arrestati e condannati a lunghe pene detentive durante la Primavera Nera del 2003. Payá nasce il 29 febbraio del 1952, quinto di sette fratelli di una famiglia cattolica. Studia in una scuola del quartiere avanero del Cerro, entra in un prestigioso collegio religioso, chiuso dopo il trionfo rivoluzionario del 1959. Fin da adolescente muove critiche al governo di Fidel Castro, nel 1969 viene recluso in un campo UMAP (Unità Militari di Aiuto alla Produzione) per antisociali. Terminati gli studi secondari, si laurea in Fisica all’Università dell’Avana, rifiuta il marxismo ed è costretto ad abbandonare gli studi per conseguire la specializzazione. Nel 1980 lavora come esperto di apparecchiature mediche alle dipendenze del Ministero della Salute. Alla fine degli anni Ottanta fonda il MCL. Per il suo attivismo viene arrestato e recluso diverse volte, oltre a essere perseguitato dalla polizia politica. Per anni, la facciata della sua casa viene imbrattata con slogan e messaggi diffamatori tipo: “Payá: agente della CIA”. Nel 2002, l’Unione Europea gli assegna il Premio Sacharov per i diritti umani. Nessuna dichiarazione ufficiale da parte del governo cubano, se non un breve messaggio nel quale si legge che “la polizia rivoluzionaria sta accertando le cause della morte”. Il sito Internet del Movimento Cristiano di Liberazione non ha dubbi: “La responsabilità è di Raúl Castro e del regime comunista”.
Gordiano Lupi

Neanche l'eros sfugge a Castro e alla dittatura

recensione uscita su Il Giornale sabato 30 Giugno di Giuseppe Conte a "La moglie del colonnello" di Carlos Alberto Montaner, traduzione di Marino Magliani

Carlos Alberto Montaner, il giornalista e scrittore cubano in esilio nato nel 1943 e oggi residente a Madrid, non è un personaggio facile da definire. Basta verificare le voci dedicate a lui su Wikipedia: quella in italiano tende a gettare ombre sulla sua figura e a presentarlo come legato alla CIA, quella in inglese ne mostra l’importante militanza liberale. Così, per conoscere davvero Carlos Alberto Montaner, è meglio affrontare il suo romanzo che oggi un piccolo editore manda in libreria (La moglie del colonnello, edizioni Anordest, pagg.215, euro 15). Anche questo libro presenta due facce. Da un lato, potrebbe essere letto come un pamphlet anticastrista, tutto teso a mostrare gli errori e gli orrori del comunismo caraibico. Dall’altro, come un romanzo erotico, che inscena i meccanismi anche parossistici del desiderio. Ma forse La moglie del colonnello raggiunge i suoi effetti migliori quando fonde questi due aspetti in una forma carica di tensione drammatica. Un militare cubano viene incaricato di raggiungere il suo amico colonnello Gomez, che è in missione in Angola, e consegnargli «la busta gialla». Questa, nel gergo del Controspionaggio cubano, è la documentazione che viene portata a un marito, militare o funzionario comunista, circa il tradimento della moglie. Una busta del disonore, che obbliga il tradito ad abbandonare la propria compagna, pena la perdita del grado e la fine della carriera. Il Partito vuole entrare non soltanto nel cuore dei suoi iscritti, ma anche tra le loro lenzuola. La donna al centro del romanzo è Nuria, la moglie del colonnello Gomez, una bella psicologa che, pure restando comunista, è critica verso un paese che trasforma «la povertà in una virtù e la pessima qualità della vita in una dote morale», e che costringe tanti suoi abitanti a esiliarsi. Arrivata a Roma per un convegno, incontra un maturo professore di neurobiologia italiano, Valerio Martinelli, che è uno strepitoso erotomane, capace di irretirla con una progressione insinuante di proposte e di provocazioni. Il professore conquista Nuria attraverso una serie di lettere a Sherazade firmate «il Sultano», che sono un sommario di teorie sull’erotismo non senza riferimenti a Georges e Sylvia Bataille, a Lacan, a Reich, a Freud.L’eros qui appare come emblema di una libertà negata, e Nuria, personaggio affascinante, cerca nell’eros soprattutto una via di fuga da una concezione cupa e totalitaria della vita.

“BOLAÑO SELVAGGIO”: INTERVISTA A CARMELO PINTO

Introduzione e intervista di Giovanni Agnoloni
http://www.postpopuli.it/


È in uscita con Senzapatria Editore una grande raccolta di saggi sul geniale scrittore cileno Roberto Bolaño, di cui oggi ricorre il cinquantanovesimo anniversario della nascita. Bolaño selvaggio è il titolo. Curatori e coautori, Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau. Traduttori, dall’edizione spagnola della casa editrice Candaya, Marino Magliani e io. Desidero introdurvi a quest’opera, interessantissima, con un’intervista a Carmelo Pinto, creatore e curatore dell’Archivio Bolaño (http://www.archiviobolano.it/), il principale riferimento internettiano per gli amanti dello scrittore cileno in Italia. Carmelo è stato anche un nostro prezioso consulente nel corso dell’opera di traduzione dei saggi. Cerchiamo così di addentrarci nel segreto della straordinaria creatività di un autore che abbiamo perso troppo presto, purtroppo. Ma sicuramente si tratta di una delle penne più fertili della letteratura di fine Novecento e inizio Duemila, e probabilmente non finiremo mai di scoprire nuovi risvolti di significato, nelle sue opere. Personalmente, insieme a Tolkien lo considero, tra i contemporanei, il mio secondo grande Maestro.


Intervista a Carmelo Pinto:

- Nel momento in cui in Italia, con “Bolaño selvaggio”, esce la prima grande raccolta di studi su Roberto Bolaño, è quanto mai opportuno interrogarsi sul significato della parabola umana e artistica di quello che, a tutti gli effetti, è stato uno dei più grandi geni letterari degli ultimi trent’anni. Puoi delinearne i tratti essenziali?

Mi fa piacere che un editore abbia avuto il coraggio di pubblicare questa raccolta di saggi su uno scrittore la cui opera, apparentemente semplice, è in realtà complessa e rivoluzionaria. È difficile trovare, nella storia della letteratura, un’osmosi così forte tra l’uomo e lo scrittore, dove cioè la vita si fonde con la letteratura. Nel 1968, anno che i cileni ricordano per la grande siccità, lascia con la famiglia il Cile ed emigra in Messico per motivi economici. Bolaño allora aveva 15 anni. A 16 anni abbandona la scuola e decide che vuole diventare uno scrittore. Da questi pochi elementi della sua biografia si delineano già le peculiarità di questo autore, che rappresentano una diversità profonda e unica nel panorama della letteratura, non solo latinoamericana. Siamo cioè in presenza di un ragazzo di umili origini sociali, costretto a emigrare per sopravvivere, e che a 16 anni lucidamente rifiuta l’istruzione ufficiale a intraprende il suo viaggio di letture e di conoscenza da autodidatta. La sua formazione letteraria è selvaggia e solitaria, fuori da ogni canone, e si nutre della sua stessa esperienza di vita. Il suo viaggio continua, dal Messico al Cile nell’anno del golpe, e dal Cile di nuovo in Messico, per approdare poi in Europa, nel 1977, e stabilirsi in Spagna. Senza mai smettere di leggere e di nutrirsi di quella Universidad desconocida più volte evocata. Accetta qualsiasi lavoro che gli assicuri la mera sussistenza e legge, legge senza sosta, i classici greci, i filosofi, gli scrittori latinomericani, statunitensi, francesi, russi, italiani, spagnoli, tedeschi…. Legge soprattutto i poeti, di ogni latitudine e di ogni tempo. L’amore per la poesia, di cui era vorace lettore, è forse un altro tratto distintivo di questo autore, che rende la sua scrittura così peculiare e rivoluzionaria. Bolaño si spoglia di ogni retaggio nazionale. È uno scrittore extraterritoriale, è stato detto. fForse per la prima volta nella storia della letteratura, siamo in presenza di uno scrittore senza patria, o forse con tante patrie quasi quanti sono i libri che ha letto: “la scrittura è il mio passaporto”, dice. Insomma, la sua scrittura nasce da una formazione anarchica e selvaggia, fuori da ogni canone letterario e da ogni tradizione “nazionale”, e si nutre di una vita nomade e vissuta ai margini. Ma si nutre anche di vaste e interminabili letture, e soprattutto di poesia.

- Bolaño è diventato un “mito”, uno scrittore che, fors’anche per la sua prematura scomparsa, è entrato nella sensibilità e nell’affetto di milioni di lettori, tanto che risulta difficile non pensare a lui, oltre che come superbo narratore, come a un “amico”. Perché, pensi?

La mitizzazione, anzi la mistificazione di Bolaño, è un fenomeno che investe soprattutto gli Stati Uniti, dove si tende a fare dell’autore un personaggio. Ci sono altri motivi ancor meno nobili che spingono i gringos a ridefinire ancora una volta il mito dello scrittore latinomericano, ma sarebbe noioso parlarne qui. Bolaño era una grande affabulatore. Tutti quelli che l’hanno conosciuto sottolineano la sua capacità di trasformare in storie avvincenti e interessanti anche il più banale fatto quotidiano. È difficile da spiegare, ma in qualche modo il lettore si sente protagonista delle sue storie. Un po’ come seguire il corso di un fiume nuotandoci dentro. Vorrei anche dire che, a leggere Bolaño, si prende una specie di virus che ti costringe a leggere, e non solo i suoi libri.

- I detective selvaggi e 2666 sono i pilastri di una produzione letteraria molto più ampia, diffusa in Italia attraverso le edizioni Sellerio e Adelphi. Qual è il succo essenziale dei due capolavori, e quale il senso della circolarità della produzione del Cileno, che sembra essere percorsa da un filo conduttore ininterrotto?

Questa è una domanda difficile, alla quale come lettore cerco continuamente di dare una risposta. Al contrario di quanto possa apparire, la scrittura di Bolaño non è casuale e improvvisata. Tutta la sua opera, o almeno le sue opere principali, nasce da un progetto concepito e sviluppato nei primi anni di residenza in Spagna, alla fine degli anni ’80. Bolaño ha concepito un universo dotato di leggi sue proprie, dove ogni opera è parte di un sistema, e come tale va letta. Le opere si sviluppano in forma radiale, e così le storie al loro interno. La struttura arborescente o reticolare dei testi di Bolaño permette al lettore una maggior libertà. Puoi leggere le “parti”, o le infinite storie all’interno di una storia, in modo frammentario, autonomo e non necessariamente lineare. L’iperconnettività del testo dà al lettore una sensazione di instabilità permanente, come dice Patricia Espinosa: “Ogni punto, ogni elemento all’interno della sua narrativa sembrerebbe avere la potenzialità per esplodere in qualsiasi istante, rendendo estremamente incerta l’origine e l’effetto che solo alcuni momenti prima sembrava così convincente.” L’opera di Bolaño nasce dalle macerie e dalle miserie della storia occidentale del Novecento, che ha registrato gli orrori delle dittature, il disfacimento delle illusioni rivoluzionarie, il progressivo svuotamento degli stati nazionali e, con essi, delle identità individuali. Ma anche una critica feroce contro la logica e il buon senso, i canoni e le accademie, incapaci ormai di capire la realtà, impotenti di fronte ai mali del mondo. Ma, come dice la Espinosa, “Proprio laddove un’idea riesce a prendere il controllo e diventare egemonica, sorge una ribellione anarchizzante, una pulsione verso la rivoluzione permanente. In questo modo, non possiamo che constatare il carattere parziale e transitorio delle nostre disquisizioni, che risultano essere come un’intenzione di instaurare dei predomini analitici che saranno continuamente superati dall’intransigenza rivoluzionaria dei testi.” Non mi sorprenderei, quindi, se i lettori avessero delle idee del tutto diverse e perfino contrarie su questo autore. Un autore che, come dice Fresán, era “un lettore che scrive” e non “uno scrittore che legge”, come fanno molti scribacchini odierni.

- È lecito guardare a Bolaño come a un moderno “mitopoieta”, che ha saputo cogliere, nella (post)modernità, tratti archetipici eterni dell’essere uomo?

Non spetta a me. semplice lettore, rispondere a questa domanda. Certo è che lo sguardo di Bolaño è riuscito a cogliere le inquietudini che hanno accompagnato la seconda metà del secolo scorso e i segni del disfacimento delle società occidentali.

- Che cosa ami di più, nelle sue opere?

Parafrasando una frase contenuta in 2666, leggere Bolaño “è come pensare, come pregare, come parlare con un amico, come esporre le tue idee, come ascoltare le idee degli altri, come ascoltare musica (sì, sì), come contemplare un paesaggio, come uscire e fare una passeggiata sulla spiaggia.” Quando leggi Bolaño ti trovi di fronte a un testo in continuo movimento, che sembra essere sempre sul punto di esplodere e di sfilacciarsi. E invece, miracolosamente, viene tenuto insieme da un respiro di fondo sapiente. Questo mi piace di più, delle sue opere. La mobilità e la tensione del testo. Il suo respiro poetico. Il carattere assolutamente anarchico e allo stesso tempo rigorosamente strutturato dei suoi testi. E amo anche la libertà che viene concessa al lettore, le infinite possibilità di lettura delle sue opere. Puoi leggere in modo frammentario, progressivo, reticolare, intertestuale… In questo si può dire che abbia anticipato le potenzialità della rete.

- Quanto sono importanti le dimensioni del viaggio e del sogno, nella sua scrittura, e che cosa le contraddistingue l’una dall’altra?

I personaggi di Bolaño vivono ai margini della società e della cultura, hanno una personalità inquieta e indefinita, sono nomadi spaesati che vivono nella “terra di nessuno”. Vivono cioè in uno spazio extra-territoriale dove i paesi e i confini sono evanescenti. Sono persone che non hanno nessuna ragione per restare in un determinato luogo, e per questo sono continuamente in marcia. Non importa dove vanno né da dove vengono, e non importa se il viaggio finisce sempre con una sconfitta. Ciò che conta è sottrarsi all’immobilità non solo fisica, ma soprattutto mentale, e intraprendere il viaggio alla ricerca di uno spazio interiore ed esteriore. In questa dimensione del viaggio (che non è mai lineare) si innestano i sogni, i ricordi, i deliri e le allucinazioni: lo sguardo attraverso il quale l’artista cerca di decifrare la realtà più profonda e inquieta. “Scopare, leggere e viaggiare” – parafrasando uno dei suoi ultimi saggi che consiglio a tutti di leggere – sono queste le attività a cui si dedicano i personaggi di Bolano, spinti dall’inquietudine, dal sogno dalle allucinazioni e dal peso dei ricordi.

- www.archiviobolano.it è un sito meritorio, per la presentazione completa e stimolante che offre dell’opera del Cileno. Parlaci di questa realtà, che coordini personalmente.

Quando penso al mio incontro con Bolaño, mi sembra di essere uno dei suoi personaggi. Ho letto per la prima volta il suo nome, nel 2009, casualmente su un forum di internet e l’ho subito dimenticato. In quel forum veniva citato un titolo di un suo libro, rappresentato da un numero, anche se non ricordavo bene la cifra esatta. Casualmente ho acquistato 2666 nell’agosto 2009, prima delle vacanze. Casualmente ho cominciato a leggerlo con diffidenza e, devo dire, noia. Fino a pagina 40 sono stato più volte sul punto di abbandonarlo. Poi credo di aver contratto una specie di virus devastante. Come dicevo, il bello di Bolaño è che ti instilla la passione della lettura, ma non solo dei suoi testi. Per gioco ho cominciato a cercare le recensioni italiane dei suoi libri e le ho pubblicate in un blog. Poi ho cominciato a leggere le recensioni in spagnolo, le interviste… è nata così l’idea di creare un archivio. Un archivio che vive grazie alla passione di molti lettori che mi aiutano nel lavoro di traduzione, o di sottotitolazione dei video, e con i quali mi confronto e discuto. Se permetti vorrei citarli tutti: Manuela Vittorelli, Sofia Vitiello Maria, Susanna Vancini, Chiara Valentina Speziale, Davide Rivelli, Eugenio Santangelo, Davide Margari, Andrea Firrincieli, Gianni Errera, Michele Gigliotti, Stefano Cristi, Mario Cataldi, Paolo Castronovo, Federico Bona.