giovedì 14 giugno 2012

Un passaporto un salvacondotto


di Yoani Sánchez

da El País
http://blogs.elpais.com/cuba-libre/2012/06/un-pasaporte-un-salvoconducto.html


Ha appena trentadue pagine, una copertina azzurra e lo scudo della repubblica impresso in primo piano. Il passaporto cubano sembra un salvacondotto più che un documento di identità. Grazie a lui possiamo superare la condizione insulare ma il solo fatto di possederlo non ci garantisce di poter prendere un aereo. Viviamo nell’unico paese al mondo dove per ottenere un documento di viaggio bisogna usare una moneta diversa da quella con cui pagano i salari. Il suo costo di “cinquantacinque pesos convertibili” per un lavoratore medio significa mettere da parte l’intero stipendio di tre mesi per poter ottenere un libretto in filigrana composto da fogli numerati. Quello che dovrebbe essere un documento rilasciato perché siamo nati in una determinata nazione, da noi è un privilegio riservato a chi possiede moneta forte, quei biglietti colorati che si possono ottenere solo comportandosi in maniera opposta a quanto afferma la retorica ufficiale.

Tuttavia, all’inizio di questo secolo XXI, non è più tanto insolito incontrare un cubano munito di passaporto, cosa molto rara negli anni Settanta e Ottanta. A quel tempo soltanto pochi eletti potevano esibire una credenziale che consentiva di prendere un aereo e raggiungere un aeroporto straniero. Siamo diventati un popolo immobile e i pochi che uscivano andavano in missione ufficiale o sceglievano la strada dell’esilio definitivo. Superare l’ostacolo del mare era un premio riservato ai fedeli mentre la gran massa dei “non affidabili” non poteva neppure sognare di uscire dall’arcipelago. Negli anni Novanta fortunatamente qualcosa è cambiato. Forse è stato l’arrivo in massa di turisti che ci hanno trasmesso la curiosità per il mondo esterno, o forse è stata la caduta del blocco socialista che ha messo il governo di fronte all’evidenza di non poter più regalare “viaggi premio” ai più leali. Quel che è certo è che in quel periodo si è andato perfezionando il meccanismo per uscire dall’Isola. L’accesso crescente alla moneta convertibile - grazie alle rimesse, al lavoro in proprio o alle attività illegali - ha contribuito a farci esplorare altri orizzonti. Nella maggior parte dei casi questo risultato si ottiene grazie alla solidarietà di un amico o di un parente residente in un altro paese, che finanzia gli alti costi di un viaggio. Se dipendesse solo dalle nostre tasche, saremmo in pochi a poter prendere un volo diretto in qualsiasi parte del mondo. Adesso il permesso di viaggiare non è più una prerogativa riservata agli eletti, anche se il governo ha mantenuto un filtro ideologico per evitare che i non conformi abbiano accesso a un regalo così prezioso. Fino a oggi vengono mantenute forti restrizioni per entrare o uscire dal territorio nazionale. Per noi che viviamo sull’Isola, il catenaccio si chiama “permesso di uscita” e viene concesso dopo aver esperito indagini e valutazioni di tipo politico. Gli emigrati vengono sottoposti a un simile procedimento prima di concedere o negare l’autorizzazione a entrare come turisti nella loro stessa patria. La decisione finale su entrambe le autorizzazioni è affidata a un’istituzione militare che si arroga il diritto di non dare spiegazioni. Per questo negli uffici dove si richiede la cosiddetta tarjeta blanca (carta bianca per l’espatrio, ndt) o nei consolati dove i nostri esiliati devono richiedere il visto d’ingresso, i drammi umani e i comportamenti arbitrari sono all’ordine del giorno. Chi esprime opinioni critiche, appartiene a un gruppo di opposizione o ha osato esercitare il giornalismo indipendente, raramente ottiene un permesso di viaggio. Un altro settore molto controllato riguarda le persone che lavorano nella salute pubblica che devono richiedere una licenza ministeriale per essere autorizzati a uscire. La situazione assume connotazioni drammatiche per certi emigrati che dopo decenni di lontananza dalla loro terra non vengono autorizzati a rientrare per riabbracciare la famiglia e i figli. Alcuni muoiono lontani, senza poter baciare la fronte della madre lasciata in patria e non possono guardare per l’ultima volta la casa dove sono nati. Un partito, un’ideologia al potere, si è attribuito il compito di regolare il nostro flusso migratorio, come se la piattaforma insulare non fosse casa, patria, rifugio, ma carcere, recinto, trincea. Per i fortunati che ottengono il loro permesso di viaggio, la seconda tappa del calvario consiste nel raggiungere un aeroporto e mostrare un passaporto che molti guardano con sospetto. L’alto numero di cubani che ogni mese rimane illegalmente in qualche angolo della terra, ci ha fatto entrare nell’elenco di coloro ai quali viene concesso mal volentieri un visto. Quando i miei compatrioti riescono a prendere la residenza in un altro paese e guadagnano una nuova nazionalità, tirano un sospiro di sollievo, perché sanno di poter contare su un documento d’identità capace di restituire il senso di appartenenza a un determinato luogo. Alcune brevi pagine, un frontespizio foderato in pelle e lo stemma di un’altra nazione, possono fare la differenza. Mentre quel libretto di colore azzurro dove c’è scritto che sono nati a Cuba resta nascosto in un cassetto, in attesa che un giorno sia motivo di orgoglio e non di vergogna.


Traduzione di Gordiano Lupi

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