da Voces n. 4 – Dicembre 2010 - rivista cubana indipendente
Cayo Hueso ti si infila sotto le unghie, ti si appiccica alla pelle con il tipico odore di kerosene e di acqua di fogna che lo distingue dai quartieri di Vedado e Cerro. Gli spazi della mia infanzia avevano il puzzo e il grigiore proveniente da un asfalto dove non si estendeva mai l’ombra degli alberi. Perché nel mio quartiere il verde più vicino si trovava al parco Trillo, unico luogo dove gli uccelli potevano rifugiarsi sopra un ramo.
Sono nata in un’isola compresa tra calle Infanta e la frontiera di Belascoaín, dove andare un passo oltre la tortuosa Monte o la Galiano piena di negozi, era come uscire dalla città, avventurarsi in periferia. Sono stata “una contadina di Centro Avana”, perché gli altri municipi mi sembravano così lontani come se per raggiungerli avessi dovuto prendere il treno che portava il latte. Ricordo il mio primo viaggio verso La Rampa e l’incanto di fronte all’enorme contrasto con la mia calle Jesús Peregrino, così anonima e noiosa da far sembrare immenso un edificio di tre piani. Essere un paesano del centro, un cittadino metropolitano, è il destino di chi ha il calcagno macchiato dalla polvere di San Lázaro e dalla ruggine di Carlos III.
Il quartiere come un isolotto e alla fine un enorme lavatoio, dove sempre qualcuno strofinava un lenzuolo. La vecchia casa in affitto divisa alla meglio chiudendo porte tra le stanze e ogni pezzetto difeso con forza dalle mire espansioniste dei vicini.
In una delle stanze un paio di bambine curiose, con le braccia allenate a trasportare secchi pieni d’acqua prelevati dalla cisterna, discutevano con le donne più rozze del condominio. Corridoio stretto, rum, partite di domino tra grida iniziali e finali, per concludere con la rissa, il coltello estratto al momento giusto, il grido di “tienimi cazzo, perché lo uccido”.
La fessura della porta come un posto in prima fila per assistere allo spettacolo della violenza. Alla donna di fronte ammazzarono il marito a colpi di machete e lei si salvò per miracolo, perché portava alcuni bigodini russi sulla testa che fermarono la lama prima di raggiungere il cranio. Due fratelli combattevano tra loro usando tubi al neon e le ferite si rimarginavano con difficoltà, per colpa - diceva mia nonna - di quella polvere bianca che contenevano le lampadine. La nostra vicina sniffava colla e dopo cadeva in un letargo che io e mia sorella mettevamo in relazione con la fame, perché si avvicinava alla nostra finestra implorando un po’ di zucchero.
Se sei cresciuto a Cayo Hueso tutti credono che porti il coltello al fianco e il pugnale nascosto in una calza. Ti osservano con la commiserazione riservata a un condannato pure se coniughi bene i verbi, pronunci la “r” e tieni lontano il gesticolare da strada, vera e propria difesa contro le aggressioni. Ti guardano e chiedono: “Sei di Centro Avana, vero?”, come se immaginassero il rumore di ciabatte nel corridoio, la parolaccia lanciata contro chi getta un mozzicone di sigaro sui panni tesi ad asciugare e l’andatura da guappo con i gomiti distanti dal corpo a ogni passo.
Una marginalità che nasconde tutto, dove è più facile soccombere che riuscire a fuggire. Quando frequenti l’università ti rendi conto che nessun ragazzo delle abitazioni popolari che abbondano nella tua strada siede tra quei banchi. “Perché devi andare tutti i giorni a scuola?”, mi chiedeva mia madre, in un luogo dove dedicare un pomeriggio a leggere un libro era un segno di debolezza, una provocazione più rischiosa che mettersi a discutere con il guappo del quartiere.
In un posto come questo la frattura tra la realtà dei discorsi, delle parole d’ordine, e la vera realtà composta di attaccabrighe e degradazione era ancora più notevole. I miei genitori si ostinavano a non farci sedere sul bordo del marciapiede della strada, come se evitando di vedere le cunette grigie non venissimo a sapere che vivevamo a Comala, il posto dei morti viventi, la riserva che nutre le prigioni, un altro pezzo di città dove l’apatia è a un passo e la bara a due.
Traduzione di Gordiano Lupi
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