venerdì 12 agosto 2011

Fuga dall'Avana

Heberto Padilla

“L’estate stava finendo, il periodo più caldo dell’estate. Lui poteva cogliere i minimi cambiamenti della temperatura nelle narici, quando respirava. L’aria cominciava a farsi più delicata, non si respirava il vapore caldo, l’odore di foglie arrivava su dal giardino e gli lasciava in gola un sapore aspro e allappante, i giorni interminabili dell’estate che faceva riverberare l’asfalto e alzava una luce tremolante dalla terra, i giorni asfissianti (novanta per cento di umidità); tutta la gente affastellata alla ricerca dei pochi alberi rinsecchiti che davano solo un po’ d’ombra alla fermata degli autobus, le donne che si coprivano con vecchissimi ombrellini o con pezzi di giornale o borse, alcune dietro i pali della luce con il calore che gli colpiva il corpo, la schifosa e persistente estate umida dell’isola che odiava fin da quando aveva l’uso della ragione, il mare enorme e calmo della baia che negava ogni frescura, ardente come uno specchio che raddoppiava l’intensità del sole e divorava colonne e facciate, il sole bruciante che raggrinziva i volti ingialliti e li invecchiava prematuramente; il sole che odiava, risvolto umiliante della neve”.

Heberto avrebbe fatto volentieri una rivoluzione contro il clima di Cuba, sarebbe stato in prima linea per combattere il caldo opprimente che ti uccide sin dalle prime luci dell’alba e non ti abbandona neppure a notte fonda. Non era il suo maggior problema, in quel periodo, ma era in ogni caso un problema. Avrebbe voluto vivere un’altra vita, in un altro luogo, in qualsiasi paese; avrebbe affittato un appartamento in un posto qualunque purché fosse lontano dal posto dove era nato. Avrebbe cominciato a sentirsi libero, finalmente, anche se era irrimediabilmente fuori dal gioco. Nessuno avrebbe potuto reinserirlo. L’esilio uccide i poeti, li fa morire di nostalgia, di rimpianto, di sogni che non si avverano, di ricordi angosciosi. Finisce che pure l’odiato clima di Cuba non sembra così terribile nelle pieghe della memoria e allora il poeta vaga alla ricerca degli odori perduti, si perde nelle stradine della sua infanzia, tra puzza di maiale e fagioli, cattivo odore di orina nei portoni, buche sul selciato distrutto e polveroso.

Heberto non ha mai amato il mare della sua isola, non come lo amano gli europei e i nordamericani che attendono solo il momento di esporre le loro carni lattiginose al sole dei tropici per diventare d’un color rosso aragosta, proprio come quei crostacei che popolano il mare di Cuba e che divorano volentieri. Heberto ha amato un mare che significa nostalgia, un mare dove ti puoi specchiare nelle notti di luna guardando l’orizzonte, anche se gli avaneri preferiscono dare le spalle al mare e osservare le auto che corrono sul Malecón. Il mare per gli stranieri è l’oro di Cuba, regalato a piene mani come un sogno ad occhi aperti, come una consolazione ai tristi inverni e alle brevi estati. Il mare per Heberto è il ricordo d’un passato indimenticabile, di quando odiava il caldo appiccicoso dei tropici, di un caldo che adesso vorrebbe riscoprire nella fredda Alabama.


“Mi hanno espulso dal paese come un criminale, colpevole solo di aver scritto un libro di poesie e alcuni articoli in difesa d’un romanzo, colpevole di aver criticato la sola impresa del nostro passato, la conquista del potere da parte di un gruppo di rivoluzionari in lotta contro un tiranno. Il nuovo tiranno ha messo vecchie regole. Non si può criticare il tiranno. È controrivoluzionario”.

Heberto non voleva indossare l’uniforme stinta degli scemi gravi, non sognava la spontaneità della rivoluzione nascente, priva di istituzioni, di parlamento, di libere elezioni, non credeva alla democrazia diretta, al plebiscito per alzata di mano. Lui voleva un mondo nuovo, non il vecchio sistema addobbato di nuova retorica, non voleva un nuovo capo autoritario che si trincerava dietro discorsi rivoluzionari.

“Non comprendo gli europei che simpatizzano per questa specie di rivoluzione. Non accetterebbero niente di tutto questo a casa loro, però enfatizzano un sogno lontano milioni di anni luce dalle loro idee, giustificano una mostruosità che nel quotidiano combatterebbero ferocemente. Passione aprioristica, malati di comunismo caraibico, innamorati di Fidel Castro, del corvo che gracchia appollaiato sul ramo più alto e attende colombe ammaestrate posarsi sulle sue spalle”.

Heberto era fuggito dalla tirannia di un uomo, isolato dopo un processo stalinista e la rettificazione delle idee, demolito come uomo e come scrittore, ridotto a una larva, timoroso persino di pensare.

“Che cosa sta succedendo nel mio paese? Perseguitano le opinioni. Sono diventate un delitto. Vogliono farci perdere la nostra identità e farci impazzire. Noi cubani affrontiamo la vita con il sorriso sulle labbra, la presa in giro è la nostra difesa di fronte alle situazioni più drammatiche. Ma qui la misura è colma, ci vogliono far diventare pazzi di fronte alla tragedia di non poter parlare”.


Heberto aveva pensato a lungo che non sarebbero riusciti a soffocarlo. Non ce l’avrebbero fatta a distruggere le sue idee, ad annientare la sua opera, perché lui era uno scrittore, aveva vinto il Premio dell’UNEAC, era stimato, adorato dai discepoli, era un simbolo di libertà. E invece c’erano riusciti. Erano riusciti a farlo impazzire, facendolo ribellare contro qualcosa che non avrebbe mai potuto dominare.

“Me ne andrò di qui, prima o poi. Me ne andrò quando meno ve lo aspettate. E da lontano sarò la vostra coscienza critica che lancia strali verso l’ingiustizia, perché non metteranno mai a tacere un poeta”.

Un poeta lontano dalla patria non è come un poeta che lotta all’interno del dolore. Un poeta lontano dalla patria è stemperato dalla nostalgia e non conserva la stessa forza lontano dal suo quotidiano, dalla sua terra. Un poeta lontano dalla patria muore lentamente di follia e si consuma nel ricordo.

Heberto Padilla
 
“Fuori continuava a cadere la debole pioggerellina dell’inverno indefinito dell’isola. Sul muro della banchina si alzavano onde enormi che si infrangevano sulle scogliere e coprivano i giardini dell’albergo con una cortina di acqua nebbiosa. Il vento colpiva la pensilina delle finestre e il cartello della zona del parcheggio oscillava e i serramenti arrugginiti scricchiolavano. Era un paesaggio irreale, bello e per nulla cubano”.

Heberto rimpiangeva l’inverno cubano, il mite inverno dei tropici, la pioggia obliqua e fredda nordamericana l’aveva stancato, riempito di dolori fisici e morali, fatto sudare lacrime di nostalgia. Pensava che la sua terra aveva bisogno di un cambiamento, ma sapeva che era difficile, se non impossibile, perché tutto reclamava interesse politico, ma la politica non si poteva fare. Rivoluzionari e controrivoluzionari andavano d’accordo solo nelle convinzioni machiste, nel considerare la donna un oggetto, perché di solito le rivoluzioni le fanno i maschi, sono loro a fissare le regole. Heberto rimpiangeva il profumo intenso del galán de noche che pervade dei suoi aromi le notti cubane, ma anche il mar pacífico, che s’inerpica sui muri delle case e raggiunge le finestre, tra nidi di lucertole che saltano tra i rami e buganvillee spinose. Ricordava le tempeste improvvise del tropico che trasformavano una pioggerellina sottile, un vapore acqueo impalpabile, in grosse gocce che sbattevano sulle pietre del selciato e le facevano brillare d’una lucentezza nuova. Le tempeste tropicali allagavano l’anima e i pensieri, percuotevano quartieri in abbandono, balconi cadenti, facciate screpolate dal vento, muri corrosi dal salmastro. Piovaschi incontenibili che duravano pochi minuti e segnavano i limiti indefiniti delle stagioni. Heberto sognava la Quinta Avenida allagata, tra foglie cadute che si ammucchiavano vicino ai tombini, un cielo torbido e nero, confuso, senza uccelli, uno spettrale infinito grigio da film del terrore. Heberto ricordava i suoi eroi, perplessi come bambini, eroi incapaci di essere di nuovo uomini dopo tanto splendore, ricordava gli eroi sconfitti del suo passato costretti a pascolare in un verde giardino incantato.

“Dov’era l’uomo nuovo? Intorno a me vedevo soltanto vecchi eroi sconfitti che non avevano più la forza di parlare. Ero stato anch’io uno di loro e adesso partivo per un esilio infinito. Il Malecón sfigurava in un paesaggio senza colori, l’inverno avanero prendeva il posto dell’estate senza sfiorire in un autunno indeciso. Gli acquazzoni tropicali inzuppavano strade e vestiti. Restava lo sguardo sfacciato della nostra gente, la sola cosa che non avevano potuto cambiare”.

Heberto una notte non si svegliò ma continuò a sognare, gli sembrò di trovarsi ancora nella sua esquina avanera, come in una vecchia canzone di Willy Chirino. Dicono che gli eroi non muoiono mai e anche quando muoiono resta il loro ricordo, un simbolo per le future generazioni. Dicono che un ragazzino che volava in cielo a cavallo di una scopa, come un personaggio di Zavattini in Miracolo a Milano o di Virgilio Piñera nei suoi Cuentos Fríos, un giorno vide la sua anima volare sullo Stretto della Florida avvolta in una bandiera. Un colibrì cantava il rito funebre, mentre sull’altra sponda un popolo intero restava in attesa. Avrebbero festeggiato insieme con danze e balli fino all’alba, tra rumbe selvagge e guaguancó, leggendo poesie di José Martí e ricordando un poeta che non era riuscito a morire applaudendo.


Gordiano Lupi

Il racconto è ispirato al Caso Padilla, poeta cubano autore di Fuera del juego (1968), raccolta di poesie che nel 1971 gli costò la detenzione, un processo stalinista e infine l’esilio (1980). Si trattò del primo conflitto grave tra intellettuali e Rivoluzione che provocò il discorso di Fidel Castro agli intellettuali (Fuori dalla Rivoluzione niente!). Per chi vuol leggere Fuera del juego - in lingua originale e tradotto - lo trova sul mio sito scaricabile gratuitamente: www.infol.it/lupi.

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