sabato 2 febbraio 2013

Il nastro infinito

di Yoani Sánchez - da http://blogs.elpais.com/cuba-libre/


Chiunque prenda una striscia di carta, piegando le sue estremità e faccia compiere a una di esse mezzo giro di torsione, sa che otterrà una figura unica. Si chiama Nastro di Moebius, in onore di uno dei matematici tedeschi che lo scoprì. Ma al di là di un intrattenimento e di un omaggio alla scienza, l’oggetto che avremo tra le mani rappresenta una sfida per comprendere forme e spazio. Se facciamo scorrere il polpastrello lungo una delle facce del foglio ci rendiamo conto che non esiste un interno e un esterno, ma che il nastro ha un solo lato. Torniamo sempre al punto di partenza, cominciando il percorso da uno stesso cammino.

Il film Una notte della regista inglese Lucy Mulloy, è molto simile a quella strana figura geometrica. Ispirato a una storia vera, realizzato per il grande schermo, al momento della proiezione produce una realtà simile a quella delle sue origini. I giovani in carne e ossa le cui esistenze sono narrate dalla pellicola sono stati interpretati da due attori esordienti che hanno finito per realizzare il sogno dei protagonisti reali. Il punto di partenza - ogni volta - di questo peculiare Nastro di Moebius è l’emigrazione. Il desiderio di fuggire da Cuba, anche se frustrato dai personaggi, si concretizza nel destino dei suoi interpreti. Quando Anailín de la Rua e Javier Nuñez hanno deciso di non raggiungere il Tribeca Film Festival e di restare a Miami, invocando la Ley de Ajuste Cubano, stavano piegando le punte di due dimensioni ben diverse: la fiction e la realtà, trasformandole in un identico e continuo lato delle loro vite.

Nonostante l’assenza di parte del suo cast, Una notte è uscito da quel festival con tre premi. Migliore regista esordiente, miglior attore - ex aequo tra i due protagonisti maschili - e anche migliore fotografia. L’ultimo premio è davvero meritato, visto il ritratto veritiero di interni ed esterni che fungono da cornice narrativa. La crudezza e la miseria di un’Avana che davvero poco assomiglia alla città degli annunci turistici, che mostrano sempre il Capitolio, il bellissimo Focsa o l’elegante Piazza della Rivoluzione. Invece di tutto questo, il film mette in evidenza la decadenza architettonica e urbanistica dei quartieri poveri, dimenticati dai processi di restauro e dalle rotte dei visitatori stranieri.

Le locationes sono state scelte per diventare parte inseparabile della storia, quindi lo scenario è un protagonista fondamentale. Alcuni personaggi secondari sono importanti, ma inferiori alla forza dell’ambientazione. Tra di loro, l’uomo che vende medicine illegali e nasconde il prezioso tesoro di farmaci in un letto finto; o il travestito dagli abiti attillati che staziona in uno di quei portali avaneri pieni di polvere e di oblio. Anche la donna malata di AIDS, in agonia come la sua stessa abitazione. Niente è esagerato in maniera fittizia, nessuna parete screpolata intenzionalmente, come la sporcizia non è messa a bella posta davanti alla macchina da presa. La decadenza è autentica e fa male quando si tocca.

La scenografia serve a incrementare un’atmosfera oppressiva che porta i protagonisti alla fuga. In un istante, anche lo spettatore sente il desiderio di prendere una rustica zattera e di gettarsi in mare per non vedere più tanta povertà fisica e morale. Non si può restare impassibili davanti allo schermo, perché la storia che racconta Una notte è come certe tragedie greche che sin dal principio fanno intuire il dramma. I personaggi principali sono trascinati nella disgrazia quasi senza poter fare niente. Prigionieri delle circostanze, spinti ad agire da una difficile situazione.

Una notte è, sin dal primo minuto, una pellicola senza sotterfugi, incentrata sul racconto di una generazione. Quella stessa generazione che ogni giorno ha ripetuto durante gli alzabandiera scolastici del mattino lo slogan: “Pionieri per il Comunismo! Saremo come il Che!” e che, nonostante tutto, oggi cerca disperatamente altro in cui credere. Sono proprio quei giovani che hanno meno di trent’anni che hanno finito per vivere in una Cuba deteriorata da un punto di vista etico dove l’ideale più condiviso è emigrare. La pellicola si distingue da buona parte della filmografia girata da stranieri sull’Isola, perché non cerca di strappare il sorriso, né si lascia irretire da stereotipi composti da rum, salsa e mulatte. Tutto questo, in una maniera o nell’altra, fa parte della storia, ma presenta un’intensa carica drammatica ed è visto come elemento di alienazione più che di godimento. Anche se dobbiamo dire che non si riescono a superare tutti gli schematismi. Come il musicista che improvvisa per strada mentre un gruppo di persone balla insieme a lui, immagine sin troppo vicina alle visioni stereotipate di Cuba molto diffuse all’estero.

L’amore visto come sfogo, come una zattera alla quale afferrasi in alto mare. Coiti fugaci, il tradimento sotto forma di seni o di organi sessuali, la menzogna nascosta sotto i vestiti e le allusioni sessuali come parte inseparabile del linguaggio urbano. Scarna forma di rappresentare la lussuria nazionale. Ben distante da quel mix di potenza e romanticismo nel quale tante volte si è cercato di racchiudere la passione dei cubani. La regista allude anche a una forma di affetto dolce, che si manifesta in un bacio quasi impossibile, dato nelle circostanze più avverse in cui si muovono i personaggi.

La vita di diverse famiglie si interseca tra i membri più giovani e i loro figli. Uomini che si muovono sempre tra la legalità e l’illegalità. L’eccellente interpretazione di Dariel Arrechada nel ruolo di Raúl, conferma che la scuola cubana di interpretazione continua a dare al mondo un gran numero di talenti. Apprezzabile anche l’uso di volti praticamente sconosciuti sul grande schermo, perché nelle produzioni nazionali si ripetono eccessivamente gli stessi nomi. Persino nella scelta musicale si evitano i luoghi comuni. Gli spettatori assistono a un vero florilegio uditivo, con canzoni che vanno da hip hop e reggaetón fino ai generi più tradizionali. Ritmi più moderni che sono la colonna sonora di molte sequenze.

La regista inglese ha assicurato che non era sua intenzione trasmettere un messaggio politico, ma “raccontare una storia composta di emozioni”. Ma a Cuba, narrare la realtà, ritrarre la vita contemporanea, è peggio che gridare uno slogan contestatario o scrivere centinaia di documenti dissidenti. Per questo Una notte è un colpo durissimo all’illusione, a quel che resta del paradiso ubicato nel Caribe che ancora è nella mente di molti che non lo vivono. Rappresenta anche un punto di partenza per tornare a sperare. Il finale della storia potrebbe essere interpretato come una nuova opportunità per ricominciare, anche se poche cose sono cambiate.

Novanta miglia tra Cuba e la Florida. Così vicino, ma così lontano. Così facile quando si immagina di attraversarle a bordo di una rustica zattera, ma così suicida quando si mette in atto il tentativo. Questo sembrano dire le onde che solcano il braccio di mare tra Cuba e gli Stati Uniti. Un mare che incita e spaventa e che nel film è presente sin dalla prima scena. Mentre stanno per scorrere i titoli di coda vediamo ancora quel mare irrompere in una spiaggia, forse per enfatizzare il punto di partenza nel viaggio di ritorno. Il cerchio che si chiude, il nastro di Moebious che ci riporta al medesimo luogo. A un’Isola che ci attrae verso di lei come una fatidica calamita.


Traduzione di Gordiano Lupi

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