di Carlos Victoria - da Sinalefa n. 25
Il Mariel fu uno sparo. Un colpo che risuonò lungo un’isola passiva, legata, impregnata del sudore degli slogan. Un fragore che riuscì a svegliare persino me, uno scrittore che non era ancora scrittore, o che non è mai stato scrittore, pure se avevo scritto sempre fin dall’adolescenza (anche prima), e che in quel momento, aprile del 1980, a volte mi ubriacavo o mi ero appena svegliato dalla sbornia della notte precedente. Vivevo così da molti anni, operaio forestale nella parte visibile, e in quella occulta, tenace scribacchino di pagine di racconti, poesie e romanzi destinati a non vedere la luce. Io vivevo, adesso lo ricordo, come se la vita non contasse niente. Mi avevano detto così tante volte che non valevo niente, che negando ciò che chiamavano patria, socialismo, rivoluzione (o uno qualunque di quei tanti nomi) io negavo la mia stessa condizione umana, la mia dignità, il mio talento creativo, che alla lunga cominciai a credere che niente valesse la pena, né quei nomi, né la mia isola, neppure io. Bevevo e scrivevo. Scrivevo e bevevo. Soltanto i parenti, alcuni familiari, le persone care, mi facevano capire che non ero un fantasma, a volte con amore, altre con odio, perché un uomo in perpetuo stato di letargo può diventare odioso. Fu in quel preciso istante che risuonò lo sparo. Vedere Cuba sconvolta da quella febbre, dove si scatenarono gli istinti più bassi (maltrattare e colpire un compatriota perché decide di abbandonare la sua terra), vedere per la prima volta la reale possibilità di una fuga, di una vita che somigliava solo vagamente a ciò che intendevo per vita, mi risvegliò un istinto che credevo morto. L’istinto del cambiamento. Forse il più rischioso e il più prezioso di tutti gli istinti. Ci sono persone, molte persone, che non lo intravedono mai. Poveri loro. Oggi ricordo solo pochi dettagli di quei pazzi giorni. Ci sono cose che si dimenticano, anche per istinto. E sono passati venticinque anni.
Ricordo come in una nebbiolina gli atti di ripudio, tra botte, sputi (mia madre ne ricevette uno sulla guancia), uova e pietre scagliate con furore. Ricordo situazioni tragicomiche di donnaioli che si facevano passare per finocchi, di madri di famiglia che si fingevano lesbiche o puttane, di persone onorate che presentavano alla polizia documenti falsi che indicavano insoliti comportamenti delinquenziali, precedenti abietti, misfatti. Pure questo è Cuba. La violenza mischiata alla farsa. Ricordo soprattutto centinaia di imbarcazioni, enormi moltitudini di persone che affollavano le prue. Ricordo detenuti veri, bulli in carne e ossa, esibire i loro tatuaggi al sole, malfattori stupefatti, che la notte prima avevano dormito in carcere, rassegnati a dover scontare lunghe condanne, che adesso improvvisamente si lanciavano in mare. Ricordo, certo, la costa dell’isola, un istante di dolore e sollievo tipico di quando si dice addio a una passione che ha finito per consumarti anche le ossa. Così si allontanano gli amanti logori, divorati dalla disillusione. Chi non ha mai sofferto per un amore divenuto tortura e da cui è necessario scappare, vivo o morto, non sa di che cosa parlo. Ricordo che la costa era solo una linea. Poca vegetazione. Le onde finirono per cancellarla. Dopo cominciò un’altra vita. La parte migliore si descrive nei libri, nella fiction. Dice Cavafis (ma forse l’ho sognato, o ha detto qualcosa di diverso) che chi manda in rovina la sua vita in un luogo, finisce per mandarla in rovina anche in un altro. Mi sono sforzato di credere che non è vero. Grazie al Mariel abbandonarono Cuba decine di artisti e scrittori. Alcuni morirono. Altri cambiarono percorso e finirono per non tornare più a creare, soffocati da desideri lussuriosi, droga, dissipazione, malattie mentali, pigrizia e febbre politica, che contamina tutto quel che tocca. Molti di noi abbiamo resistito, ignorati dalla tenace sinistra e dalla tenace destra. Non arriviamo mai in tempo: sempre troppo presto o troppo tardi. Ma almeno raggiungiamo uno spazio dove possiamo essere noi stessi.
Traduzione di Gordiano Lupi
Carlos Victoria (Camagüey, 1950 – Miami, 2007). Scrittore cubano, collaboratore de El Nuevo Herald, autore di sette libri di narrativa. Raccolte di racconti: Las sombras en la playa, El resbaloso y otros cuentos, El salón del ciego, Cuentos 1992 - 2004. Romanzi: Puente en la oscuridad, La travesia secreta, La ruta del mago. Nel 1993 ha ricevuto il Premio Letras de Oro. Ha vissuto a Miami dal 1980 - anno dell’esodo del Mariel di cui parla in queste pagine - fino alla morte, sopravvenuta all’età di 57 anni a causa di un’improvvisa malattia.
Nessun commento:
Posta un commento