Tutti gli scrittori sono macchiati del peccato originale. E io sono orgoglioso di averlo. Non posso diffondere le idee del Granma, che non sono le idee della Rivoluzione, ma di un uomo che cambia opinione al breve volgere del vento. Non diffondo neppure i veleni della CIA perché non so neppure che cosa voglia dire essere agenti della CIA. Nella nostra isola - se ascoltiamo i commentatori ufficiali - ci sono più agenti della CIA che nel resto del mondo, chiunque abbia qualcosa da ridire è un agente della CIA, non esistono libere opinioni. Eppure hanno detto questo i signori della stampa nazionale e di Cubavision, mi hanno incarcerato per cospirazione contro i poteri dello Stato, un’assurda idiozia. Fuori dal gioco era il frutto della mia disillusione, ma era pure l’ingenua reazione di chi credeva che fosse possibile migliorare e che a qualcuno interessasse cambiare. Un libro amaro, Fuori dal gioco, ma come disse Evtušenko, le verità amare sono pur sempre verità. Non mi sentivo un controrivoluzionario, anzi, volevo lavorare perché nascesse una vera rivoluzione, quella che ci aveva spinti a lottare tutti insieme.
Ho finito per scrivere un romanzo con un titolo ispirato a un verso del mio amico Roque Dalton, inizio e fine d’una vecchia poesia. Nel mio giardino pascolano gli eroi indignava la nostra nomenclatura, era un titolo che avrebbe prodotto un nuovo scandalo internazionale, un’appendice del caso Padilla che avevano risolto brillantemente, mettendomi a tacere. La Sicurezza di Stato non è composta da gente particolarmente intelligente. Gli agenti della polizia indagano, si fermano al titolo, considerano che pascolano soltanto le bestie, quindi il riferimento a un animale come potrebbe essere il cavallo (soprannome di Fidel Castro) finisce per inquietarli. Censurarono persino Passeggio del cavallo di Virgilio Piñera nella raccolta definitiva delle poesie intitolata La vita tutta, ma si dimenticarono di cancellarlo dall’indice. Quel pascolare degli eroi suonava come un insulto agli orecchi di allenati rivoluzionari che non accettavano il germe del dubbio. “Non possiamo finire come in Cecoslovacchia. Non possiamo permetterci scrittori che sostengono il fascismo. Non possiamo tollerare gente come Evtušenko, anticomunisti e antisovietici”, dicevano. Sapevano bene che Evtušenko era mio amico, che aveva apprezzato Fuori dal gioco, che condivideva dubbi e incertezze. Mi trovavo a dover discutere del contenuto di un libro con la polizia invece che con l’Unione degli Scrittori. L’analisi critica delle mie poesie proveniva dagli agenti della Sicurezza di Stato invece che da critici letterari e la struttura del romanzo era giudicata da un titolo, da un improbabile riferimento al cavallo, da una provocazione inesistente. Il mio romanzo volevano gettarlo nella spazzatura perché non piaceva a Fidel, perché lo giudicavano una merda ignominiosa, una cosa non pubblicabile, perché c’erano cose che non andavano neppure pensate, figurarsi se si potevano scrivere. Dovevo stare molto attento a quel che dicevo, perché avevo a che fare con degli stalinisti inquieti, gente che amava bruciare libri pericolosi, mettendo in pratica i peggiori insegnamenti di George Orwell e di Ray Bradbury. Avevo a che fare con persone che odiavano la cultura, soprattutto Raúl Castro, noto per la sua fobia contro gli intellettuali e per aver detto che la cultura non esisteva, per lui c’era soltanto il valzer. Verde Olivo si scagliava contro di noi, Fidel Castro taceva, Raúl Castro istigava, ma alla fine passarono il segno approvando l’invasione della Cecoslovacchia, pur dicendo che si trattava di un’amara necessità. Evtušenko aveva condannato l’invasione dall’estero e al suo rientro a Mosca non aveva subito rappresaglie, noi che vivevamo a Cuba, invece, non potevamo farlo, perché il Leader Massimo aveva detto che dovevamo approvare l’uso della forza contro i compagni che sbagliavano, come un’amara necessità. Non era possibile gridare la nostra verità di fronte a una squadra di poliziotti armati fino ai denti. Non restava che scrivere i nostri romanzi incompiuti, imperfetti solo per il fatto di essere scritti nel socialismo, nevrotici, disperati, come Lo scherzo di Milan Kundera, pubblicato a Londra nel 1965 dopo lo scandalo prodotto in Cecoslovacchia. Il mio romanzo si è salvato per miracolo dal cestino dell’immondizia dove il potere avrebbe voluto gettarlo, nascosto in un cesto di vimini, tra giocattoli e oggetti in disuso. Me lo sono portato via da Cuba nascosto in una borsa di nylon, insieme a tutte le lettere che mia moglie mi aveva scritto dagli Stati Uniti. Gustavo Castañeda, il mio nemico naturale, l’ufficiale della Sicurezza di Stato incaricato di rendermi la vita difficile, non fece perquisire la borsa, ormai non avrebbe avuto alcun senso, visto che Fidel Castro mi lasciava partire da Cuba. Castañeda mi regalò persino una bottiglia di rum perché brindassi negli Stati Uniti e non gli serbassi rancore. Gustavo amava il suo lavoro, credeva in quel che faceva. Perché avrei dovuto serbargli rancore? Era un uomo che aveva i suoi guai come tutti, un matrimonio fallito, una nuova moglie troppo giovane, un fratello suicida. Io me ne andavo da Cuba e lo vedevo ancora più piccolo di quanto fosse, un uomo raccolto nel blasone orgoglioso d’una divisa da maggiore, che restava in basso mentre il mio aereo prendeva il volo, escluso, come il tempo morto delle mie angosce. Partivo e stringevo tra le mie mani il mio tesoro nascosto in un sacchetto di nylon, guardavo dal finestrino quella miscela di verde e di luce che era la mia patria, mentre pensavo che la sola cosa che mi restava di Cuba era in quelle pagine così sofferte e disperate.
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