Arriva il Papa all’Avana. Che bello. L’ultima volta che è successo scrivevo Vita da jinetera. Ma era un altro Papa. E io un altro Alejandro. Adesso scrivo meno. Ho da fare un sacco di cose più importanti e in fondo scrivere a che serve? L’arte non cambierà la vita, ammesso che le mie quattro cazzate abbiano qualcosa a che fare con l’arte. Vivere è molto meglio che scrivere. E io da un po’ di tempo a questa parte preferisco vivere. E poi di cosa potrei scrivere? Del Granma che esce a tutta pagina con un titolone dove dice che sarebbe penoso che il Papa incontrasse i dissidenti, ché i dissidenti non rappresentano nessuno, sono soltanto mercenari? Tranquilli, compagni del Granma, ché il Papa non incontrerà i dissidenti, non gli passa nemmeno per la testa, non li vede neppure, non perché siano mercenari, ma perché non hanno niente a che fare con il suo mondo, non è la società civile che interessa alla Chiesa. Il Papa, invece, pare che incontrerà Fidel, questo non sembra penoso ai compagni del Granma, ché Fidel Castro rappresenta Cuba, per aver vinto una rivoluzione nel 1959 e subito dopo aver abolito le libere elezioni. Bravi compagni del Granma con le lingue allenate a leccare il culo. Bravi davvero. Di cosa potrei scrivere? Di una Chiesa gerarchia che contraddice come sempre la chiesa missionaria dei Padre Conrado, dei preti coraggio a servizio del popolo, delle persone che condividono la vita dei poveri? Storia vecchia. Storia risaputa. Non interessa a nessuno. La Chiesa viene a Cuba per trattare posizioni di potere in un’isola vergine, nuovo terreno di conquista, adesso che hanno chiuso le Umap e i preti non li rinchiudono come antisociali. E allora aspettiamo l’arrivo del Papa. Hanno messo un altare in Piazza della Rivoluzione per dispensare l’oppio dei popoli ai comunisti convertiti. Meglio vivere, guarda. Meglio la mulatta che passa sculettante sul muretto del Malecon. Meglio la bottiglia di rum che mi sono scolato ieri sera. Tanto via da questo posto non me ne vado. Tanto cambiare non cambia, per quanto possano strepitare blogger e dissidenti. Serve sempre meno scrivere quando non è possibile farsi leggere, sempre ammesso che qualcuno abbia voglia di leggerti, a parte gli inquieti ragazzi della Sicurezza di Stato che ti leggono per dovere e dopo te la fanno pagare. Torno alla mia bottiglia di rum, al pensiero della mulatta che ondeggia il suo enorme culo da destra a sinistra, a tempo di rumba. Paradisiaca visione annebbiata dall’alcol mattutino, mentre mio padre legge il Granma e commenta: “Una volta i preti si mettevano in galera. Adesso viene il Papa e parla in piazza della Rivoluzione. Nemmeno fosse Chávez”. Non rispondo. Guardo la sua espressione allibita e sorrido. Mia madre è in cucina a dividere i fagioli avariati dai fagioli buoni, mentre sceglie i chicchi di riso migliori, per il pranzo di mezzogiorno. Mica è finita, babbo. Aspetta che il meglio deve ancora venire. Non glielo dico, però. Mi limito a pensarlo. Il suo vecchio cuore di rivoluzionario non reggerebbe il colpo. Meglio che viva giorno dopo giorno lo sfacelo del suo mondo e delle sue certezze. Per lui è dura accettare il disastro quotidiano, il fallimento di quel che ha contribuito a creare. Io ho soltanto ereditato tutta la merda che ci circonda, l’ho trovata confezionata come un cibo precotto. Un Papa all’Avana non mi cambierà la vita. Tanto più che non è il primo. Ormai ci abbiamo fatto il callo.
Alejandro Torreguitart Ruiz
L’Avana, 16 marzo 2012
Traduzione di Gordiano Lupi
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