di Guillermo Cabrera Infante
Ero andato all’Avana portando con
me soltanto una piccola valigia, sicuro che presto avrei fatto ritorno a
Bruxelles. I miei amici dicevano sempre che ero malato di bruxellosi,
non capivano che cosa ci trovassi di così affascinante in quella grigia città
europea. Non lo sapevo neppure io, allora. Poi l'avrei capito, ma serviva
tempo. Nella mia ventiquattr’ore avevo messo un po' di biancheria, una
camicia di ricambio e un paio di pantaloni sportivi. Non volevo restare a Cuba
più del tempo strettamente necessario a vedere mia madre, ormai morta,
seppellirla, prendere le mie due figlie e tornare da Miriam Gomez.
Avevo fatto ritorno a Itaca ma non mi sentivo Ulisse: la mia Penelope era
rimasta ad attendere nella vecchia Europa. Non sapevo che il mio
sogno ricorrente stava per diventare realtà. Se la mia vita fosse un film,
l'avrei chiamata parte onirica, e Dio solo sa quanto ami il
cinema, è parte della mia vita, da sempre. Il regista avrebbe cambiato
fotografia, oppure avrebbe trovato un escamotage tecnico per far capire
che era una parentesi della storia. Io sono un povero
scrittore. Non mi resta che il corsivo. Mi trovo a
Cuba, aeroporto internazionale José Martì, sto per salire a bordo di
un aereo diretto in Europa e mi rendo conto di non avere il passaporto,
oppure - in una variante del sogno - mi accorgo di essermi
dimenticato di andare al Ministero per ottenere il visto di uscita dal Paese.
Ecco, questa sequenza onirica, avrebbe preso forma di tangibile realtà. Ancora
non lo sapevo, ma stavo per finire nel Castello di Kafka, inghiottito
dai gorghi della burocrazia totalitaria.
Ero in volo sulla mia
isola. Itaca era sempre più vicina e mi trasmetteva sensazioni
contrastanti. Attrazione e repulsione. I ricordi della mia
giovinezza avanera e dell'infanzia orientale si affacciavano alla memoria
come spiriti inquieti del passato. Le palme inchiodate al terreno
rossiccio, il verde intenso delle grandi sequoie, i condor neri e
minacciosi, il paesaggio soleggiato, il cielo reso bianco dal sole, le lunghe
strade fiancheggiate da palme. Era la mia Avana. Cominciavo a prendere
contatto con la mia terra appena sceso dall'aereo, percorrendo in auto la calzada
Rancho Boyeros e l’avenida De Los Presidentes. Fu come un colpo
al cuore la visione della casa dei miei genitori, il balcone deserto, le
finestre chiuse, apparizione insolita, priva di vita, funesto presagio di
quel che stavo per capire. Vidi il corpo senza vita di mia madre alla
funeraria Rivero, proprio vicino al mare, lugubre luogo di morte così
appresso alla vita, agli schizzi del salmastro, ai giochi dei bambini sulle
scogliere della mia giovinezza. Il primo incontro con la realtà della
morte di mia madre, ritratta nella fredda obiettività delle parole
scolpite. Avrei voluto dire con il poeta: “Non voglio vederla!”. Ma non potevo.
Accanto a lei il volto invecchiato di mio padre, triste e ombroso. Vecchio
mio, quanto tempo senza vedersi e adesso di nuovo insieme per condividere tanta
tristezza. Parole che avrei voluto dire ma che non pronunciai, non ero in
un romanzo, in quel momento non servivano parole, né artifici verbali, serviva
soltanto il silenzio. Mia madre avrei voluto ricordarla quando mi chiamava
dal balcone d’una polverosa strada di Gibara per dirmi che mio padre era
rientrato, che era pronto il pranzo. Avrei voluto tenere a mente i suoi
silenzi quando partimmo per L'Avana, poveri e senza casa, in cerca di
fortuna. Avrei voluto rivederla armeggiare ai fornelli d’una cucina
economica, mentre separava i fagioli buoni dai legumi avariati per
poi scegliere i chicchi di riso da lessare. Avrei voluto credere
che facesse parte del sogno - sequenza onirica d'un film troppe volte
temuto - anche il funerale di mia madre. In fondo non era cambiato niente. Lei
era morta e tutto andava avanti allo stesso modo. Il parco era lo stesso, le
stesse persone andavano a sedere sulle panchine, gli stessi ragazzini
giocavano con scivoli e altalene. Tutto va avanti sempre allo stesso
modo. Eppure ogni giorno c'è qualcuno che muore. Era duro ammetterlo, ma la
sola differenza in quel tramonto triste sul lungomare era la
morte di mia madre. Scompariva il segno tangibile della mia infanzia, il
braccio amorevole che mi stringeva forte al suo petto, il sorriso
dolce del mio passato, la tristezza di troppe incomprensioni. Restavano
soltanto i ricordi. Ma non era poco.
Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
Nessun commento:
Posta un commento