un libro di Guillermo Cabrera Infante
Non è possibile cancellare il passato, meno che mai cambiarlo. Quel che serve è una macchina del tempo per riviverlo e io dispongo soltanto della mia memoria. Non sono un eroe dei fumetti come Brick Bradford, non possiedo fantastiche invenzioni da utilizzare. Procedo per flashback e in questo mi aiuta il mio amore per il cinema, vera ragione di vita, ché non so davvero cosa sarebbe stata la mia esistenza senza il cinema. Il mio passato è un fantasma che non devo convocare ricorrendo a un medium e neppure invocare grazie ad astruse magie. Il mio passato è uno spirito che non muore ma che di tanto in tanto torna a far visita come un vampiro in fuga dai miei giorni lontani. Il mio passato si chiama Estela, ninfa incostante, ragazzina adolescente iniziata all’amore, Lolita che abbandona la casa della madre e fugge con me alla scoperta delle notti avanere, di posada in posada, stella della mia notte che mi convince a lasciare moglie e figlie.
Estela, Estelita, Stella Morris… adesso sei morta, della morte più innaturale: la morte naturale, uccisa dal tempo che passa inclemente, adesso ti puoi trasformare nel personaggio che dà vita alle pagine del mio romanzo più vero. Sopravvivo per ricordarti; ora che non ci sei più è facile esplorare la memoria, anche se il tuo ricordo è sempre stato indimenticabile.
Estela è il sogno della mia Avana di tanti anni fa, di quando ero ancora a Carteles e scrivevo recensioni di cinema, del tempo in cui credevo in un mondo migliore e volevo cacciare un tiranno. Ma lei non aveva niente a che vedere con la politica, era soltanto il mio sogno d’amore che rivivo ogni notte quando ripercorro La Rampa e calle 0, ripensando alla mia Avana, isola incantata di cui ero esploratore e guida. In quel periodo L’Avana era il centro del mio universo, percorrerla era un viaggio intergalattico tra due soli, mentre Estela era soltanto una piccola adolescente. Il Malecón era una scenografia dipinta e frastagliata che si apriva al paesaggio marino, il muro color sabbia sembrava una spiaggia di cartone anche se si trattava di cemento armato. L’Avana terminava nel Malecón, il resto era soltanto mare: è stato proprio là che l’ho vista per la prima volta, quando non era neppure maggiorenne e io non lo sapevo. Era bionda, forse biondiccia, se ne stava in penombra, come se non avesse voluto farsi vedere. Lei era l’incantatrice e io l’incantato, era una farfalla diurna con le sue ali composte dai capelli che si muovevano come se volesse posarsi ma non avesse tempo. Estela sconvolse la mia vita, la percorse come un tornado per cambiarla da cima a fondo, pure se allora vivevo per la letteratura, per scrivere, per raccontare la vita attraverso invenzioni. Estela non mi capiva, diceva che ero troppo colto, che la mia cultura la distruggeva, ma io non le facevo caso, continuavo a parlare e volevo sentire la sua voce, unica ragione di vita in un periodo tempestoso. Estelita era tenera come la notte e rischiarava un cielo senza luna, percorrevamo insieme le strade della capitale al tempo in cui credevo che fosse amore e non soltanto furibonda passione. La mia Estelita, profumata come un fiore notturno, era la mia divinità, la mia catena d’amore, come canta il bolero; sentire il profumo della sua pelle per me significava raggiungere uno stadio divino.
Ricordo Estela durante le notti insonni di Londra come il frutto della nostalgia del passato, forse perché ero molto giovane e la vita non aveva spento il fervore delle illusioni, forse perché vorrei tornare a quel tempo perduto, riviverlo proustianamente nel ricordo.
Estela non era una donna, era una bambina vestita da eroina francese, proprio come nei film che tanto amavo, ma per lei non esitai ad abbandonare mia moglie, seguendola in un’avventura di passione, nel turbine del peccato. Era una farfalla appena uscita dalla sua crisalide e fu con me che perse la verginità, perché le donne sono come i libri, si tende sempre a portarle a letto, c’è poco da fare. Per i libri intatti è più semplice, però, basta un tagliacarte ben affilato. Estelita era vergine e aveva appena sedici anni. Fu con me che divenne donna. Ricordarla stasera equivale a registrarla per sempre nel ricordo. E io la ricordo tutta, forse non basta la memoria per contenerla, perché Estela è come L’Avana che appare indistruttibile nel ricordo, la sola cosa che la rende immortale. All’Avana si torna sempre per ricominciare, perché le città muoiono proprio come gli uomini, se non ci sono magie peculiari capaci di modificare lo scorrere degli eventi. Allora è meglio dimenticare il tango e cantare un bolero, lasciare da parte il dramma e pensare al sentimento. Rammento che la prima volta che facemmo l’amore - in verità una delle poche volte - fu in una posada, piccolo albergo di passaggio, l’hôtel de passe dei francesi, rifugio ideale per una coppia clandestina, perché nessuno chiede nome e cognome, stato civile, documento d’identità. Estelita nuda sul letto sembrava una delle donne di Delvaux, pallida e dorata al tempo stesso, con il pube appena illuminato dalla luna che filtrava dalle finestre socchiuse. Io e la mia ninfa incostante eravamo in fuga, lei da sua madre, dalla sua casa, io dalla mia vita, dalla mia famiglia, stavamo commettendo molti errori, ma questo è il sale della vita, non altro.
Estelita non mi amava, però. Lei non amava neppure se stessa ed era infedele a tutti. La sua infedeltà maggiore la riservava al senso comune, alle convenienze sociali, alle convenzioni. La sua insolenza non era una maschera, era realtà. Lei non aveva la benché minima idea di cosa fosse il peccato. Mi accusava - come se fosse una colpa - di essere un intellettuale e mi dava del dongiovani, diceva che dopo aver conquistato una donna mi allontanavo sempre da lei. Forse era vero, ma con lei non era successo, anzi era accaduto il contrario, perché Estelita non manifestava il suo amore, mi lasciava solo con la mia passione sconfitta a percorrere questa Creta circondata da cretini - per dirla con Piñera - che era L’Avana, questa città che fa gli uomini e poi li distrugge con i raggi d’un sole giustiziere. Le strade esposte al sole sono sempre state mie nemiche, ma ce ne sono alcune terribili come Línea nel mese di agosto e calle 23 sotto il sole di luglio. Calle Línea - si chiama così perché c’era la linea dei tram quando L’Avana era una città elegante e non un inferno distrutto dalla storia come adesso - non è la mia strada favorita. Non la odio come San Lázaro, ma non vivrei là per nessun motivo al mondo, pure se era la strada dove era andata ad abitare la mia Estelita. Dovevo percorrere San Lázaro pure se l’odiavo, perché amavo chi viveva in quel luogo. Non potevo andare nella calle Calzada - ancora la mia strada preferita - solo perché un tempo era stata la casa di sua madre. Mi presentavo a lei come un amante sconfitto e le dicevo: “Credo in questa strada, in questo quartiere, El Vedado, credo nell’Avana, nel mare, nella corrente del Golfo, nel tropico. Credo anche in te. Credo in te come credo nella città e nella notte”. Perché si poteva credere in una donna, perché lei era la mia donna, il mio amore. Estela era una ragazza naturale, non come tante donne che ho conosciuto che passavano la vita recitando una parte. Lei no. Lei era sincera e spontanea. Amava dire parole sconvenienti, ma le diceva con serenità, senza affettazione, senza atteggiarsi. Pronunciate dalle sue labbra perfette le parole sgarbate erano perle imperfette che si dovevano accogliere come doni. La pelle di Estela irradiava luce, rifletteva essenze naturali, anche se la nostra relazione è stata un lunghissimo coito interrotto che non abbiamo mai completato. Se Estela era nata per essere infelice c’è riuscita senza problemi, anche se adesso per me il suo corpo umano si è trasformato in corpo divino, in un fantasma che segue i ricordi.
Una notte decisi di dimenticare Estela e di tornare alla mia vita d’un tempo dopo la tempesta che aveva sconvolto abitudini e pensieri. Fu un’operazione chirurgica che praticai sul mio cuore senza anestesia. Fu molto dolorosa. Non c’era luna quella notte. Non c’era luce in cielo se non quella delle stelle e di pochi lampioni pubblici. Estela era la mia malattia e io dovevo estirparla, ma non potevo ucciderla, dovevo solo dimenticarla. Un capriccio dura più d’una grande passione, dice Oscar Wilde. Il mio capriccio era durato abbastanza. Estela era stata parte della mia vita e in una notte di pioggia avanera, quando piove davvero e si può credere che sta per cominciare il diluvio universale, ne usciva completamente. Lei non negava la vita ma neppure l’affermava. Per me la letteratura era più importante della vita. In ogni caso era il mio modo di vivere la vita. Una vita che ho cominciato con lo pseudonimo di Caín e che ho portato avanti nello scenario cinematografico di Hollywood con quello di James M. Caín. Sono sempre stato Guillermo Cabrera Infante, scrittore cubano in esilio dalla follia, sotto il cielo di Londra, scrittore romantico a caccia di conflitti tra l’amore e la vita, che ha letto l’Odissea a sedici anni e ha conosciuto quel vecchio ubriacone vanitoso di Hemingway al Floridita. Il mio temperamento di esteta mi ha fatto fantasticare a lungo sulla mia Estela scomparsa. Estelle a disparu, avrebbe detto Proust. Estela se ne andò senza rimpianti. L’ultima volta che la vidi passeggiava lungo calle Línea e fu allora che mi dette l’ultima amara sorpresa della nostra storia. Non è una telenovela, amico lettore che mi hai seguito sin qui, no davvero. Sono cubano ma non amo le telenovelas, mi piace il neorealismo, raccontare le cose come stanno pure quando la verità fa male al cuore. Estelita mi disse che era lesbica, che lo era sempre stata, anche se inconsapevole, che io le avevo aperto gli occhi e lei aveva capito, finalmente. Mi disse che io le ero servito a scappare di casa e a liberarsi di sua madre, soltanto questo ero stato per lei, dovevo rassegnarmi. E allora ho scritto un romanzo solo perché lei è morta, un romanzo dove la ricordo e mi perdo alla ricerca del tempo perduto. Non c’è dolore più grande che ricordare giorni felici quando si è tristi, dice Dante. Ma dovevo ricordare Estelita e soprattutto scrivere di lei, del mio amore adolescente, della mia passione che si è trasformata in stella.
L’Avana è una grande città ma non è una città grande, però la fuga di Estelita ha cancellato la sua immagine. Tutto passa nel ricordo, tutto passa nel tempo, ma l’immagine di Estelita mi perseguita ancora. Ho dimenticato molte ragazze, molte donne, ma non posso fare a meno di ricordare Estelita, freddo amore sotto la luna avanera, incontro imprevisto sul Malecón, vissuto nel rimpianto tra calle Línea e Calzada. Vaga Estela della mia notte, di una notte interminabile, che resterai per sempre nel mio cuore. E quel romanzo, credimi, non avrò mai il coraggio di farlo pubblicare.
Gordiano Lupi
Nota: Il romanzo è stato pubblicato postumo sotto il titolo La ninfa incostante (2008) da Galaxia Gutemberg/Circulo de Lectores, perché Guillermo Cabrera Infante è morto a Londra nel 2005. In Italia è uscito adesso (novembre 2012), riportando in auge un grande scrittore, Premio Cervantes, molto amato da Mario vargas Llosa.
La ninfa incostante – di Guillermo Cabrera Infante
Minimum Fax/Sur, 2012 - Pag. 300 – Euro 15 - 978-88-97505-14-3
Un romanzo geniale: Letteratura, con la L maiuscola (El País). Estela Morris, la conturbante ninfa del titolo di questa storia nostalgica e spassosa, solare e rocambolesca, ha appena sedici anni quando il protagonista del romanzo (dichiaratamente autobiografico) la incontra sulla calle 23 dell’Avana e si lascia convincere per amore a diventare suo complice in un delitto... Nelle parole dello stesso Cabrera Infante, «Estela è il sogno della mia Avana di tanti anni fa, quando credevo in un mondo migliore. Era il mio sogno d’amore, che rivivo ogni notte quando ripenso alla mia Cuba, isola incantata di cui ero esploratore e guida. In quel periodo L’Avana era il centro del mio universo, percorrerla era un viaggio intergalattico tra due soli, ed Estela era una bambina vestita da eroina francese». Il romanzo postumo di un grande narratore, una pirotecnia di calembour e gag comiche, uno scrittore da riscoprire. Con un saggio di Mario Vargas Llosa. Traduzione di Gordiano Lupi.
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