dalla rivista Voces numero 8
Pinar del Río è la Cenerentola, la coda di questo caimano addormentato, il punto più occidentale di un paese che da tempo ha smesso di definirsi occidentale. Una località che migliaia di avaneri ricordano bene perché è stata la loro sede di lunghi periodi di scuola - lavoro in campagna, caratterizzata dalle prime ore del mattino fredde e dalla resina del tabacco che si appiccicava ai vestiti e strappava i peli dalle braccia. Pinar del Río è anche una zona difficilmente raggiungibile. Se non ci credete provate a comprare un biglietto di treno o di autobus, a Santa Clara o Camagüey, alla volta di questa anonima città situata a 150 chilometri di distanza dalla capitale. Non ci sono mezzi di trasporto che dal centro o dall’oriente di Cuba raggiungono la terra del Cuyaguateje. Il cinema Praga è chiuso, la gelateria Coppelia vende gelati con un solo gusto. Pinar del Río è - in un certo senso - più Isola della stessa Isola dei Pini, più paludosa della palude di Zapata, più asciutta dell’arida Guantánamo. La sua pochezza deriva dall’oblio, la siccità provoca l’emigrazione costante dei suoi abitanti verso terre che garantiscono speranze maggiori, il torpore proviene dal collasso economico, anche se i cartelloni politici abbondano di trionfalismo.
Riconosciamolo, i racconti infantili - e le fiabe politiche - ci hanno ingannato. A Cenerentola non fu data neppure la scarpa, promessa da un principe che non era interessato a farla vivere nel palazzo.
I pittori prendono per mano e sostengono una triste damigella come Pinar del Río, perché si tratta di una zona eccellente per dipingere, realizzare figure che escono dalla ristretta cornice di un quadro, dai contorni tracciati in olio e acrilico. Pinar del Río non possiede illuminazione pubblica per strada, ma ha avuto in dote il perenne splendore della creazione artistica. Quando a gennaio del 1998 l’aereo di Giovanni Paolo II sorvolò la regione, nei terrazzi e nei cortili migliaia di abitanti di Pinar del Río si puntarono frammenti di specchi in direzione del velivolo papale che non sarebbe mai atterrato in quel luogo. Questa regione di confine della nostra isola, si lascia sedurre dalle evoluzioni che produce la luce, è affascinata dai riflessi e dalle fosforescenze.
Forse per questo motivo, è stata concepita e realizzata “El gran apagón” (“Il grande black-out energetico”), opera di Pedro Pablo Oliva, che molti critici definiscono il Guernica cubano. L’oscurità e i volti disperati - non per i proiettili ma per le mancanze del Periodo Speciale -, sono stati prelevati da Oliva proprio dalla sua martoriata realtà di provincia. Il pittore aveva già realizzato un’opera degna di essere esposta nei musei di tutto il mondo, ma la riproduzione del degrado materiale e morale di quel periodo è stata così realistica da farlo entrare nell’immaginario visivo dei suoi compatrioti. “Deve essere di Pinar del Río”, dicevamo, e non ci riferivamo alle barzellette crudeli che circolano sul conto di chi è nato in questa zona del paese. Lo dicevamo perché sappiamo che per loro l’oscurità vale il doppio, la miseria è maggiore, la disillusione è più profonda.
Proprio come chi ha una lanterna in mano, Pedro Pablo Oliva dette luce al crepuscolo. Aprì la sua casa - laboratorio in una rotonda circondata da abitazioni coloniali, che subito si trasformò nella zona più vitale di tutta la città. Dopo aver attraversato l’ampio porticato si arriva in una sala piena di sedie a dondolo e di sculture. Un rubinetto di terracotta mostra una goccia d’acqua perenne che non cade mai sopra il legno del tavolo dove è posizionato. Il cortile al termine della grande casa è proprio come Oliva: accogliente, ridente e saggio. All’interno del suo studio possiamo incontrare con il pennello in mano lo stesso uomo che mescola con coraggio i colori nei dipinti e gli amici nella vita.
Quando vinse il Premio Nazionale delle Arti Plastiche, nel 2006, pensavamo che si sarebbe goduto il meritato riposo. La abulia placida che s’impadronisce di coloro che credono di aver raggiunto il risultato più grande. Ma non fu così, perché decise di continuare a occuparsi dei problemi, che per un pittore significa continuare a dipingere. Inoltre entrò a far parte dell’Assemblea Provinciale del Potere Popolare, organismo che non ha niente a che vedere con l’arte, ma che riteneva utile per realizzare certe illusioni che nutriva. Credeva di poter influire nell’andamento nazionale come un cittadino, nel ruolo di delegato, militando nel solo partito consentito dalla legge. Tutti ci chiediamo fino a che punto questa affiliazione ideologica gli abbia permesso di avere successo nella sua attività pittorica. Preferisco credere che i suoi coraggiosi dipinti abbiano sempre compensato ogni altro tipo di prudenza, qualunque controverso applauso.
Viviamo, purtroppo, tempi di definizioni estreme e di inquadramenti stereotipati. Una persona che possa parlare con il Ministro della Cultura e al tempo stesso frequentare un ricevimento in un’ambasciata europea non rientra in nessuno dei modelli che ogni giorno guadagnano più forza giuridica e mediatica. Per questo motivo intorno a Pedro Pablo Oliva cominciò a crescere il rancore, molte persone mormoravano alle sue spalle per cercare di fargli lo sgambetto e metterlo in difficoltà. Lui è un contadino schietto e sincero, capace di dire “pane al pane e vino al vino”, per questo cominciò a dire ciò che pensava su alcuni argomenti spinosi. Temi di fronte ai quali altri mantengono un prudente silenzio. Oliva avrebbe potuto starsene zitto senza problemi. Ricordiamo che la possibilità di commerciare i prodotti della propria arte all’estero e di guadagnare quella moneta forte - con la quale non vengono pagati i nostri salari - ha chiuso la bocca di parecchi artisti. Abbiamo visto persone rinunciare allo scontro e alla critica, così come molti hanno messo da parte audaci dipinti di zattere in fuga in cambio di una dimora nella zona più esclusiva della capitale.
Nessun beneficio materiale ottenuto grazie al talento sarebbe osceno se non fosse accompagnato dalla complicità e dalla simulazione. Posizioni simili, purtroppo, sono la malattia comune dell’arte cubana prodotta all’interno dell’Isola. Troppe concessioni, troppa paura, troppa UNEAC (Unione degli scrittori e degli artisti cubani, ndt), troppo Abel Prieto (Ministro della cultura, ndt), troppo “all’interno della Rivoluzione tutto, contro la Rivoluzione niente”. Si nota in ogni tratto, si percepisce nelle pieghe folcloristiche e di costume che inondano le tele, nei motivi facili che vengono adottati per vendere e non avere problemi.
Pedro Pablo Oliva avrebbe potuto scegliere di invecchiare in pace, mantenere il “titolo nobiliare” che gli aveva assegnato il Potere Popolare, rifugiarsi nella sua grande casa dalle alte colonne e sfruttare la possibilità di compiere viaggi all’estero. Il giorno in cui ha deciso di esprimere la sua opinione lo abbiamo guadagnato alla nostra causa, ma lui ha cominciato un lungo percorso, oscuro proprio come “El gran apagón”. Il fatto - tra le altre cose - di concedere un’intervista e di inviare una lettera dove dichiarava di essere favorevole all’esistenza di altri partiti, gli ha causato una punizione sproporzionata e alcuni attacchi verbali che denigrano soprattutto chi li pronuncia. Ritengo che - trovandosi o meno nella stessa sponda ideologica da lui assunta - non sia questo il momento di rimproverargli di aver scelto la sincerità. Dare un benvenuto tollerante nel gruppo dei non conformi è il modo di dire a chi non ha osato pronunciarsi criticamente che da parte nostra non ci sarà mai rimprovero e vendetta, ma soltanto sostegno. Buona parte di noi che oggi siamo demonizzati dalla propaganda ufficiale, un giorno abbiamo dovuto scegliere tra la maschera e il castigo. Non è stata una scelta facile, abbiamo avuto incertezze e sensi di colpa, ci sono state persone pronte ad avvertirci che “saremmo stati manipolati”, come se per decenni il governo cubano non avesse manipolato il nostro silenzio, sommandoci - visto che non esprimevamo opinioni - alle cifre gonfiate di coloro che applaudono. Adesso il pittore di un “Saturno che divora i suoi figli” quasi premonitore, si è fatto notare pubblicamente come uno che non tiene dentro ciò che pensa.
La lettera che ha scritto nel suo sito internet, dopo essere stato destituito dalla sue funzioni come deputato, lo testimonia. In quel documento non leggo un conveniente mea culpa per aver pensato con la sua testa, espresso opinioni, contattato persone come Dagoberto Valdés o come me che sto scrivendo. Il suo testo sembra piuttosto il testamento di un disilluso. La stessa riflessione che avrebbe potuto scrivere mio padre quando vide sprofondare nel caos le sue amate ferrovie. Lo stesso ragionamento che una ventina di filologi, laureati con me nell’anno 2000, avrebbero fatto per giustificare il loro abbandono di un paese senza futuro. Non c’è pentimento, ma dolore in ogni frase di quella dichiarazione pubblica di Pedro Pablo Oliva, che ha già aperto uno spazio su Twitter contrassegnato #PPO. È il fastidio di chi ha creduto che “cambiare tutto quello che deve essere cambiato” non fosse solo una frase pronunciata dal palco o musica per gli orecchi degli ingenui.
Oggi la rotonda di calle Martí è oscura proprio come il resto di Pinar del Río. Sembra il tallone ferito di una Cenerentola che cerca di calzare una scarpa inadatta per un piede umano. Un sistema che relega ai margini una persona con la capacità creativa e la sincerità di Pedro Pablo Oliva, non può farci credere che vuole il bene della nazione, il meglio per i suoi figli. Se chiudono i centri culturali dei militanti e accusano di “tradire” la patria persino a chi la pensa come loro, che cosa accadrà ai contestatari, agli oppositori frontali e agli scettici di sempre?
Speriamo che questo caso smuova la coscienza di altri artisti e faccia uscire fuori la voce che da tempo trattengono. Se l’interruttore di una lampada viene pigiato troppo spesso arriva il momento che la luce muore. Un ultimo barlume di luce se n’è andato con questo castigo, è sfumata un’estrema possibilità di dare un po’ di colore a un così pallido progetto sociale, una sfumatura di tolleranza e di pluralismo. A Pinar, per il momento, non se ne vede neppure l’ombra.
Traduzione di Gordiano Lupi
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