Il vecchio compie ottantasette anni. Sì, lo so, sono fuori tempo
massimo, ne hanno già parlato tutti. Il Granma
c’ha fatto un’edizione speciale, bontà sua, i giornali di mezzo mondo si sono
affannati a fare riassunti, facendo finta di credere che il vecchio avesse detto qualcosa di nuovo. Un mio amico mezzo
scemo, uno che non ci sta con la testa e scrive un blog, è ripartito con la
vecchia storia Fidel è morto, non ha
festeggiato il compleanno in pubblico, non s’è fatto vedere, e via col
mambo delle puttanate in rete, che poi la gente ci crede e il governo
smentisce. Da dieci anni a questa parte credo che il vecchio l’abbiano fatto morire almeno una dozzina di volte, ma è
sempre resuscitato, più arzillo di prima. Ottantasette
e non li dimostra, ha detto mio padre. Sarà merito di tutta la moringa che mangia, credo. Cazzo, non li
dimostra, papà, sai quante volte vorrei essere morto per davvero prima di ridurmi
in quelle condizioni? Il vecchio resta
vivo, non si sa grazie a cosa, un po’ come questa rivoluzione che perde pezzi, come
una macchina scassata che vaga per le strade polverose, un almendron. Il vecchio non
avrebbe mai immaginato che la sua vita si sarebbe prolungata per altri sette
anni. Nemmeno noi, a dire il vero, ma consolati, tanto fanno come se tu non ci
fossi: lavoro privato, licenziamenti, dissidenti che espatriano, qui è tutto un
casino, dammi retta, non credo che ti farebbe piacere capire come un tempo.
Mentre tu ricordi l’Unione Sovietica, la crisi dei missili e i compagni
coreani, un bel po’ di dirigenti del partito hanno messo da parte capitali
immensi e vivono da nababbi. Non solo, si prendono in casa le servette
orientali per fare i lavori domestici, proprio come una volta, proprio come
quando c’era Batista e anche prima, al tempo dei proprietari terrieri. Barba mio, se ci fossi ancora tu nei
tuoi cenci, mi sa che t’incazzeresti parecchio. Altro che moringa! Barba mio, ci
mancano i tuoi discorsi fiume, ci facevi due palle come cocomeri, ma alla fine
uscivi dalla piazza con la voglia di andare a zappare campi di patate per la
rivoluzione. Ora l’entusiasmo è poco, da una parte un’invasata che pensa ai
diritti dei gay, dall’altra uno Speedy Gonzales che teme persino la sua ombra, lui
si regge sul Venezuela del camionista presidente, e noi, se non riusciamo a
scappare, ci arrangiamo come possiamo. La politica? No, la politica non ci sta nella zuccheriera, come dice Varela. E non è
roba per noi. Chi fa politica ha i suoi motivi, dove c’è un cubano c’è un
partito, ormai lo sappiamo, l’unità resta un sogno, l’ultima volta che abbiamo
fatto qualcosa di buono è stato nel 1959, ma guarda un po’ com’è finita. Il
problema delle rivoluzioni è sempre lo stesso. A un certo punto si alza uno,
recinta il campo, e dice: È mia. Un po’ come la proprietà privata. Pure la
Rivoluzione - a volte - è un furto. Ai danni del popolo. Tu guarda l’Egitto. E
allora basta parlare di politica, tanto a me non mi paga nessuno, posso dire
quel che voglio, resta soltanto uno sfogo, un racconto, uno sberleffo al
potere. Non scrivo su El Mundo, non
scrivo su El País, non ho contratti
milionari, ogni tanto un camajan
d’editore mi manda cento euro, a volte pure di più, e vado avanti. Bastano, per
non affogare la disperazione nel rum di strada, quello fatto con alcol di legno
che fa più vittime del comunismo. Bastano per andare a caccia di mulatte nella
notte, quando il Malecón illuminato dalla luna e percosso dal vento del Messico
ti fa venire voglia di tenerezza e parole d’amore. Bastano per non pensare…
Alejandro
Torreguitart Ruiz
L’Avana, 14
agosto 2013
Traduzione
di Gordiano Lupi
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