domenica 18 agosto 2013

Ottantasette e non li dimostra



Il vecchio compie ottantasette anni. Sì, lo so, sono fuori tempo massimo, ne hanno già parlato tutti. Il Granma c’ha fatto un’edizione speciale, bontà sua, i giornali di mezzo mondo si sono affannati a fare riassunti, facendo finta di credere che il vecchio avesse detto qualcosa di nuovo. Un mio amico mezzo scemo, uno che non ci sta con la testa e scrive un blog, è ripartito con la vecchia storia Fidel è morto, non ha festeggiato il compleanno in pubblico, non s’è fatto vedere, e via col mambo delle puttanate in rete, che poi la gente ci crede e il governo smentisce. Da dieci anni a questa parte credo che il vecchio l’abbiano fatto morire almeno una dozzina di volte, ma è sempre resuscitato, più arzillo di prima. Ottantasette e non li dimostra, ha detto mio padre. Sarà merito di tutta la moringa che mangia, credo. Cazzo, non li dimostra, papà, sai quante volte vorrei essere morto per davvero prima di ridurmi in quelle condizioni? Il vecchio resta vivo, non si sa grazie a cosa, un po’ come questa rivoluzione che perde pezzi, come una macchina scassata che vaga per le strade polverose, un almendron. Il vecchio non avrebbe mai immaginato che la sua vita si sarebbe prolungata per altri sette anni. Nemmeno noi, a dire il vero, ma consolati, tanto fanno come se tu non ci fossi: lavoro privato, licenziamenti, dissidenti che espatriano, qui è tutto un casino, dammi retta, non credo che ti farebbe piacere capire come un tempo. Mentre tu ricordi l’Unione Sovietica, la crisi dei missili e i compagni coreani, un bel po’ di dirigenti del partito hanno messo da parte capitali immensi e vivono da nababbi. Non solo, si prendono in casa le servette orientali per fare i lavori domestici, proprio come una volta, proprio come quando c’era Batista e anche prima, al tempo dei proprietari terrieri. Barba mio, se ci fossi ancora tu nei tuoi cenci, mi sa che t’incazzeresti parecchio. Altro che moringa! Barba mio, ci mancano i tuoi discorsi fiume, ci facevi due palle come cocomeri, ma alla fine uscivi dalla piazza con la voglia di andare a zappare campi di patate per la rivoluzione. Ora l’entusiasmo è poco, da una parte un’invasata che pensa ai diritti dei gay, dall’altra uno Speedy Gonzales che teme persino la sua ombra, lui si regge sul Venezuela del camionista presidente, e noi, se non riusciamo a scappare, ci arrangiamo come possiamo. La politica? No, la politica non ci sta nella zuccheriera, come dice Varela. E non è roba per noi. Chi fa politica ha i suoi motivi, dove c’è un cubano c’è un partito, ormai lo sappiamo, l’unità resta un sogno, l’ultima volta che abbiamo fatto qualcosa di buono è stato nel 1959, ma guarda un po’ com’è finita. Il problema delle rivoluzioni è sempre lo stesso. A un certo punto si alza uno, recinta il campo, e dice: È mia. Un po’ come la proprietà privata. Pure la Rivoluzione - a volte - è un furto. Ai danni del popolo. Tu guarda l’Egitto. E allora basta parlare di politica, tanto a me non mi paga nessuno, posso dire quel che voglio, resta soltanto uno sfogo, un racconto, uno sberleffo al potere. Non scrivo su El Mundo, non scrivo su El País, non ho contratti milionari, ogni tanto un camajan d’editore mi manda cento euro, a volte pure di più, e vado avanti. Bastano, per non affogare la disperazione nel rum di strada, quello fatto con alcol di legno che fa più vittime del comunismo. Bastano per andare a caccia di mulatte nella notte, quando il Malecón illuminato dalla luna e percosso dal vento del Messico ti fa venire voglia di tenerezza e parole d’amore. Bastano per non pensare… 

Alejandro Torreguitart Ruiz 
L’Avana, 14 agosto 2013 

Traduzione di Gordiano Lupi

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