di Lidoly Chávez Guerra
Traduzione di Emilio Guardavilla – www.emilioguardavilla.it
Alla vittoria del FMLN, in El Salvador
Manuela aveva tritato aglio per tutta la mattina e dalla cucina veniva un odore invadente che sapevo le sarebbe rimasto sulle dita per al meno tre giorni. La vidi riempire una scodella con agli pestati, uno dopo l’altro, ma non me ne preoccupavo troppo pensando fossero per la zuppa. Ma quando la vidi avvicinarsi all’aiuola e impastare l’aglio con la terra umida in una ciotola le dissi «ah, ora sì che sei impazzita davvero, tata, mangeremo terriccio condito?». «Non scherzare», mi disse, «che non appena finiscono la poche tortilla rimaste, penserò a prepararne alcune di fango», e si mise a ridere. Mi era sempre piaciuta la grassa risata di Manuela, quella che faceva intendere di non aver paura di niente al mondo. «Vieni», mi fece avvicinare, «vedi come allontana i formiconi?». Io non vedevo niente ma lei sosteneva che era a causa di tanto brulichio che da molto tempo non avevamo fiori. «L’aglio fa bene, disse.»
Giorno dopo giorno la guardavo tenere d'occhio l’aiuola. Invano si avvicinava con la punta del coltello per vedere se qualche germoglio era sbocciato. La terra era morta e i formiconi continuavano i loro bagordi come se niente fosse stato. Una mattina prima dell’alba Manuela mi tirò giù dal letto. «Sbrigati, andiamo a far visita alla Vergine», mi disse con il rosario tra le dita. Si mise l’unico vestito decente che usava per andare a Coatepeque e una mantiglia bianca. Pensai che fosse accaduto qualcosa di brutto ma non osai proferire parola. Dal canto mio, provavo a scoprire qualche gesto rivelatore che trasparisse dalle pieghe bluastre del tulle.
Della chiesa mi aveva sempre meravigliato il contrasto tra lo schiamazzo dei venditori di santini o candele e lo spaventoso silenzio della navata. Manuela camminava con passo risoluto e di tanto in tanto si segnava a più riprese davanti alle icone. Mi tirava per il braccio e quando si fermava bruscamente la spinta si esauriva facendomi scontrare con lei. «La croce!», mi sussurrò infine. A quel punto iniziai ad imitarla e quasi mi accovacciavo di fronte alle immagini delle sante. Giunse ad una panca e mi inginocchiai al suo fianco. Da vicino la sentivo sussurrare quelle orazioni che ancora oggi mi domando cosa avessero potuto significare. «Chiudi gli occhi», mi disse per prima cosa, e dopo «Andiamo!». La seguì quasi di corsa. Provai a adeguare il mio passo corto al suo stile distinto e impettito ma non ero ancora così sicura di me stessa. «Fiori, signorine» si ostinò un uomo interrompendo il nostro incedere. «Ne abbiamo già, grazie», disse Manuela e solo allora vidi l’enorme mazzo di dalie che aveva nell’altra mano. Da dove lo aveva preso? «Di sicuro è peccato rubare i fiori alla Vergine». Lei non rispose. Non sapevo se fare la faccia furba come se avessimo compiuto una bravata o tenere un atteggiamento di grave costernazione. Non volevo che la Vergine mi castigasse per la complicità in quella trasgressione. Mi accorsi di alcuni poliziotti ed ebbi paura perché la Vergine era troppo lontano per condannarmi e loro avevano in spalla dei lunghi fuciloni. Guardai Manuela che con sguardo insensibile, di una durezza impenetrabile, avanzava di fretta tagliando l’aria. Gli agenti le fischiarono e l’apostrofarono con volgarità. Non le capivo ma avevo imparato a riconoscerle dal tono. Erano fra le prime cose inculcavano a noi bambine. Manuela proseguì, e io, molto innervosita, pensai che ci avrebbero fermato per aver rubato i fiori a una santa. «Cammina, in fretta», disse Manuela e non ci fermammo più fino a casa.
Poi la vidi disfare il mazzo in piccoli ramoscelli. Laggiù, sugli scaffali del vecchio armadio c’era un altare che non avevo mai immaginato. Una ventina di santini, ormai ingialliti, riposavano insieme a dei vasetti di fiori secchi. Mi avvicinai e esaminai i volti del pantheon di Manuela. Non erano angeli innevati quelli che erano lì a guardarci dal cartone delle immagini. No, non erano come Santa Rita dal naso affilato e gli occhi azzurri o l’immacolata Santa Liduvina che avevo visto in un libriccino della settimana Santa, tutte bianche, belle e pudiche, con veli di broccato fino ai piedi. In quelle cartoline le vergini a volte ridevano, oppure fissavano tristi, verso il niente. Una suonava la chitarra e un’altra era vestita da militare, con stivali da uomo e il fucile appoggiato al suolo. Erano indigene, grasse o rugose, come la terra secca che non lascia fiorire niente.
Teneramente Manuela cambiò l’acqua dei vasi, sistemò i nuovi tralci vicino alle sante, parlò loro e lì pianse come una bambina. Prese in mano alcune stampe, menzionando i loro nomi come fossero state sue sorelle, più di quanto lo fossi io. La vidi portare dei fiori tutti i giorni. Delle volte lo faceva senza di me. Il suo altare si popolava di sempre più facce. Certe erano graziose. «Non possiamo soffrire ancora», le sentì dire, e qualcosa come «lotta» o «guerra» o «guerriglia». E tanta era la forza, o … non so … la fede così grande che metteva in quelle strane preghiere che non avevo mai sentito a messa, da essere sicura che, qualche volta, uno di quei tanti santini stropicciati, l’avrebbe ascoltata.
Lidoly Chávez Guerra
L'Avana, Cuba
Versione originale in castigliano:
Contatti del traduttore Emilio Guardavilla (Piombino, LI):
Lidoly Chávez – Laureata in Lettere all’Università dell’Avana. Ha lavorato come specialista presso il Centro Studi del Caribe della Casa de las Américas e come profesoressa associata presso la Facoltà di Arte e Letteratura dell’Univerità dell’Avana. Coordina la produzione editioriale di Ocean Sur.
Nessun commento:
Posta un commento